USA, l’attacco dei repubblicani al diritto di voto e il rischio di un golpe di fatto
10 min letturaÈ un “long game”, un gioco sulla lunga distanza, quello che rischia di intrappolare gli Usa in un rovesciamento delle regole democratiche fino a portare a un golpe di fatto, quando si arriverà al prossimo appuntamento elettorale per la Casa Bianca, nel 2024. Il gioco è cominciato con i proclami di Donald Trump sull’illegittimità della vittoria di Joe Biden nel novembre scorso, e sta proseguendo con una miriade di leggi che molti Stati a guida repubblicana stanno adottando in queste settimane per limitare l’accesso al voto tra le fette di popolazione più svantaggiata, quelle più propense a votare per i democratici: minoranze razziali, classi meno abbienti. Il tutto mentre Trump continua, dall’esilio in Florida, a suonare i tamburi del complotto, pronto a rilanciarlo alla prossima occasione.
Il passaggio intermedio decisivo sono le elezioni di medio termine del 2022, in cui la posta in gioco è il controllo del Senato (attualmente a debole maggioranza democratica, solo grazie al voto della vicepresidente Kamala Harris) e della Camera dei rappresentanti, dove i democratici devono difendere una maggioranza di appena 6 seggi (218 a 212). Molti osservatori ritengono che la campagna di distorsione della realtà e di diffamazione messa in atto da Donald Trump l’anno scorso sia stata in realtà la prova generale di quel che potrebbe attendere gli Stati Uniti nel 2024, quando un partito repubblicano sempre più epurato delle sue voci più responsabili tornerà alla carica con nuovi candidati, e possibilmente anche con lo stesso Trump, e forte di una massiccia maggioranza al Congresso e negli Stati.
Dal primo gennaio 2021 al 14 maggio scorso, almeno 14 Stati hanno promulgato 22 nuove leggi per restringere l’accesso al voto. E almeno altre 61 sono in fase di approvazione in 18 parlamenti statali. Secondo il monitoraggio del Brennan Center for Justice, è il numero più alto di leggi volte alla soppressione del voto dal 2011, anno in cui 19 leggi restrittive furono emanate in 14 Stati. Si tratta di Stati a guida repubblicana, e le leggi hanno come obiettivo il rendere più difficoltoso l’accesso al voto, in diversi modi. “Le leggi restrittive del 2011 furono la reazione all’elezione, nel 2010, del primo presidente nero”, dice il Brennan Center. “Gli attacchi al voto di oggi hanno un’origine simile: le accuse razziste di voto fraudolento che stanno dietro alla Big Lie (la teoria complottista sostenuta da Trump per cui l’elezione di Biden sarebbe una “grande bugia”) e la volontà di impedire che le future elezioni raggiungano l’affluenza storica del 2020”.
Ma cosa vuol dire, nella pratica “sopprimere il voto”? Le strade sono diverse, e tutte piuttosto efficaci.
Restrizioni sul voto postale
In 12 Stati sono state introdotte 16 leggi che renderanno più difficile esprimere il proprio voto per posta. Alcune di queste accorciano il tempo accordato all’elettore per richiedere l’invio della scheda (in Georgia il tempo è dimezzato). Altre rendono più difficile l’invio automatico delle schede anche se si è già votato così in passato: ad esempio, si proibisce alle autorità elettorali locali di inviare i moduli per richiedere la scheda senza che ci sia stata prima una richiesta espressa da parte dell’elettore. Altre ancora rendono difficile la restituzione della scheda: in Arizona si sono anticipati i tempi di consegna, altre leggi limitano l’assistenza agli elettori per questa operazione, e in molti posti sono state eliminate le cassette postali dedicate. Altre leggi hanno ampliato i requisiti di identificazione della firma o imposto nuove richieste sui documenti di identità.
