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“In qualche modo Breivik è ancora lì fuori”: la globalizzazione del terrorismo bianco a dieci anni dal massacro di Utøya

9 Maggio 2021 22 min lettura

“In qualche modo Breivik è ancora lì fuori”: la globalizzazione del terrorismo bianco a dieci anni dal massacro di Utøya

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21 min lettura

È il novembre del 2012 e Anders Behring Breivik è in isolamento nella prigione di Ila, in Norvegia. Qualche mese prima il tribunale di Oslo l’ha condannato alla pena massima di 21 anni per il massacro del 22 luglio 2011, che in tutto ha causato 77 vittime tra la capitale della Norvegia e l’isola di Utøya.

Il terrorista di estrema destra sa che passerà il resto della sua vita in carcere. L’ha sempre saputo. 

Il suo è stato un atto di guerra contro il “regime multiculturalista”: c’era da aspettarsi una reazione proporzionata da parte del nemico. Il sistema penitenziario norvegese permette però ai detenuti di scrivere lettere al mondo esterno; e Breivik ne approfitta per rivolgersi ad altri “crociati”.

“Cara sorella Beate!”, esordisce una lettera intercettata dalle autorità tedesche e pubblicata parzialmente su Der Spiegel, “spero che tu sappia l’inglese. Altrimenti spero che vorrai impararlo”.

“Beate” è Beate Zschäpe, l’unica sopravvissuta della cellula neonazista Nationalsozialistischer Untergrund (Nsu, Clandestinità Nazionalsocialista) e condannata all’ergastolo. Per tredici lunghissimi anni, tra il 1997 e il 2011, la Nsu ha seminato il terrore in Germania con omicidi – otto cittadini di origine turca, uno di origine greca e una poliziotta – attentati e rapine. E com’è emerso dal processo, l’ha potuto fare grazie al coinvolgimento di alcuni agenti dei servizi segreti interni che hanno coperto a lungo i crimini e depistato le indagini.

Per Breivik, Zschäpe non è un’assassina: è una “coraggiosa eroina della resistenza” che ha “sacrificato tutto per fermare il multiculturalismo e l’islamizzazione della Germania”. Nella lettera, tuttavia, fa notare che è più efficace colpire le “élite” – come ha fatto lui, sterminando i giovani socialisti – piuttosto che le “minoranze”.

Il terrorista norvegese dimostra comunque di provare un’affinità particolare per Zschäpe: “posso solo immaginare quanto sia stato difficile per te, sorella, affrontare tutto questo da sola”. Ma bisogna tenere duro, perché “siamo dei martiri della rivoluzione conservatrice”. Presto, scrive Breivik, altri seguiranno le loro orme.

“Siamo le prime gocce di una tempesta purificatrice che sta per abbattersi sull’Europa 😊”, chiosa il terrorista.

Alcuni dei reperti della strage: il tesserino falso e le mostrine della polizia usato da Breivik, la croce dei Templari e una bandiera della Norvegia. Foto via Wikimedia Commons

"Santo Breivik"

Breivik non è di certo il primo stragista ad agire per motivazioni politiche; ma è stato il primo estremista di destra – almeno nel Ventunesimo secolo – a compiere un attentato individuale di quella portata soprattutto per diffondere il suo manifesto di 1518 pagine, intitolato “2083 – Una dichiarazione europea d'indipendenza.

Il punto centrale del testo è che l’esistenza stessa dell’Europa bianca e cristiana sia minacciata mortalmente da una “invasione islamica” destinata a tramutare il vecchio continente in un incubo a occhi aperti chiamato “Eurabia”.

Da soli, però, i musulmani non potrebbero mai farcela; hanno bisogno dell’aiuto di traditori “autoctoni”, individuati da Breivik nei cosiddetti “multiculturalisti di sinistra”, nei “marxisti culturali” e nelle femministe, che secondo lui hanno infiltrato ogni ganglio istituzionale e mediatico. 

