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Ex Ilva: quale futuro per l’acciaieria di Taranto?

3 Giugno 2021 7 min lettura

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Ex Ilva: quale futuro per l’acciaieria di Taranto?

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Otto anni dopo la chiusura dell’inchiesta “Ambiente svenduto” da parte della Procura di Taranto e 6 anni dopo il rinvio a giudizio di oltre 40 imputati, lo scorso 31 maggio è arrivata la sentenza di primo grado nel processo relativo ai reati di concorso in associazione per delinquere finalizzata al disastro ambientale, avvelenamento di sostanze alimentari e omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro contestati alla gestione del gruppo Riva fino al 2013 del sito metallurgico pugliese “Ex Ilva”.

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L’indagine era esplosa nel 2012, riassume Francesco Casula sul Fatto Quotidiano, “quando il gip Patrizia Todisco accogliendo la richiesta della procura ionica dispone il sequestro senza facoltà d’uso dei sei impianti dell’area a caldo che, secondo quanto accertato in due maxi-perizie, una ambientale e una epidemiologica, attraverso le emissioni generavano nella popolazione ‘eventi di malattie e morte’. La procura sostiene che terreni, animali, prodotti caseari, come denunciato diversi anni prima dall’associazione ambientalista Peacelink, è contaminato da diossina e non solo”. 

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Lo scorso febbraio, al termine della requisitoria, i pubblici ministeri di Taranto hanno chiesto 35 condanne per un totale di circa 400 anni di carcere. La Corte di Assise di Taranto, dopo 11 giorni di camera di consiglio, ha emesso 26 condanne (tra dirigenti della fabbrica, manager e politici) per oltre 270 anni di carcere. Sono stati condannati gli ex proprietari Fabio e Nicola Riva rispettivamente a 22 e 20 anni di carcere (la richiesta della Procura era stata di 28 e 25 anni). Altro imputato ad essere stato condannato (a 3 anni e mezzo di carcere. I pm ne avevano chiesti 5) è l’ex presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola: era stato accusato di concussione aggravata per aver fatto pressione su ARPA Puglia affinché l’agenzia regionale per la prevenzione e la protezione dell’ambiente fosse meno severa nei confronti dell’ex Ilva. I giudici hanno inflitto inoltre 21 anni e 6 mesi all'ex responsabile delle relazioni istituzionali Girolamo Archinà, 21 anni all'ex direttore dello stabilimento di Taranto Luigi Capogrosso. L'ex presidente della Provincia di Taranto Gianni Florido, accusato di concussione e tentata concussione, è stato condannato a 3 anni di carcere. Questi reati Florido li avrebbe commessi in concorso con l'ex assessore provinciale all'ambiente Michele Conserva (anch'egli condannato a 3 anni) e con Archinà. È stato invece assolto dall’accusa di abuso di ufficio Ippazio Stefàno, ex sindaco di Taranto, "perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato". 

La maggior parte degli imputati condannati hanno annunciato ricorso in appello. Luca Perrone, difensore di Fabio Riva, ha dichiarato: «Nella condotta della gestione Riva non c'è mai stata nessuna forma di dolo, ma solo lo sforzo continuo di adeguare gli impianti e il loro operato ai limiti sempre più stringenti delle normative ambientali, limiti sempre rispettati». Per Nichi Vendola si tratta di «una giustizia che calpesta la verità. È come vivere in un mondo capovolto, dove chi ha operato per il bene di Taranto viene condannato senza l'ombra di una prova. Una mostruosità giuridica avallata da una giuria popolare colpisce noi, quelli che dai Riva non hanno preso mai un soldo, che hanno scoperchiato la fabbrica, che hanno imposto leggi all'avanguardia contro i veleni industriali. Appelleremo questa sentenza, anche perché essa rappresenta l'ennesima prova di una giustizia profondamente malata».

La Corte di Assise ha disposto anche la confisca degli impianti dell'area a caldo dell’acciaieria – cioè parchi minerali, agglomerato, cokerie, altiforni e acciaierie – e quella per equivalente del profitto illecito nei confronti delle tre società Ilva spa, Riva fire spa, oggi Partecipazioni industriali spa in liquidazione, e Riva forni elettrici per gli illeciti amministrativi per una somma di 2 miliardi e 100 milioni di euro in solido tra loro. Come spiega Domenico Palmiotti sul il Sole 24 Ore per quanto riguarda “la confisca degli impianti, non ha alcun effetto immediato sulla produzione e sull'attività del siderurgico di Taranto. La confisca degli impianti è stata chiesta dai pm ma essa sarà operativa ed efficace solo a valle del giudizio definitivo della Corte di Cassazione mentre adesso si è solo al primo grado di giudizio. Gli impianti di Taranto, quindi, restano sequestrati ma con facoltà d'uso agli attuali gestori della fabbrica. Gli impianti di Taranto sono infatti ritenuti strategici per l'economia nazionale da una legge del 2012 confermata anche dalla Corte Costituzionale”.

Questa sentenza in primo grado non sembra quindi avere conseguenze nell'immediato sulla realtà produttiva del sito siderurgico tarantino, che ha una lunga storia travagliata e complessa tra incidenti mortali nel sito, indagini giudiziarie, interventi della politica nel corso del tempo con svariati decreti governativi “salva Ilva” con l’obiettivo di permettere all’azienda di continuare a produrre e lavorare, con interventi di riqualificazione e piani ambientali da rispettare, anni di commissariamento statale e cambi di proprietà.

