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Conflitto Israele-Palestina: perché questa volta è diverso. Ed è peggio

18 Maggio 2021 15 min lettura

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Conflitto Israele-Palestina: perché questa volta è diverso. Ed è peggio

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Israele e Hamas accettano il cessate il fuoco

Aggiornamento 21 maggio 2021: Il 20 maggio Israele e Hamas hanno annunciato di avere raggiunto un accordo per un cessate il fuoco dopo undici giorni di guerra, durante i quali sono stati uccisi 232 palestinesi e 12 israeliani. Che morte e distruzione stiano per avere fine è tutto da dimostrare. Il quadro è fluido e incerto. Sono 75mila le persone in fuga dai bombardamenti israeliani, avvertono le Nazioni Unite. Di questi, circa 47.000 sono stati accolti in 58 scuole gestite dall’Unrwa, l’agenzia dell’Onu per i profughi palestinesi, mentre altri 28.700 sono stati accolti in case private.

Centinaia di morti nella striscia di Gaza vittime dei bombardamenti israeliani e almeno dieci cittadini israeliani uccisi dai razzi lanciati da Hamas. L’ennesimo riaccendersi - come se si fosse mai spento - del conflitto israelo-palestinese è ridotto a un bollettino di guerra con recriminazioni da entrambi i lati. 

Questo conflitto non è però solo uno scontro tra Hamas e Israele. Anzi, inizia a Gerusalemme ben 27 giorni prima del lancio del primo razzo. È un conflitto figlio di un mese di tensioni su cui la guerra a Gaza mette “un tappo” senza risolvere nulla. 

Eppure, questa nuova fase di violenza offre alcuni elementi di novità. 

Il primo, è che la fase precedente allo scontro militare ha mostrato chiaramente il livello di polarizzazione e radicalizzazione interno a Israele. Fatte salve le colpe del gruppo militante Hamas che esamineremo più avanti, il conflitto è in parte figlio della pressione esercitata dai gruppi della destra israeliana e dalle associazioni di coloni. Il “kahanismo” - l’ideologia figlia di un’organizzazione considerata terroristica da molti Stati europei e dagli USA che sostiene la pulizia etnica di tutti gli arabi - non si nasconde più, ma sfila nelle città. Questo è il risultato di almeno un decennio di slittamento verso l'estrema destra del discorso pubblico israeliano nel perseguimento di uno Stato “etnico”, esclusiva proprietà dei suoi cittadini di origine ebraica. 

Il secondo elemento è la mobilitazione dei cosiddetti arabi israeliani, i palestinesi che nel 1948 rimasero a vivere nei confini del neonato Stato di Israele. Tradizionalmente gli arabi israeliani sono rimasti ai margini della vita pubblica e politica. La narrazione crescente che vede Israele come uno Stato etnocentrico, “the Jewish state”, mina la democrazia imperfetta israeliana spingendo i cittadini palestinesi a politicizzarsi. Le città con una forte presenza araba sono diventate terreno di scontro tra arabi israeliani e gruppi della destra ebraica. 

Terzo: anni di governi israeliani di destra hanno presentato la questione palestinese come un fastidio da gestire, non un problema da risolvere. In fondo neanche l’annuncio di Trump su Gerusalemme aveva riacutizzato la rabbia palestinese. Governo e establishment militare si sono convinti che lo status quo fosse stabile, ma è chiaro che non sia così. 

Il quarto elemento è la scomparsa dei palestinesi dal discorso pubblico della comunità internazionale. Analizzando la comunicazione politica di questi giorni è come se fosse avvenuta una sovrapposizione perfetta tra Hamas e i palestinesi che cancella l’esistenza di questi ultimi. Le ragioni dello scontro vengono così dimenticate e ridotte ad un attacco di un gruppo terroristico ad uno Stato, che è solo una parte della storia.