Restrizioni al voto di persona
Nuove leggi restrittive sui documenti di identità renderanno più probabile la cancellazione dalle liste elettorali. In alcuni casi sono state cambiate le regole della registrazione, in modo che si crei confusione: in Montana la scadenza della registrazione al voto è stata spostata dall’Election Day al giorno precedente. Tre Stati hanno tagliato il numero dei seggi, il Montana ha autorizzato la riduzione dell’orario di voto, così come l’Iowa che ha anche accorciato il periodo di voto anticipato e la Georgia che ha introdotto specifici giorni e ore per andare a votare prima dell’Election Day. In Wisconsin si proibisce al personale delle case di riposo di incoraggiare o informare gli ospiti sulle opzioni di voto. E in Texas e in Georgia si vuole rendere più difficile il voter registration drive, cioè l’assistenza attiva al voto da parte di volontari, molto utilizzata dalle comunità afroamericane.
La gran parte di queste leggi sono concentrate in tre Stati: Texas e Michigan con nove leggi ciascuna (il Texas sta valutando una legge soppressiva “omnibus”) e Wisconsin con sette leggi. Il caso del Texas è emblematico. Come scrive il Washington Post, i repubblicani del Texas, “dichiarando guerra alla democrazia stanno montando un’azione di retroguardia contro un elettorato che sta evolvendo, congelando il potere del Grand Old Party (Gop) in modo che tra due, quattro o 10 anni gli elettori non potranno trasformare le proprie scelte in azione”. Il metodo scelto, cioè le leggi di soppressione del voto, “non solo rende più difficile per certi americani votare ma pone anche le basi per il caos elettorale”. L’obiettivo è screditare l’intero processo democratico, con i pubblici ufficiali incaricati delle elezioni sottoposti a minacce, umiliazioni, intimidazioni e persino a rischio di denuncia: “Un processo che potrebbe sfociare nella cancellazione totale delle elezioni se i repubblicani non dovessero vincere. Se pensate che le elezioni del 2020 siano state un caos, aspettate a vedere cosa (i repubblicani) hanno in serbo”.
Più poteri ai rappresentanti di lista
Le nuove leggi incoraggeranno prima di tutto il caos nei seggi, creando limitazioni e pregiudizi di frode a carico degli ufficiali elettorali (con tanto di multe anche per semplici errori tecnici, come in Arkansas), contemporaneamente incoraggiando e ampliando la possibilità di intervento di quelli che qui chiameremmo i “rappresentanti di lista”, ovvero i partisan poll watchers. Immaginiamo un’armata di osservatori animati dal sacro fuoco del complotto anti Trump con accesso non solo ai seggi ma anche allo spoglio delle schede (nuove leggi in Georgia e Montana). In Georgia un singolo osservatore può arrivare a contestare il diritto al voto di un numero illimitato di elettori al seggio, con il potenziale di scatenare caos e scoraggiare gli elettori a prescindere dalla fondatezza delle obiezioni. Ne è stato un assaggio quel che è accaduto in Arizona, con le schede della Maricopa County passate - su richiesta di un’azienda della Florida cui lo Stato aveva bizzarramente appaltato il riconteggio rivelatosi decisivo per la sconfitta di Trump - sotto i raggi ultravioletti per trovare tracce di bambù, e provare così che le schede contraffatte venivano dalla Corea del Sud.
L’arma del gerrymandering
Parallelamente alla soppressione del voto, i repubblicani intendono usare il ridisegno dei collegi elettorali per mantenere il controllo dei Parlamenti statali che le elezioni del 2020, nonostante i 7 milioni di voto popolare di vantaggio per Biden, hanno confermato nelle mani del Gop. Con il censimento del 2020 Stati solidamente repubblicani come la Florida e il Texas otterranno ancora più rappresentanti rendendo virtualmente impossibile per i democratici mantenere la risicata maggioranza nella seconda camera del Congresso.
