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Educazione alla parità di genere e alle differenze: la scuola continua a essere la grande assente

14 Maggio 2021 7 min lettura

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Educazione alla parità di genere e alle differenze: la scuola continua a essere la grande assente

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Nelle azioni di contrasto alla violenza sulle donne la scuola continua a essere un grande assente. L’aspetto della prevenzione puntando sull’educazione è spesso tralasciato o non considerato dalle istituzioni, sebbene esperte e operatrici dei centri anti violenza ne sottolineino da anni l’importanza.

«Prevenire la violenza significa modificare completamente il modo di relazionarsi tra uomini e donne. Significa superare tutti quegli stereotipi che rafforzano la sensazione di inadeguatezza delle bambine, delle ragazze e poi delle donne, soprattutto rispetto a quei settori che finora sono stati appannaggio prevalentemente dei maschi. Questi stereotipi vengono interiorizzati fin dalla più tenera età perché vengono veicolati anche, più o meno consapevolmente, dagli e dalle insegnanti», ha spiegato a Valigia Blu Antonella Veltri – Presidente di D.i.Re Donne in rete contro la violenza.

Stereotipi che, come rilevato da un’indagine dell’Istat, sono ancora molto presenti nella popolazione. Tra i più comuni: “per l’uomo, più che per la donna, è molto importante avere successo nel lavoro” (32,5%), “gli uomini sono meno adatti a occuparsi delle faccende domestiche” (31,5%), “è l'uomo a dover provvedere alle necessità economiche della famiglia” (27,9%). Per quanto riguarda la violenza sessuale, il 39,3% della popolazione ritiene che una donna è in grado di sottrarsi a un rapporto se davvero non lo vuole, il 23,9% pensa che le donne possano provocare con il loro modo di vestire, mentre il 15,1% è dell’opinione se si subisce una violenza sessuale quando si è ubriache o sotto l’effetto di droghe si è almeno in parte responsabili.

Secondo Veltri «è su ruoli di genere improntati al riconoscimento e al rispetto della libertà di essere, di scegliere, di fare ciò che desiderano le donne, fuori dal controllo e dalle imposizioni maschili, che dobbiamo lavorare. E la scuola per questo è fondamentale».

Anche la Convenzione di Istanbul del Consiglio d'Europa – che l’Italia ha sottoscritto – prevede all’articolo 14 che i paesi firmatari si impegnino a “includere nei programmi scolastici di ogni ordine e grado dei materiali didattici su temi quali la parità tra i sessi, i ruoli di genere non stereotipati, il reciproco rispetto, la soluzione non violenta dei conflitti nei rapporti interpersonali, la violenza contro le donne basata sul genere e il diritto all’integrità personale”.

L’Italia, oltre a essere indietro rispetto al resto dell’Unione Europea sul tema dell’educazione sessuale – non prevista come materia obbligatoria, insieme a Bulgaria, Cipro, Lituania, Polonia e Romania – non si è mai dotata di un sistema che regolamenti l’educazione alla parità di genere e alle differenze nelle scuole. I pochi progetti che esistono sono iniziative dei singoli istituti, finanziati da esterni e spesso devono combattere con le proteste di organizzazioni e gruppi omofobi e contro la libertà di scelta.

I paesi maggiormente impegnati nella promozione dell’educazione sessuale sono più avanti anche nella diffusione di programmi riguardanti la parità di genere. In Svezia, dove già dal 1955 l’educazione sessuale è praticata nelle scuole e obbligatoria dopo i 12-13 anni, dal 1998 sono finanziati e promossi programmi finalizzati alla parità di genere. In Olanda l’educazione sessuale è entrata a scuola negli anni ‘60, e sono previste diverse ore di lezione dedicate alla conoscenza del corpo e delle relazioni anche per i più piccoli. In Francia perlomeno l’educazione sessuale è obbligatoria dal 1998, in Germania dal 1968.

«Nel nostro paese non c’è una cornice istituzionale chiara. La Convenzione di Istanbul prevede in maniera esplicita e per la prima volta in maniera strutturata che la violenza si combatte attraverso la prevenzione e che gli Stati membri si impegnano ad attivare percorsi, ma questo non si è mai tradotto nella pratica», spiega a Valigia Blu Giulia Selmi, vicepresidente della rete nazionale Educare alle Differenze, network di associazioni impegnate in progetti per una scuola più inclusiva.

Nel 2014, prima di diventare ministra dell’Istruzione, la senatrice Valeria Fedeli aveva presentato una proposta di legge che si chiamava “Introduzione dell'educazione di genere”, arrivata alla Camera, che mirava – nelle intenzioni dei firmatari - a introdurre nei programmi scolastici “l’insegnamento a carattere interdisciplinare dell’educazione di genere finalizzato alla crescita educativa, culturale ed emotiva, per la realizzazione dei principi di eguaglianza, pari opportunità e piena cittadinanza nella realtà sociale contemporanea”.

Il disegno è poi confluito nella legge 107 del 2015, la cosiddetta “Buona Scuola” voluta dal governo guidato da Matteo Renzi, che all’articolo 1 comma 16 promuove “l’educazione alla parità tra i sessi, la prevenzione della violenza di genere e di tutte le discriminazioni”.

«Sono tre righe che dicono sostanzialmente che dobbiamo essere tutti uguali, non ci devono essere discriminazioni e che la scuola si impegna a farlo», commenta Selmi, spiegando come la previsione sia rimasta «lettera morta per lungo tempo, perché una legge senza politiche applicative, regolamenti e fondi non vuol dire niente».