Sheikh Jarrah

Il conflitto attuale nasce dalle proteste dei palestinesi di Gerusalemme Est nel quartiere palestinese di Sheikh Jarrah. Alcuni media, anche italiani, hanno ridotto la questione a una semplice “disputa”. Il Ministero degli Esteri israeliano ha detto che si tratta di una questione “edilizia tra privati”, ma la questione è ben più profonda e importante. 

Il quartiere, a ridosso della città vecchia, è uno dei punti strategici e vitali nel controllo della città santa perché permetterebbe la contiguità territoriale tra i quartieri ebraici a ovest della città e le colonie in Cisgiordania che cingono Gerusalemme. 

Per questo Sheikh Jarrah è al centro di una politica estremamente aggressiva di espropriazione e colonizzazione. In pratica, il governo israeliano negli anni ha sistematicamente espropriato e demolito case palestinesi per insediarvi coloni israeliani protetti dall’esercito. L’ONU ha condannato l’ennesimo tentativo di esproprio - che ha fatto scattare le proteste - definendolo illegale dal punto di vista del diritto internazionale e addirittura un possibile crimine di guerra

Ai palestinesi di Gerusalemme Est viene costantemente negato il permesso di costruire nuove abitazioni. La popolazione - da quando Israele ha occupato tutta Gerusalemme annettendola nel 1967 a oggi - è aumentata a dismisura, mentre le unità abitative restano le stesse. Il risultato è un sovrappopolamento che porta i palestinesi o a trasferirsi in Cisgiordania - perdendo però lo status di cittadini di Gerusalemme Est - o a dover costruire illegalmente. La situazione di illecito amministrativo che si viene a creare secondo la legge israeliana, viene sfruttata dal governo per procedere all’esproprio, alla demolizione e alla colonizzazione.

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A inizio maggio, la corte suprema israeliana si sarebbe dovuta pronunciare su un caso di esproprio di alcune famiglie palestinesi portato avanti da un gruppo di coloni: al centro della disputa, degli appezzamenti che, secondo i coloni, 73 anni fa (nel 1948) erano di proprietà delle comunità ebraiche. La decisione era attesa in un clima già infiammato. 

Il 13 aprile, primo giorno di Ramadan, la polizia israeliana aveva impedito ai fedeli musulmani l’accesso ad Al Aqsa perché il presidente israeliano Rivlin avrebbe dovuto tenere un discorso al muro del pianto. Preoccupati che il discorso non si sentisse per via degli altoparlanti con le preghiere, i poliziotti israeliani avrebbero fatto irruzione sulla Spianata delle moschee per staccare il sistema audio. Fuori dalla porta di Damasco, intanto, la polizia allontana i giovani palestinesi che si radunano abitualmente li. Subito scontri tra polizia e palestinesi. 

Due giorni dopo, emerge un video di giovani palestinesi che schiaffeggiano un ultraortodosso. Da lì a breve quasi ogni giorno sui social sono apparsi video di episodi simili, con vittime israeliane e palestinesi. Nella notte del 22 aprile un gruppo israeliano di estrema destra ha marciato attraverso Gerusalemme Est cantando “morte agli Arabi”, causando scontri in cui sono rimasti feriti 100 palestinesi e 20 ufficiali di polizia israeliani. 

Il 6 maggio, gruppi di coloni guidati dal parlamentare Itamar Ben-Gvir hanno sfilato per Sheikh Jarrah. Ben-Gvir è stato filmato mentre invitava la polizia ad aprire il fuoco sui palestinesi e mentre insultava un attivista palestinese ferito da armi da fuoco. Alcuni coloni sono stati visti passeggiare nel quartiere con fucili d'assalto. Lo stesso giorno, dei palloni incendiari lanciati da Gaza hanno causato sei incendi nel sud di Israele. 

Nei giorni successivi la polizia israeliana ha bloccato di nuovo l’accesso alla Spianata delle moschee, portando sempre più palestinesi a fare un sit-in di protesta nel luogo santo. 