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Nel 2018 l'acciaieria è passata in mano al colosso franco-indiano ArcelorMittal. Appena un anno dopo il gruppo ha però annunciato il recesso del contratto per tre motivi: “Il venir meno dell'immunità penale sul piano ambientale; il rischio di veder spento l'altoforno 2 per la mancata adozione delle prescrizioni di sicurezza e, a seguire, per le stesse ragioni, anche degli altiforni 1 e 4; ‘il generale clima di ostilità’ che rende impossibile la gestione dell'azienda”.

A dicembre 2020, però, lo Stato italiano entra al 50% (per poi salire al 60%) in ArcelorMittal Italia attraverso Invitalia, società del Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF). Il MEF spiega che l'accordo fra Mittal e Invitalia per il passaggio del controllo dello stabilimento di Taranto prevede "un articolato piano di investimenti ambientali e industriali", con sostegni "in tecnologie per la produzione di acciaio a basso utilizzo di carbonio, tra cui la costruzione di un forno ad arco elettrico di 2,5 milioni di tonnellate". L’accordo viene poi finalizzato lo scorso aprile e nasce così la società pubblico-privata Acciaierie d'Italia Holding. "L'intesa – spiega Repubblica – si è perfezionata con la sottoscrizione di un aumento di capitale per 400 milioni di euro da parte di Invitalia che diventa così socio con una partecipazione del 38% del capitale azionario e con  il 50% dei diritti di voto. Entro maggio 2022 ci sarà un secondo investimento nel capitale fino a 680 milioni sempre da parte di Invitalia e a quel punto la partecipazione della società pubblica nel capitale di Acciaierie d'Italia salirà al 60%, mentre Arcelor Mittal dovrà investire fino a 70 milioni per mantenere una partecipazione pari al 40% e il controllo congiunto sulla società". 

Proprio su questo accordo tra Invitalia e Mittal, la confisca potrebbe avere degli effetti nel prossimo futuro. Nel contratto, infatti, vengono specificate delle condizioni sospensive: "La modifica del piano ambientale in vigore per tenere conto delle modifiche del nuovo piano industriale; la revoca di tutti i sequestri penali riguardanti lo stabilimento di Taranto; l'assenza di misure restrittive, nell'ambito dei procedimenti penali in cui Ilva è imputata nei confronti di Acciaierie d'Italia Holding o di sue società controllate". In caso contrario, Acciaierie d'Italia non è obbligata a perfezionare l'acquisto dei rami d'azienda di Ilva "e il capitale in essi investito verrebbe restituito".

C'è poi molta attesa per la pronuncia del Consiglio di Stato sulla stop dell'area a caldo dell'acciaieria. Questo ennesimo nodo giudiziario nasce con l'ordinanza di febbraio 2020 del sindaco di Taranto Rinaldo Melucci con cui aveva disposto che ArcelorMittal Italia e Ilva in amministrazione straordinaria individuassero entro 30 giorni dall'ordinanza le fonti inquinanti del siderurgico rimuovendole e, in caso contrario, stabiliva lo spegnimento degli impianti: "Altiforni, cokerie, agglomerazione, acciaierie". L'ordinanza era stata impugnata davanti al Tar (tribunale amministrativo regionale) di Lecce da parte delle due società. Un anno dopo, l'organo di giurisdizione amministrativa aveva respinto i ricorsi stabilendo 60 giorni dalla pubblicazione della sentenza perché gli impianti siderurgici fossero spenti in quanto fonte di emissioni. Per il Tar «deve pertanto ritenersi pienamente sussistente la situazione di grave pericolo per la salute dei cittadini, connessa dal probabile rischio di ripetizione di fenomeni emissivi in qualche modo fuori controllo e sempre più frequenti, forse anche in ragione della vetustà degli impianti tecnologici di produzione». ArcelorMittal ha così impugnato l’ordinanza davanti al Consiglio di Stato, la cui decisione è attesa a breve.

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Commentando la sentenza in primo grado nel processo "Ambiente Svenduto", il ministro dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti ha dichiarato: «Rispettiamo la sentenza, ma manca la pronuncia del Consiglio di Stato per avere il polso della situazione. A quel punto sarà possibile capire in che quadro giuridico lo Stato, in qualità di azionista, potrà operare. Servono certezze per dare una prospettiva di crescita e sviluppo ad ILVA e all’acciaio in Italia». Roberto Cingolani, ministro della Transizione ecologica, ha detto: «Dobbiamo aspettare la sentenza che arriva del Consiglio di Stato e capire cosa succede. Io ho fatto un piano per togliere il carbone all’altoforno, elettrificarlo e passare subito al gas per abbattere la CO2 del 30%, sperando di essere velocissimi sull’ulteriore passaggio all’idrogeno. Se però non si potrà andare avanti, è ovvio che questa cosa la dovrò fermare. Taranto va tutelata a tutti i costi, però le sentenze ci diranno che cosa succederà. Per me prima viene la salute, poi viene il PIL, poi viene il resto».

Foto in anteprima: "Skyline" by WABC Certified Business Coach • Counselor is licensed under CC BY 2.0

 

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