Successivamente è stato emanato il Piano nazionale per l’educazione al rispetto nelle scuole del Ministero dell'Istruzione dell'Università e della Ricerca (Miur) e sono state prodotte delle linee guida dirette agli istituti. Questi ultimi, nell'ambito dell'autonomia scolastica, vengono invitati a "fornire i supporti adeguati affinché ogni persona sviluppi un’identità consapevole e aperta" sostenendo le reciproche diversità "attraverso la conoscenza della nostra e delle altre culture in un confronto che non eluda questioni quali le convinzioni religiose, i ruoli familiari, le differenze di genere".

«Noi le chiamiamo le linee guida che non guidano: non si capisce bene cosa dovrebbe fare una scuola una volta che le recepisce, sono grandi affermazioni generali sul fatto che dobbiamo essere pari con alcuni riferimenti agli stereotipi del linguaggio. Ma non si dice nulla su relazioni, sessualità, mascolinità, orientamento sessuale, bullismo transfobico», afferma Selmi. Quello che fa in concreto il documento, aggiunge, è invitare gli istituti a prevedere questi programmi e quindi fungere da appoggio o gancio per insegnanti o dirigenti che hanno già motivazione a farlo.

Il risultato è dunque che i progetti esistenti negli istituti sono iniziative personali di insegnanti o dirigenti, finanziati da centri anti violenza, enti locali o fondazioni. Un programma, ad esempio, è “Libere di essere a scuola”, promosso dal network D.i.Re, che ha coinvolto 17 centri antiviolenza in varie parti d'Italia e oltre 1300 bambini e bambine dai 4 ai 7 anni. «Al centro c'è il tema del potere inteso come poter fare, poter scegliere, poter dire di NO, una questione di grande attualità in questi giorni, in cui si discute molto di stupri, stupri di gruppo, ai danni di ragazze. Il tema del potere – nel senso del verbo, quello che possiamo fare e non fare – è strettamente legato alla costruzione dei ruoli di genere», ha spiegato Veltri, presidente di D.i.Re.

Questo ordine sparso ovviamente produce una grossa disuguaglianza di fatto tra i territori, tra le diverse regioni e anche tra gli istituti: ci sono studenti che hanno accesso a un certo tipo di proposta educativa sulla parità di genere e altri che non la incroceranno mai (per questioni di sensibilità della dirigenza, per problematiche della scuola, scarsità di fondi eccetera). Una situazione speculare a quanto accade con i progetti di educazione sessuale nelle varie regioni italiane.

Spesso questi percorsi diventano bersaglio di gruppi ed esponenti politici di destra o legati a realtà ultra-conservatrici che protestano rumorosamente facendo saltare i progetti. Nel 2018, peraltro, una nota del Miur, guidato al tempo dal ministro leghista Marco Bussetti, ha riconosciuto il diritto al "consenso informato" dei genitori sui progetti extracurriculari e l'obbligo per le scuole di esonerare gli studenti le cui famiglie lo richiedano per le discipline non obbligaorie. Il provvedimento è stato salutato con grande favore da gruppi e organizzazioni gravitanti nella galassia del "Family Day".

«La scuola è un muro di gomma anche per questa questione del “gender”, che è stata venduta dagli ambienti cattolici come qualcosa di negativo, senza considerare la complessità della materia. È come se non si potesse parlare di cultura di genere», ha detto a Rita Rapisardi su La27esimaOra Cinzia Spaolonzi di "Femminile Maschile Plurale", un’associazione che dal 2008 che lavora per smontare gli stereotipi di genere.

Con questa motivazione l’anno scorso ad esempio a Roma una consigliera regionale leghista è riuscita a far annullare un evento di lettura di fiabe sull’inclusione in alcune scuole. È successo nel 2020 anche a un’iniziativa portata avanti da Selmi con la sua associazione bolognese. «Partecipavamo al Festival della violenza illustrata di Bologna organizzando dei laboratori in una scuola dove già avevamo lavorato varie volte. L’anno scorso in collegio d’istituto – dove siedono sia docenti che genitori – un gruppo minoritario ma molto rumoroso ha protestato perché doveva essere un laboratorio pomeridiano e non nelle ore curriculari e occorreva l’autorizzazione dei genitori».

Il Gruppo di esperti sulla lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (GREVIO), incaricato di vigilare sull’attuazione della Convenzione di Istanbul, ha constatato un "clima intimidatorio" e un crescente movimento di resistenza a questi corsi, spesso rafforzato da campagne di disinformazione sul loro contenuto.

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Per questo il GREVIO ha raccomandato all'Italia tra le altre cose di "proseguire gli sforzi per integrare nel sistema educativo l’uguaglianza di genere e l’informazione sulla violenza di genere in tutte le sue forme (...), assicurando un’ampia diffusione delle linee guida nazionali sull’educazione al rispetto in tutte le scuole e gli istituti professionali del paese e promuovendo la formazione iniziale e permanente obbligatoria degli insegnanti e di tutto il personale educativo su questi temi".

Secondo Selmi, il risultato della mancanza di una cornice istituzionale «è che siamo in una perenne mediazione al ribasso in cui tutti camminano sulle punte dei piedi perché queste cose turbano l’ordine costituito. Non c’è nessuno che si sia preso o si prenda la responsabilità di dire che questa cosa dell'educazione alla parità e alle differenze non è negoziabile, non è di parte».

Immagine in anteprima: Lucélia Ribeiro, CC BY-SA 2.0, via Wikimedia Commons

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