Colombia, continuano le proteste contro la riforma tributaria nonostante la violenza brutale della polizia che ha già fatto oltre 30 vittime
6 min letturadi Susanna De Guio e Gianpaolo Contestabile
Trentuno manifestanti uccisi dalla polizia, 216 casi di aggressioni violente, di cui 18 con lesioni oculari, 10 casi di violenza sessuale e di genere, 42 aggressioni dirette a difensori dei diritti umani e reporter e 1443 arresti arbitrari, questo, secondo la Campagna Defender la Libertad e l’organizzazione non governativa TembloresONG, è l’allarmante bilancio dei sette giorni di sciopero nazionale indetto dai sindacati colombiani.
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Il massacro che le forze di polizia stanno compiendo in Colombia ha ormai raggiunto l’attenzione internazionale, dai media indipendenti e sui social network emerge la richiesta di diffusione delle centinaia di abusi registrati, mentre si segnala la censura all’interno del paese con l’interruzione della Rete internet. Una dura condanna è arrivata anche dalle Nazioni Unite. Il 4 maggio un portavoce dell’Onu ha dichiarato: “Siamo profondamente preoccupati per come si è evoluta la situazione a Cali durante la notte, dove la polizia ha aperto il fuoco contro i manifestanti e diverse persone sono state uccise e ferite”.
Il 2 maggio il governo ha dichiarato il ritiro del progetto di legge della riforma tributaria che era il principale oggetto delle proteste, e il giorno seguente sono arrivate le dimissioni del ministro delle Finanze, ma di fronte al proseguire delle manifestazioni la risposta statale è stata la militarizzazione delle città. Dopo il ritiro della riforma decine di organizzazioni sociali, studentesche, sindacali, indigene, di Cali e della Valle del Cauca hanno rilasciato un comunicato dove si annunciava il proseguimento dello sciopero a oltranza, chiedendo il ritiro di tutto il “paquetazo” di leggi che include la riforma del lavoro, sanitaria e delle pensioni. Si esige inoltre la rinuncia del presidente Duque e giustizia per le persone uccise, ferite e torturate nelle caserme.
Sull’altro versante, Claudia Lopez, la sindaca di Bogotà appartenente al Partito Verde, ha chiesto ieri l’intervento dell’esercito per le strade della capitale. Il Centro Democratico di Uribe ha invitato Ivan Duque a dichiarare la Conmoción Interior, ovvero lo stato di emergenza che garantisce al presidente poteri speciali per vietare manifestazioni, rimuovere governatori locali e controllare direttamente i mass media.
Nelle ultime ore si sono moltiplicati i video che mostrano gli abusi della polizia, il dispiegamento di mezzi militari (in alcuni casi sono stati mobilitati carri armati) e vere e proprie scene di guerra nei quartieri popolari. La popolazione colombiana ha risposto esprimendo solidarietà attraverso fiaccolate notturne per ricordare le persone morte durante le proteste mentre nella capitale sono stati attaccati e dati alle fiamme 7 CAI, i presidi territoriali della polizia cittadina.
“Non ce la facciamo più”, è quel che si ascoltava il primo giorno di sciopero nelle strade, mentre i cartelli e gli slogan recitavano: “È peggio il governo del virus”. Lo racconta Edilson Monroy Machado, che si occupa di comunicazione popolare a Cali, la principale città della Valle del Cauca, dove lo sciopero e la partecipazione di piazza sono state particolarmente imponenti e sostenute fin dal 28 aprile. “Questa situazione di crisi economica, disoccupazione, con la chiusura di molte piccole e medie imprese nell’ultimo anno, contrasta con le spese smisurate e sfrontate del governo per finanziare nuovi blindati delle forze di polizia, pubblicità per migliorare l’immagine presidenziale, oltre ai benefici rivolti ai super ricchi colombiani”, spiega Edilson.
La riforma tributaria prevedeva l’imposizione dell’IVA su prodotti alimentari di prima necessità come caffè, uova, farina di mais, oltre all’estensione delle imposte sui salari medio-bassi, sulle pensioni e i funerali. Erano inoltre previsti un aumento della benzina, nuovi pedaggi autostradali e tasse per la circolazione in moto, tutte misure che avrebbero colpito direttamente l’economia della classe lavoratrice colombiana.
A questo si aggiunge la preoccupazione per un altro progetto di legge attualmente in Parlamento: si tratta di una riforma del sistema sanitario che aggrava la privatizzazione del sistema medico e peggiora le condizioni di lavoro del personale ospedaliero. Non è un caso che, nonostante il picco di contagi che si riscontra oggi in Colombia, i lavoratori della salute abbiano espresso solidarietà con le mobilitazioni, anche a costo degli inevitabili assembramenti. La presidente di Medicos Unidos de Colombia, Ana María Soleibe ha dichiarato che “queste manifestazioni sono l’indignazione della società davanti alle politiche e al silenzio del governo per aiutare i cittadini” e ha denunciato che in alcuni ospedali i lavoratori “hanno dovuto entrare in sciopero perché non vengono pagati anche per un anno intero.”