Il tempo di agire è ora, perché ogni giorno che passa ci avviciniamo sempre di più alla catastrofe. I “patrioti” – che lui chiama i “nuovi cavalieri templari” – devono darsi una mossa e iniziare a prepararsi per l’inevitabile guerra civile e razziale che si profila all’orizzonte. Una guerra che sarà vinta solo attraverso lo sterminio dei musulmani e prima ancora dei traditori di sinistra, esattamente come ha fatto Breivik.

L’aspetto più pericoloso del suo manifesto non è tanto quello ideologico – plagiato in larga parte da alcuni autori, su tutti il blogger norvegese Peder “Fjordman” Jensen – ma quello operativo

Centinaia e centinaia di pagine sono dedicate a quali armi scegliere e come procurarsele; a come far perdere le proprie tracce digitali per ostacolare il lavoro degli inquirenti; a come organizzare la logistica di un attentato senza destare sospetti; a come tenersi in forma; e persino a quali droghe usare per migliorare le proprie prestazioni.

In sostanza, Breivik non si è limitato a spiegare i motivi del suo gesto; ha voluto compilare un manuale per aspiranti terroristi, spronandoli a essere ancora più letali di lui. Del resto, come ha detto nell’udienza finale del processo, “rimpiango solo di non aver ucciso più persone”.

Proprio come si era prefissato fin dall’inizio, il terrorista norvegese ha assunto uno status iconico in certi ambienti della destra più radicale. Alcuni estremisti lo chiamano “il comandante Breivik” o addirittura “santo Breivik”, lodandolo per il suo high score (cioè l’alto “punteggio” di morti).  

Uno dei più ferventi sostenitori – scrive il ricercatore J. M. Berger su The Atlantic – è il neonazista statunitense Alex Linder, fondatore del sito Vanguard News Network: per lui, Anders Breivik ha inaugurato “il tempo della violenza” sparando “il primo colpo dell’’Era dello Sterminio del Nemico’”. Su Gab, una specie di Twitter dell’alt-right, il suprematista Jordan Jereb ha detto che “quest’uomo è un eroe. PUNTO”. Un’opinione analoga ce l’ha Brett Stevens, un blogger americano di estrema destra citato nel manifesto, secondo il quale Breivik “ha fatto sapere alla gente che essere di sinistra ha le sue conseguenze”.

In Europa, giusto per fare qualche esempio, l’ex eurodeputato della Lega Mario Borghezio ha detto che alcune delle idee di Breivik  “sono buone e in qualche caso ottime”; mentre la formazione estremista belga Schild en Vrienden, dietro l’apparente facciata di movimento giovanile, si era organizzata seguendo pedissequamente le linee guida del manifesto – al punto tale che il professore Jan Blommaert l’ha definita Breivikjugend, ossia “gioventù breivikiana” (un gioco di parole tra Breivik e la Hitlerjugend).

Altri però non si sono limitati agli elogi su Internet: hanno intrapreso la strada dell’emulazione, cercando di applicare nel mondo reale il suo modello.

Nel maggio del 2014 Elliot Rodger ha ucciso sei persone a Isla Vista, in California; qualche ora prima della strage il 22enne, che si autodefiniva incel (involutary celibate, celibe involontario), aveva caricato un video su YouTube e messo online un manifesto di 140 pagine in cui sosteneva di volersi “vendicare della società [che] mi ha negato sesso e amore”.

L’anno dopo, il 21enne Dylann Roof ha ucciso nove persone nella chiesa episcopale nera “Madre Emanuel” di Charleston. Anche lui aveva pubblicato sul suo sito un manifesto – poi rilanciato sulle imageboard anonime 4chan e 8chan – dove spiegava di voler innescare una “guerra razziale” e di dover passare all’atto perché “nessuno fa nulla tranne che parlare su Internet”.