L’intervento della polizia e dell’esercito israeliano - che ha usato bombe stordenti e proiettili di gomma per disperdere i manifestanti - è stata l’ultima goccia che ha fatto traboccare il vaso, con i palestinesi che hanno risposto lanciando pietre. Le immagini dell’esercito che spara dentro la moschea di Al Aqsa - la terza moschea più sacra per l’Islam - hanno fatto il giro del mondo. 

Nel frattempo, mentre si attendeva ancora la decisione della corte suprema su Sheikh Jarrah, il governo israeliano annunciava di non voler rivedere il percorso della tradizionale marcia attraverso la città vecchia per il “Jerusalem Day” - un giorno di festa in Israele per celebrare la riunificazione della città nel 1967. Tutte le agenzie di sicurezza israeliane avevano criticato la decisione, ma il governo e la polizia di Gerusalemme si rimpallavano la responsabilità in un clima sempre più infuocato. All’ultimo minuto la marcia è stata dirottata, ma ormai la miccia era già accesa. 

Mentre per la terza notte di fila continuavano gli scontri sulla Spianata, gruppi di destra israeliani si riunivano al Muro del Pianto. Come se non bastasse, al culmine degli scontri a Gerusalemme, il gruppo militante di Hamas ha dato un ultimatum a Israele. Il gruppo militante ha annunciato che avrebbe attaccato Israele se le forze israeliane non avessero evacuato la Spianata delle Moschee. 

Israele

Israele si è ritrovata all’inizio di questo conflitto in una situazione particolare: la quarta elezione in due anni è finita nuovamente in un pareggio, con nessuno dei vari schieramenti politici capace di mettere insieme una coalizione di governo.  

Da un lato c’è una coalizione di partiti di destra, estrema destra e destra religiosa che fanno capo alla leadership del primo ministro Benjamin Netanyahu. Dall’altro c’è una coalizione eterogenea fatta di rimasugli di sinistra, centro e partiti altrettanto a destra. Lo scontro tra i due schieramenti non è tanto ideologico, quanto incentrato sulla figura controversa di Netanyahu, coinvolto in un processo per corruzione.

Negli ultimi 15 anni, il panorama politico israeliano ha subito una trasformazione enorme, con un evidente spostamento a destra tanto dell’opinione pubblica, quanto dei partiti che siedono in parlamento. Posizioni marginali fino ad una decina di anni fa, sono ora totalmente mainstream. 

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Le ragioni di questo storico spostamento a destra sono molteplici, ma vale la pena sottolineare il peso crescente dei cosiddetti coloni nella vita pubblica.

Le colonie - insediamenti israeliani in terra occupata militarmente e che apparterrebbe ad un futuro stato palestinese - sono illegali dal punto di vista del diritto internazionale, ma il loro numero è esploso negli ultimi anni. Le colonie hanno una duplice funzione dal punto di vista israeliano. Da un lato, consolidano il controllo sui territori occupati, mangiando terra e tagliando fuori i collegamenti tra città palestinesi. Di fatto, rendono impossibile una soluzione a due Stati basata sui confini del 1967. Dall’altro lato, il governo ha incentivato sempre più i propri cittadini a trasferirsi nelle colonie al punto che sono diventate una “soluzione” alla mancanza degli alloggi e al costo della vita. Alcune colonie sono delle vere e proprie città che offrono ogni tipo di servizio e la popolazione delle colonie cresce ad un ritmo maggiore di quello della popolazione Israeliana. Le stime variano, ma il numero di coloni in Cisgiordania avrebbe raggiunto i 475.000, cui vanno aggiunti altri 300.000 coloni a Gerusalemme Est. 

I coloni rappresentano il 5-7% della popolazione israeliana, esprimono ministri nel governo, hanno giornali e organizzazioni influenti. Il sostegno alla politica coloniale è diffuso e mainstream e i partiti rincorrono a destra il sostegno di questo gruppo elettorale. 