Non si tratta quindi di un solo progetto di legge ma di un pacchetto di riforme strutturali che sono al centro di un braccio di ferro tra governo e sindacati in corso ormai da anni. Le attuali mobilitazioni vengono infatti interpretate come il secondo atto delle rivolte popolari iniziate il 21 novembre 2019. Anche allora le proteste iniziarono con lo sciopero nazionale indetto dalle principali sigle sindacali per fermare le riforme di stampo neoliberale che prevedevano, tra le altre misure, la riduzione del salario minimo e nuove privatizzazioni del sistema pensionistico. Come oggi, al Paro Nacional del 2019 aderirono organizzazioni studentesche, indigene, femministe LGTBQ e di difesa dei diritti umani riuscendo a trasformare la vertenza sindacale in un ampio e variegato movimento di protesta contro il governo Duque, che denunciava anche il mancato rispetto degli Accordi di Pace e la repressione nei confronti di chi difende i diritti umani. Un altro elemento comune con le mobilitazioni del 2019 è il sostegno dello storico Consiglio Regionale Indigeno del Cauca, una confederazione di organizzazioni comunitarie che si batte per la difesa delle terre e dell’autonomia dei popoli originari e che è giunta in carovana dai territori indigeni alle manifestazioni. Inoltre, a inaugurare il Paro Nacional la mattina dello scorso 28 aprile, sono stati attivisti del popolo Misak che hanno abbattuto la statua del conquistatore spagnolo Sebastian de Belalcazar.
“C’è una relazione tra questo sciopero e quello del novembre 2019, è come riprendere quel che era rimasto in sospeso con l’arrivo del Covid”, commenta ancora Edilson Monroy Machado. “E quest’anno è scesa in strada molta più gente, e inoltre in un contesto pandemico, mentre la Colombia sta affrontando la terza ondata di contagi e i reparti di terapia intensiva sono pieni. È molto emozionante vedere famiglie intere, persone anziane che bloccano le strade per rivendicare condizioni di vita dignitose”.
Al contesto di grave crisi economica e sanitaria in Colombia si aggiunge la situazione dei diritti umani che da anni è estremamente critica. Secondo Front Line Defenders, delle 331 persone assassinate mentre difendevano i diritti umani nel mondo durante il 2020, 177 sono state uccise in Colombia. Già nel 2019, tra le principali rivendicazioni, c’era la fine degli omicidi di leader sociali e contadini, che ammontano a 57 solo in questi primi quattro mesi del 2021, così come degli assassinii e le sparizioni di ex combattenti Farc (22 dall’inizio del 2021) che nel 2016 hanno deposto le armi e firmato un accordo di pace. Quest’ultimo però è stato boicottato dal Centro Democratico, il partito di governo di Duque e del suo padrino politico Uribe, e non è mai stato rispettato dalle autorità statali.
La dura repressione delle proteste dell’ultima settimana in Colombia si colloca, dunque, in un contesto in cui il livello della violenza è costantemente alto ed è parte della politica di Stato. Già dall'1 maggio il presidente Duque aveva annunciato la militarizzazione delle città, con il rinforzo della polizia e degli squadroni speciali ESMAD, “fino al cessare delle gravi alterazioni dell’ordine pubblico”. A Cali l’escalation della violenza statale era già stata preparata la sera del 29 aprile, quando il ministro della Difesa, Diego Molano, si era recato in città portando con sé 700 poliziotti - tra cui componenti dell’ESMAD - e 300 soldati dell’esercito. Nelle dichiarazioni del ministro si giustificava l’ingresso di altri mille agenti con la necessità di combattere gli atti “criminali e terroristici” avvenuti in città. A gettare benzina sul fuoco ci ha pensato anche l’ex presidente Uribe Velez, capo dell’attuale partito di governo e indagato per i reati di corruzione, frode processuale e paramilitarismo, il quale ha lanciato un tweet dal suo account, che è stato poi rimosso dalla stessa piattaforma, in cui scriveva: “Supportiamo il diritto dei soldati e dei poliziotti a usare le loro armi per difendere la propria integrità e per difendere persone e beni dall’azione criminale del terrorismo vandalico”.
Sebbene si possa riconoscere una prima vittoria ottenuta con le intense manifestazioni di questa settimana - il momentaneo ritiro della riforma e le dimissioni del ministro delle finanze - il braccio di ferro con il Congresso e le leggi in corso di approvazione non è ancora terminato, e la mobilitazione ha preso la forma di un movimento di protesta contro il regime autoritario di Duque e Uribe che sembra destinato a crescere. Nonostante la brutale violenza e l’impunità delle forze di polizia e militari sia l’unica risposta che giunge dallo Stato, la popolazione colombiana continua quotidianamente a scendere in strada, a manifestare con una determinazione incrollabile. Come recitavano diversi cartelli durante le rivolte del 2019, “ci hanno tolto tutto, anche la paura”.
Immagine in anteprima: Remux, CC BY-SA 4.0, via Wikipedia