Nel 2017 il luogotenente della guardia costiera statunitense Christopher Paul Hasson aveva iniziato ad accumulare armi, munizioni e steroidi ricalcando il manifesto di Breivik. Il suo obiettivo era quello di uccidere “quante più persone possibili” e fondare un etno-stato bianco negli Stati Uniti. L’attentato è stato sventato nel febbraio del 2019 dalle forze dell’ordine, che hanno parlato di “un piano per uccidere civili innocenti di una portata raramente vista in questo paese”.

E ancora: nell’ottobre del 2018, l’estremista 46enne Robert Bowers è entrato nella sinagoga “Tree of Life” di Pittsburgh armato di fucile AR-15 e due pistole. Ha urlato “tutti gli ebrei devono morire” e ucciso undici persone. Poco prima aveva scritto su Gab di non poter “stare con le mani in mano mentre la nostra gente viene massacrata” in un vero e proprio “genocidio dei bianchi”.

Chiaramente, afferma Berger, “Rodger non ha inventato la misoginia, così come Roof non ha inventato il razzismo o Breivik il fanatismo religioso”. Sono i loro “manifesti imbevuti di sangue” a fare la differenza, uniti a tecnologie in grado di infliggere più danni (e quindi fare più vittime) nonché ad un ecosistema mediatico e digitale con il quale è possibile raggiungere un “pubblico sempre più ampio e interattivo”.

L’articolo del ricercatore è stato pubblicato il 26 febbraio 2019, e si chiudeva così: “Abbiamo appena cominciato a patire le conseguenze di questi scritti”. Pochi mesi dopo, in Nuova Zelanda, si arriverà pericolosamente vicini al “punteggio” di Breivik.

"Abbonatevi a PewDiePie!"

Alle 5.01 di mattina del 20 dicembre del 2018, il 29enne australiano Brenton Tarrant si autoinvia questa mail:

Uccidi un invasore armato e ti danno una medaglia. Uccidi un invasore disarmato e ti prendi un ergastolo. La minaccia dell’invasione però rimane la stessa.

L’uomo si è trasferito da circa un anno in Nuova Zelanda, dopo aver girato mezzo mondo grazie all’eredità lasciatagli dal padre, essersi radicalizzato soprattutto attraverso YouTube e aver dato soldi a diversi movimenti di estrema destra. L’appunto contenuto nella mail è indicativo di quello che ha in testa: fare una strage di musulmani per fermare la “sostituzione etnica” in corso nel paese.

L’auto-addestramento è già iniziato da un pezzo. Tarrant reperisce armi e munizioni su Internet e le prova, ferendosi nel luglio del 2018 all’occhio destro e alla coscia. In un primo momento prova a resistere al dolore, ma poi è costretto a cedere: va al pronto soccorso dell’ospedale pubblico di Dunedin, dove lo curano senza fargli domande. Nessuno sospetta nulla, e del resto il 29enne è completamente fuori dai radar delle forze dell’ordine.

I preparativi vanno avanti fino al marzo del 2019, quando Tarrant decide che è il momento di agire. La sera del 14 parla un’ora al telefono con la sorella e mezz’ora con la madre: sembrava rilassato e contento, dirà quest’ultima. Alle 6.26 del giorno dopo posta sul suo account Twitter (che al momento non aveva follower) una serie di link a siti di filesharing; poi li mette su 8chan, accompagnandoli con questo annuncio:

Be’, ragazzi, è il momento di finirla con lo shitposting [una tecnica di trolling per far deragliare le discussioni online, n.d.r.] e fare le cose sul serio. Sferrerò un attacco agli invasori e lo trasmetterò in diretta su Facebook. […] Qui sotto metto anche i link ai miei scritti, fatemi il piacere di diffondere il messaggio con meme e shitpost come sapete fare voi.  

La diretta parte intorno all’una. Tarrant è in auto, si inquadra in faccia e dice “abbonatevi a PewDiePie” – un meme riferito a una campagna online risalente al 2018 per sostenere il canale di PewDiePie, nickname del gamer svedese Felix Kjellberg. A causa delle posizioni decisamente ambigue di Kjellberg sull’antisemitismo, il tormentone è stato adottato dall’estrema destra dentro e fuori la rete.