Tutto questo spostamento politico a destra si è accelerato negli ultimi 12 anni di governo del primo ministro Benjamin Netanyahu. Giunto al potere con una coalizione di partiti di destra, è singolare che gli unici avversari di Netanyahu siano stati suoi ex alleati con posizioni più estreme delle sue. 

Nonostante sia sotto processo per corruzione, Netanyahu è riuscito a non perdere nessuna delle quattro elezioni tenutesi negli ultimi due anni e a renderle sostanzialmente un referendum sulla sua persona. 

La grande novità di queste elezioni è stata la crescita dei partiti arabi. I cittadini israeliani di origine palestinese non sono mai stati particolarmente attivi politicamente e i partiti loro espressione non hanno mai avuto risultati significativi. Nelle elezioni del 2020, però, la lista unica dei partiti arabi ottenne 13 seggi in parlamento. Nelle ultime elezioni del marzo 2021, il partito islamista e conservatore Ra’am, uscito dalla lista unica, ha raccolto un ottimo risultato con quattro deputati. 

Ra’am ha scosso le fondamenta del sistema politico israeliano quando si è detto disponibile a entrare in un governo di coalizione con gli altri partiti (di centro, sinistra e di destra) che cercavano di disfarsi di Netanyahu. 

Le negoziazioni sembravano procedere bene, finché non si sono interrotte proprio in questi giorni per l’escalation di violenza. 

Qualche commentatore ha ipotizzato che Netanyahu, ancora primo ministro ad interim, abbia fomentato lo scontro politico attorno a Sheikh Jarrah e Gerusalemme per far saltare le negoziazioni e rimanere al potere. È uno scenario in parte cospiratorio, ma che potrebbe avere un fondo di verità. 

Il grosso problema interno alla società israeliana è che il conflitto di queste settimane ha riacceso gli animi anche degli arabi israeliani, da sempre emarginati politicamente. A Lod e in altri grossi centri urbani con una forte presenza araba, ci sono stati scontri tra cittadini israeliani di origine ebraica e araba. Il video del presunto linciaggio di un palestinese in Israele ha fatto scoppiare un’altra ondata di proteste e violenze. Per la prima volta il conflitto non è scoppiato solo ai confini, ma anche all’interno dello stesso Stato di Israele. Il governo di Tel Aviv e le forze di sicurezza devono decidere da che parte stare: proteggere indiscriminatamente tutti i cittadini israeliani o abbandonare ogni finzione sullo Stato etnico per cui solo i cittadini di origine ebraica godono di pieni diritti?

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Hamas

Puntualmente, allo scadere dell’ultimatum, Hamas e altri gruppi minori presenti nella Striscia di Gaza hanno lanciato una pioggia di missili su Israele. L’esercito israeliano ha risposto immediatamente bombardando la Striscia di Gaza. 

Dagli scontri tra israeliani e palestinesi a Gerusalemme, si è passati così a un conflitto tra Israele e Hamas con numerose vittime civili. 

Dal punto di vista militare questo round di violenza si distingue da quelli precedenti per la strategia adottata da Hamas. I gruppi armati presenti a Gaza hanno capito che il sistema di difesa israeliano “Iron Dome” - che intercetta i razzi e li distrugge in volo - può essere “saturato” lanciando una raffica di missili molto maggiore che in passato. Se si lanciano tantissimi razzi tutti insieme Iron Dome non riesce a intercettarli tutti e la percentuale di quelli che effettivamente colpiscono Israele è maggiore. Inoltre, ogni intercettazione di Iron Dome costa tra i 40 e i 50 mila dollari

Hamas è ben conscia che non riuscirà mai a vincere un conflitto profondamente asimmetrico, così come Israele sa che può benissimo gestire la situazione. 

Da un punto di vista militare le cose potrebbero cambiare solo se il gruppo islamista libanese di Hezbollah (che però è impantanato in Siria) decidesse di attaccare da nord e se le violenze interne tra israeliani ebrei e arabi dovessero sfociare in guerra civile. 