L’obiettivo di queste manovre è una precisa fascia di popolazione: le minoranze, in particolare gli afroamericani che si sono dimostrati tra i segmenti decisivi del rovesciamento di Trump. Come scrive Ines Pohl della Deutsche Welle: “Si punta a minimizzare la possibilità per i neri e le altre minoranze di influenzare l’esito delle elezioni e mettere a rischio il controllo del potere da parte del partito repubblicano. Il partito cerca così di mettere al sicuro il proprio futuro in un paese in cui la maggioranza bianca sarà una cosa del passato nel giro di pochi anni”.
Il disegno non è del resto una novità: il partito repubblicano ha una lunga storia (di successo) nel prendere di mira il diritto di voto delle comunità più emarginate, da sempre ha incoraggiato situazioni di disagio e confusione ai seggi (lunghe file in giorni lavorativi, processi di identificazione con documenti spesso non alla portata di tutti, intimidazioni). Ha funzionato nelle elezioni di mid-term del 2018, quando sono stati 120 milioni gli elettori che non hanno votato pur avendone diritto. E la tattica non è neanche nascosta. Donald Trump l’ha rivendicata non più tardi dell’anno scorso quando in una delle molteplici apparizioni alla Fox ha denigrato gli sforzi dei democratici per facilitare l’accesso al voto in piena pandemia: “Hanno fatto cose da pazzi. Hanno permesso livelli di voto che se mai venissero approvati, non ci sarebbe più un repubblicano eletto in questo Paese”. Più chiaro di così…
La battaglia del For the People Act
E i democratici, Joe Biden, cosa fanno? Il rischio non è affatto sottovalutato, tant’è che il presidente ha promosso una legge federale onnicomprensiva, il For the People Act, che dovrebbe disinnescare le pulsioni degli Stati repubblicani. Approvata all’inizio dell’anno dalla Camera dei rappresentanti con il nome di H.R.1, la legge ha l’obiettivo di abbassare le barriere di accesso al voto semplificando la registrazione, autorizzando il voto anticipato e postale e limitando il potere degli Stati di cancellare gli elettori dai registri. Contiene anche misure di contenimento del gerrymandering (il ridisegno dei collegi) e degli investimenti in campagna elettorale.
Ma al Senato Biden non ha i numeri dalla sua parte, o meglio avrebbe una piccola possibilità se il fronte democratico fosse compatto. E non lo è. Qui infatti le cose si complicano, per motivi tattici che si incrociano con tecnicalità procedurali. Complicazioni che si riassumono in un nome: Joe Manchin, senatore democratico del West Virginia che ha già annunciato che non voterà per il For the People Act. Secondo lui è una legge troppo divisiva, non essendoci neanche un repubblicano disposto a votarla, e in una fase in cui il paese andrebbe riunificato e le priorità dell’amministrazione Biden dovrebbero concentrarsi sulla ripresa economica post-pandemia rischia di diventare un diversivo pericoloso per l’agenda democratica.
Su questo ultimo punto Manchin non è solo, ci sono almeno un altro paio di senatori che condividono le sue perplessità. E non a caso sono tutti “mosche bianche”, eletti in Stati - come il West Virginia - dove Trump ha stravinto per la Casa Bianca: come spiega il New York Times, “nel suo Stato le politiche progressiste democratiche non sono quelle di chi l’ha votato, e Manchin lo sa”. Per dirla con i numeri, Trump ha vinto in West Virginia con un margine di 39 punti: nessun deputato o senatore negli Usa è stato eletto in un collegio in cui il candidato presidente del partito avversario ha vinto con più di 16 punti. Manchin cammina sul filo.
Alla vigilia del voto in Senato, Manchin ha proposto una serie di emendamenti al For the People Act che dovrebbero andare incontro alle resistenze repubblicane, per esempio l’obbligo di un documento di identità “nazionale” per votare (molte persone hanno solo la patente, rilasciata dallo Stato) e la cancellazione delle limitazioni alle spese in campagna elettorale. L’ex presidente Barack Obama lo ha applaudito per lo sforzo “di compromesso”, ma anche questo passo potrebbe non essere sufficiente a salvare la legge.