Dopo aver pronunciato la frase, l’australiano si sistema la telecamera sull’elmetto e si dirige verso la moschea di Al Noor a Christchurch con in sottofondo alcune canzoni – tra cui “Remove Kebab”, che celebra il genocida serbo Radovan Karadžić. Alle 13:40 entra nell’edificio e spara indiscriminatamente ai presenti; un quarto d’ora dopo si sposta al centro islamico di Linwood e apre il fuoco anche lì. Il massacro è spaventoso: muoiono 51 persone e 49 rimangono ferite, alcune delle quali in gravissime condizioni.

Il post con cui Tarrant ha annunciato l’attentato su 8chan

Mentre escono le prime notizie sui media – e il mondo inizia a rendersi conto dell’orrore di quanto appena accaduto – su 8chan l’eccidio viene celebrato praticamente in diretta. “Non è un larp [live action role play, ossia gioco di ruolo dal vivo], lo sta facendo veramente”, scrive un utente. “Cazzo! È un punteggio da dio!”, esclama un altro riferendosi alle vittime. “Numeri pazzeschi qui, ragazzi”, dice un altro ancora.

Dopotutto, come rileva il giornalista Robert Evans sul sito d’inchiesta Bellingcat, buona parte del manifesto di Tarrant è stato congegnato proprio per suscitare l’ilarità degli anon di 8chan. Il testo, presentato sotto forma di un’autointervista, è pieno di riferimenti a inside joke”, shitpost e meme popolari sull’imageboard creata dal 19enne Frederick Brennan nel 2013 e successivamente gestita da Jim e Ron Watkins.

Tra i vari, l’estremista riproduce il meme “Navy Seal Copypasta” (apparso per la prima volta su 4chan intorno al 2010); e sostiene che il videogioco “Spyro the Dragon 3” l’abbia radicalizzato introducendolo all’“etno-nazionalismo”.

Per il resto, a partire dal titolo (The Great Replacement, “La grande sostituzione”), si tratta di una specie di compendio del suprematismo e del neonazismo del Ventunesimo secolo. Tarrant si rifà alla simbologia di movimenti pre-nazisti (come quello Völkisch), cita miti dell’estrema destra americana ed europea, e incorpora concetti dell’alt-right e del nazionalismo bianco attingendoli da intellettuali come Richard Spencer (l’inventore del termine alt-right) e canali YouTube come Red Ice.

L’australiano si autodefinisce un “eco-fascista etno-nazionalista”, e sostiene di essere dalla parte di chi “fa qualcosa per fermare il genocidio etnico e culturale” come “Luca Traini, Dylann Roof, Anton Lundin PetterssonDarren Osborne”, il fascista britannico Oswald Mosley e molti altri che sono finiti nelle scritte sui caricatori usati per la strage.

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Il riferimento principale di Tarrant è senz’ombra di dubbio il terrorista norvegese. “Ho letto i testi di Roof e gli altri”, puntualizza nel manifesto, “ma la mia vera ispirazione è il Gran Cavaliere Giustiziere Breivik”. L’uomo afferma falsamente di essere stato in contatto con lui e di aver ottenuto la sua “benedizione”.

Di sicuro, al pari di Breivik e Roof, anche Tarrant è convinto di essere un crociato in prima linea nella lotta per la sopravvivenza della “razza bianca”. E come sottolinea il professore Ico Maly su Diggit Magazine, “quello che può sembrare un atto individuale offline assume una connotazione politica e sociale online”. 

Lo stragista di Christchurch, infatti, “vuole essere un esempio e persuadere altri maschi bianchi a diventare ‘soldati’” – e dunque a imbracciare le armi.

Ancora una volta, è esattamente ciò che succederà di lì a poco.