Perché quindi Hamas ha lanciato l’attacco? 

A fine maggio si sarebbero dovute svolgere le elezioni parlamentari palestinesi, le prime dal 2006 quando Hamas ottenne una sorprendente vittoria elettorale che portò il movimento islamista a intercettare gran parte del voto di protesta e a ottenere la maggioranza parlamentare. Senza supporto internazionale e tra mille difficoltà, il governo di Hamas durò pochissimo. Poco dopo, una breve guerra civile tra Hamas e Fatah (il partito del fu presidente Arafat) portò a una separazione di fatto tra Cisgiordania e Gaza. 

Fatah continuava a governare in Cisgiordania con il presidente Abbas, mentre Hamas governava la Striscia di Gaza. 

Facciamo un salto in avanti di 14 anni. Finalmente, tra mille difficoltà, Hamas e Fatah hanno raggiunto un accordo per organizzare nuove elezioni parlamentari a maggio e delle elezioni presidenziali a fine anno. 

Entrambe le fazioni avrebbero avuto da guadagnare: Abbas avrebbe avuto l’appoggio necessario per essere rieletto per un altro mandato, mentre Hamas - che sapeva di non vincere - avrebbe iniziato un percorso di riavvicinamento e istituzionalizzazione che l’avrebbe portata a entrare nell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina. Inoltre, Hamas avrebbe potuto cercare un modo per uscire dall’impasse in cui si trova a Gaza, dove la situazione economica e umanitaria è ingestibile, specialmente per un governo paria. 

A rompere le uova nel paniere sono stati due leader fuoriusciti da Fatah: Marwan Barghouti, leader della prima e della seconda intifada che sta scontando una serie di ergastoli nelle carceri israeliane, e Mahmoud Dahlan, vecchio capo della sicurezza a Gaza, uomo notoriamente corrotto che vive in esilio negli Emirati e pare abbia favorito gli accordi di Abramo.

Le elezioni sono state poi rimandate perché Israele non avrebbe permesso lo svolgimento delle stesse a Gerusalemme Est. Una condizione inaccettabile per i palestinesi, che avrebbero di fatto legittimato il pieno controllo israeliano sulla città. Il rinvio, in realtà, non dispiace né a Israele - che evita il rischio rappresentato da una vittoria di Barghouti - né ad Abbas, che mantiene saldo il potere. 

Perché quindi Hamas ha deciso di lanciare razzi su Israele scatenando i bombardamenti sui civili?  

Hamas è in profonda crisi di legittimità. Un po’ come successe a Fatah all’alba della seconda intifada, non può permettersi di lasciare ad altri la bandiera della resistenza a Israele. Per cui, in qualche modo, ha forse deciso di cavalcare l’onda di proteste attirando però i riflettori su di sé e togliendoli alla protesta di disobbedienza civile portata avanti dai palestinesi a Gerusalemme. 

Il risultato è che siamo qui a parlare e analizzare il conflitto tra Hamas e Israele. A commentare i civili israeliani nei bunker anti-missili e i bambini palestinesi uccisi a Gaza. La protesta di Sheikh Jarrah e la situazione a Gerusalemme è diventata per molti una “disputa”, mentre si fa la gara alla solidarietà e alla partigianeria da un lato e dall’altro. 

Che cosa rimane al di là dei morti? La polarizzazione tra le due parti aumenta, le possibilità di risolvere il conflitto diminuiscono. 

Nel mentre, c’è una enorme responsabilità della comunità internazionale nel modo in cui si parla del conflitto. 

Comunità internazionale

Cosa può fare la comunità internazionale in questo caso? In realtà poco o niente. I diplomatici sono occupati a chiamarsi a vicenda e a chiamare il presidente Abbas o il presidente israeliano Rivlin. In realtà, parlano con le persone sbagliate. Netanyahu fa orecchie da mercante, mentre solo in pochi parlano ufficialmente con Hamas. Inoltre gli accordi di Abramo hanno sancito ufficialmente che agli stati Arabi ormai interessa di più comprare armi e tecnologia da Israele per evitare una seconda Primavera Araba che trovare una soluzione al conflitto israelo-palestinese.