La posizione di Manchin è doppiamente delicata perché con il suo voto potrebbe almeno sollevare il For the People Act dalla pratica del cosiddetto filibustering, la procedura parlamentare (simile all’ostruzionismo) che può dilazionare ed eventualmente bloccare l’approvazione di una legge e che può essere evitata con una maggioranza semplice, di 50+1 senatore - ovvero tutti i 48 senatori democratici, più i due indipendenti, più Kamala Harris. Ma Manchin non voterà per proteggere la legge sul diritto di voto da questa sentenza di morte certa. E il For the People Act potrebbe non essere l’unica legge unilateralmente voluta dai democratici che Manchin potrebbe boicottare: all’orizzonte ci sono impegni di spesa importanti, come il piano di investimenti da tremila miliardi di dollari per ambiente e infrastrutture su cui si incardina il programma di Biden per il post-pandemia, e per il quale non c’è consenso bipartisan al Senato.
La mobilitazione
Ma è sul diritto di voto che si gioca una partita che va al cuore della democrazia, e infatti la questione sta scuotendo le coscienze e mobilitando forze trasversali. Due settimane fa oltre 300 tra gruppi di difesa dei diritti civili, confessionali e sindacali “in rappresentanza di 2,5 milioni di americani da 43 Stati e dal District of Columbia” hanno inviato a Biden una lettera per chiedergli di fare “qualsiasi cosa sia in suo potere” per far passare la legge.
La ex first lady Michelle Obama ha messo tutto il peso del suo prestigio in difesa del For the People Act, con un post su Instagram in cui lo definisce “la nostra migliore possibilità di garantire che tutti noi abbiamo diritto di scelta in futuro”.
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In nome della “integrità elettorale”
Naturalmente le nuove leggi di “soppressione del voto” non sono tali per i repubblicani, che anzi le giustificano con il persistente mito della “frode elettorale” che si sarebbe consumata ai danni di Donald Trump nel novembre 2020, ovvero The Big Lie. La parola chiave è “integrità elettorale”, tanto che a Washington si è formato un gruppo di pressione/finanziamento/elaborazione teorica chiamato appunto Voter Integrity Fund, che sta fornendo agli Stati il “template” per formulare le leggi di soppressione del voto, o - secondo loro - di protezione dell’integrità del processo elettorale. Contemporaneamente, il gruppo (formato da ex membri dello staff della campagna di Trump e anche da ex impiegati della Casa Bianca) sta conducendo un’indagine a tappeto sui dati degli elettori del 2020 in almeno 6 Stati per appurare eventuali frodi elettorali. A dimostrazione che la cospirazione della Big Lie è ancora materia viva.
I agree with Timothy Snyder. This is where it's going, and there is presently nothing on the horizon that would stop it. https://t.co/osvhqph8IN pic.twitter.com/7NPzevHtZv
— Jay Rosen (@jayrosen_nyu) June 6, 2021
La fine del governo democraticamente eletto
Lo storico e scrittore Timoty Snyder descrive così la parabola del “long game” del Gop a guida (al momento) Donald Trump: “Lo scenario è questo. I repubblicani riconquistano Camera e Senato nel 2022, in parte grazie alla soppressione del voto. Il candidato repubblicano nel 2024 perde il voto popolare per diversi milioni di voti e il voto del Collegio elettorale con un margine di qualche Stato. I Parlamenti statali sostengono che ci sia stata frode e alterano il conteggio delle schede. La Camera e il Senato accettano il conteggio alterato. Il candidato sconfitto diventa presidente. Non abbiamo più un “governo democraticamente eletto”. E la gente è arrabbiata.
Immagine in anteprima: Tom Arthur from Orange, CA, United States, CC BY-SA 2.0, via Wikimedia Commons