La gamification del terrore

Colin ha 25 anni e un lavoro part-time in un concessionario nella California del Sud. Uno dei suoi colleghi gli parla spesso di QAnon – la teoria del complotto secondo la quale le istituzioni americane e mondiali sono segretamente comandate da una cricca di pedofili satanisti – e di 8chan, da cui sostiene di trarre informazioni di prima mano.

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Incuriosito e disturbato dai discorsi del collega, la mattina di sabato 27 aprile 2019 il ragazzo si mette a spulciare l’imageboard. La sua attenzione ricade subito su un post che assomiglia ad una lettera di commiato: “È stato bello, ragazzi. […] La magia dei meme è reale. Possa il Cristo SIGNORE essere con voi”. C’è anche un link che rimanda ad un breve manifesto, dove l’autore dice di discendere da una “magnifica linea di sangue” e scrive che “non volevo uccidere gli ebrei, ma non ci hanno lasciato scelta”.

Il 25enne non sa se prendere sul serio quello che ha appena letto. Ma c’è un dettaglio che lo sconvolge: l’utente anonimo sostiene di aver bruciato una moschea a Escondido – una piccola città in California, a una ventina di chilometri da San Diego – e di “averla fatta franca”. Facendo una ricerca su Google, Colin nota che cinque settimane prima c’era effettivamente stato un attentato incendiario alla moschea. Quindi, no: non è uno scherzo.

L’uomo chiama subito l’FBI e segnala il post. La telefonata finisce alle 11:29; qualche minuto dopo, il 19enne John Timothy Earnest entra nella sinagoga di Poway – un città a pochi minuti di distanza da Escondido – e spara al rabbino Yisroel Goldstein, ferendolo alle mani.

Una donna, Lori Kaye, si frappone tra il rabbino e l’attentatore e viene uccisa dai colpi d’arma da fuoco. Altre tre persone rimangono ferite. L’attentatore scappa e viene arrestato non troppo lontano dalla sinagoga.

Il post su 8chan dove Earnest annuncia l’attentato

Il manifesto lasciato dal 19enne cita direttamente lo stragista di Christchurch come fonte d’ispirazione. E come Tarrant, anche Earnest ha disseminato il suo scritto di inside joke e shitposting: ad esempio, ha scritto che PewDiePie ha finanziato l’intera “operazione” – circostanza ovviamente non vera ma che serve a legarsi ancora di più a doppio filo con il predecessore, che ormai è considerato un “santo” protettore della “razza bianca” alla stregua di Breivik.

Su 8chan gli anon postano il link del manifesto apparso nel post originario (rimosso dagli amministratori dopo pochi minuti), e festeggiano l’attacco alla sinagoga; qualcuno però si lamenta che il “punteggio”, almeno questa volta, non è stato molto “alto”.

Andrà decisamente meglio – sempre per rimanere nell’ottica distorta della imageboard – qualche mese dopo a El Paso, in Texas. Intorno alle 11 di mattina del 3 agosto 2019, il 21enne Patrick Crusius irrompe dentro un Wal-Mart e spara sulla folla: muoiono 23 persone, e altre 23 sono ferite.

Crusius aveva lasciato un post su 8chan con il link a un manifesto di 4 pagine, intitolato “Una scomoda verità” (subito rimosso dagli admin). In esso il 21enne delinea un piano per dividere gli Stati Uniti d’America in territori “etnicamente separati”, deplora il “genocidio dei bianchi” in corso e dice di dover agire per fermare “l’invasione ispanica del Texas”.

Anche in questo caso, Tarrant è indicato come la fonte d’ispirazione primaria; e anche in questo frangente l’attentato di El Paso è festeggiato dagli anon su 8chan, che sono impressionati “dall’alto punteggio” di Crusius. 

Una variazione del meme “Chad” che celebra Tarrant, Earnest e Crusius

Per Robert Evans, El Paso segna un’ulteriore evoluzione della violenza politica di estrema destra: se Breivik ha aperto la strada agli attentati accompagnati da manifesti online, 8chan ha gamificato l’atto di massacrare innocenti.