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L’Alto Rappresentante dell’UE Josep Borrell l’ha detto chiaramente durante un’intervista riportata dall’agenzia EFE. Gli unici che possono fermare questo conflitto sono gli Stati Uniti, chiamando Netanyahu e intimandogli di smettere i bombardamenti sulla Striscia di Gaza e offrendo indirettamente a Hamas una qualche forma di sollievo per la popolazione. 

L’alternativa è che il conflitto vada avanti per qualche altro giorno e poi - cosi come è iniziato - si esaurisca lasciando centinaia di morti sul campo. 

Gli Stati Uniti, però, non solo non sembrano avere intenzione di chiamare e imporre una tregua. Hanno bloccato per ben tre volte una risoluzione al Consiglio di Sicurezza ONU per chiedere il cessate il fuoco.

Nonostante parte dei Democratici sia sempre più filo-palestinese, Biden preferisce non esporre il fianco agli attacchi dei Repubblicani e dei loro alleati nella destra israeliana. Se Netanyahu dovesse sopravvivere politicamente, rischierebbe di trovarsi contro un nemico agguerrito pronto ad aizzargli contro l’opinione pubblica (cosa già successa con Obama). 

Biden in fondo ha risposto finora esattamente come hanno risposto i leader di mezzo mondo. In Italia Salvini e Letta sono stati uniti nel dare pieno sostegno a Israele e condannare Hamas. 

A leggere i comunicati ufficiali di politici e capi di governo sembra quasi che Hamas abbia lanciato l’attacco “così de botto senza senso” e che Israele si stia semplicemente difendendo. Non solo vengono meno le dinamiche complesse che hanno portato allo scontro, ma così la narrazione diventa impari.

Da un lato, i palestinesi scompaiono dal discorso pubblico. C’è una sovrapposizione totale tra Hamas e i palestinesi, come se le colpe di uno cancellassero l’esistenza di quelli che subiscono il conflitto sulla propria pelle. Dall’altro, la difesa sacrosanta del diritto dei cittadini israeliani a vivere in sicurezza cancella le colpe delle forze armate israeliane. 

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A Gaza l’esercito ha bombardato grattacieli che ospitano decine di famiglie, lasciandole senza casa in un posto in cui è impossibile costruire perché l’embargo sulla Striscia imposto da Israele lascia entrare solo poche tonnellate di cemento al mese. Gli uffici di Associated Press e di Al Jazeera sono stati distrutti, come a evitare che raccontassero il conflitto, dopo che l’esercito ha mentito ai giornalisti sul lancio di un’operazione di invasione via terra. Centinaia di civili sono stati colpiti e uccisi indiscriminatamente senza avere a che fare con obiettivi militari. Pare impossibile poter affermare pubblicamente che i cittadini israeliani abbiano il diritto di vivere in sicurezza e allo stesso tempo mettere in dubbio la condotta morale dell’offensiva militare. Ci si affretta a sottolineare come Hamas adotti una tattica vile e a giustificare i bombardamenti perché il gruppo militante “si nasconde tra i civili”, ma si dimentica che si tratta di un conflitto asimmetrico combattuto in una striscia di terra lunga 42 km in cui vivono 1 milione e mezzo di persone. E, soprattutto, che Hamas non sono i palestinesi.

Così se finora nella comunicazione politica sul conflitto c’era un eccesso di “both sides”, di dover bilanciare finemente ogni dichiarazione così che le due parti si annullassero, provate a leggere le dichiarazioni e i comunicati di politici e Stati europei: rimangono tracce del “both sides should de-escalate”, ma sono scomparsi i palestinesi.

Immagine in anteprima: The Israeli Air Force bombed the press offices in Gaza 2021 - Osps7, CC BY-SA 4.0, via Wikimedia Commons

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