E non solo sul versante dell’immaginario videoludico dei “punteggi”, ma pure nelle modalità esecutive – tra cui l’uso di videocamere che ricreano la prospettiva in prima persona degli sparatutto, e le playlist come colonna sonora della carneficina.

Dopo El Paso, ossia la terza strage di seguito preannunciata sulla imageboard, 8chan è messo offline dal servizio di hosting Cloudflare (tornerà online tre mesi dopo con un altro nome, 8kun). Il proprietario Jim Watkins – un ex militare che ha iniziato la sua carriera di imprenditore digitale con l’apertura di un sito porno giapponese negli Usa per aggirare le rigide leggi sulla censura del Giappone – viene convocato dalla commissione sulla sicurezza nazionale della Camera, che vuole sapere cosa stia facendo per combattere “la proliferazione di contenuti suprematisti ed estremisti” (praticamente nulla, come emergerà da diverse inchieste).

Ma la temporanea assenza di 8chan non ferma gli attentati. Il 9 ottobre del 2019, nel giorno dello Yom Kippur, il neonazista 27enne Stephan Balliet tenta di attaccare una sinagoga ad Halle (in Germania) ma non riesce a sfondare il portone. In preda alla frustrazione, l’attentatore uccide una passante e poi si dirige verso un locale che vende kebab, ammazzando a colpi di fucile un cliente che si trovava all’interno.

Il modus operandi di Balliet è tragicamente simile a quello degli altri attentatori. Buona parte dell’attentato è stato trasmesso sulla piattaforma di streaming Twitch; subito prima di dirigersi verso la sinagoga, l’uomo si è “presentato” in video e ha spiegato in inglese i motivi del suo gesto:

Ciao, il mio nome è Anon e penso che l’Olocausto non sia mai avvenuto. Il femminismo è la causa del declino dell’occidente, [che sta venendo invaso] dall’immigrazione di massa. Il problema di tutto sono gli ebrei. Vorreste fare amicizia con me?

Balliet ha anche pubblicato un manifesto di 16 pagine sul forum Meguca, legato a sua volta ad una board di anime (i cartoni animati giapponesi) su 4chan. Uno dei suoi obiettivi, si legge, è quello di “uccidere più anti-bianchi possibili, preferibilmente ebrei”. Il testo contiene diversi rimandi a 8chan, all’iconografia degli anime e ai meme di estrema destra; l’ultima pagina è un’atroce lista di “trofei” da sbloccare, come se si trattasse di un videogioco.

Per Peter Neumann, esperto di terrorismo e docente al King’s College di Londra, è “significativo che l’attentatore abbia scritto e pubblicato il manifesto in inglese. Questo dimostra che non si rivolgeva ai neonazisti tedeschi, ma che il suo vero pubblico si trova in posti come 8chan e i suoi eroi sono terroristi come Breivik, Tarrant e Crusius”. 

Un attentatore può anche agire da solo sul piano locale, insomma, ma la sua mano è armata e guidata da una comunità transnazionale che pensa in un’ottica globale.

Dietro al lupo c’è sempre il branco. E il branco ha una strategia e una storia molto precise.

Lupi non troppo solitari

Nel terrorismo bianco c’è una forte compresenza del passato con il presente, e una plastica rappresentazione di questo assunto la forniscono le scritte di Tarrant sui caricatori – a tutti gli effetti una specie di mappa concettuale dell’estrema destra contemporanea.

Tra i tanti, l’attentatore ha implicitamente citato lo slogan delle “Quattordici parole”, che recita: “Dobbiamo assicurare l’esistenza del nostro popolo e un futuro per i bambini bianchi”. Il mantra è stato coniato all’inizio degli anni ‘90 dall’americano David Lane, un ex militante della cellula nazista The Order. Il gruppo aveva preso a modello il libro razzista I diari di Turner, e tra il 1983 e il 1984 aveva commesso rapine e omicidi in diversi stati degli Usa.

Forte del prestigio derivante dalla partecipazione ad una simile impresa criminale, il neonazista è diventato una sorta di “profeta” del nuovo suprematismo. Dal carcere federale di Terre Haute, dov’è morto nel 2007, ha scritto diversi “sermoni” come gli “88 precetti” (numero che, nella terminologia nazista, significa “Heil Hitler”) e il “manifesto del genocidio dei bianchi”.

Lane riteneva inoltre che il nazionalismo fosse un ostacolo al consolidamento della “grande Famiglia Bianca che si trova in Europa e in America, e ovunque sia sparso il nostro Volk”. Per lui, la “nuova identità pan-ariana” doveva “superare i confini nazionali” e basarsi esclusivamente su “razza e civiltà”.

In questo senso, l’apporto ideologico di Lane è stato cruciale. Ma l’influenza di The Order è andata ben oltre il singolo militante: un’altra figura chiave nello sviluppo della moderna violenza politica di estrema destra, specialmente per quanto riguarda gli aspetti operativi, è Louis Beam.

L’ex veterano del Vietnam, nonché attivista del Ku Klux Klan e della Aryan Nations, è stato indagato nel 1985 dal dipartimento della giustizia per associazione a delinquere insieme ad altri 13 leader di movimenti suprematisti: erano accusati di aver diretto la cellula nazista, che a sua volta li avrebbe ripagati con il bottino delle rapine.

Anche se è vero che milioni di dollari sono finiti a gruppi di estrema destra, le prove di questa eterodirezione non sono mai saltate fuori e il processo è finito con l’assoluzione di tutti gli imputati. Beam ha così approfittato della notorietà per lanciare la rivista The Seditionist (“Il sovversivo”), dove nel 1992 viene pubblicato il suo testo più famoso: quella sulla leaderless resistance, la “resistenza senza leader”.

Pur non avendolo inventato ex novo, Beam è colui che ha sistematizzato il concetto e l’ha reso accessibile ai militanti. Il ragionamento dell’attivista parte da una premessa: la “resistenza” (ossia i gruppi neonazisti e suprematisti) è troppo gerarchica, e dunque troppo suscettibile all’infiltrazione delle forze dell’ordine.

La soluzione suggerita da Beam è quella di rendere pulviscolare il movimento, di modo che le azioni possano essere compiute da singoli individui o piccolissime cellule indipendenti. “Migliaia di cellule fantasma”, ha scritto, “sono un incubo per l’intelligence di ogni stato”.

Ricorrendo a questa strategia nessuno deve dare ordini, e quindi assumersi la responsabilità penale di farlo. Nella visione di Beam, infine, il coordinamento tra singoli e cellule avviene attraverso una “infrastruttura informativa” decentralizzata.

Nel 1992 è uscito anche un altro testo che ha al centro l’idea della “resistenza senza leader”: Siege di James Mason, un ex membro dell’American Nazi Party. Il libro è una raccolta delle puntate della newsletter omonima, curata dal neonazista a partire dagli anni ’80; la tesi centrale è che la società americana debba essere destabilizzata attraverso atti di violenza individuali, casuali e imprevedibili. “Tutto quello che contribuisce al caos e all’anarchia può solo darci una mano sul lungo periodo”, scrive Mason. Naturalmente, l’ordine sarà ristabilito solo da un regime nazionalsocialista.

Stando all’analisi di J. M. Berger su The Atlantic, i testi e le idee in questione hanno avuto una circolazione piuttosto limitata nell’epoca in cui sono apparsi. È solo con l’avvento di Internet che hanno conosciuto una diffusione più sostenuta – prima grazie a Stormfront, che a lungo è stato il più grande forum neonazista al mondo, e poi attraverso varie imageboard e i social media.

Siege, in particolare, è stato riscoperto e promosso su 8chan e sul forum di estrema destra Iron March. Da quest’ultimo è emerso un gruppo paramilitare statunitense chiamato Atomwaffen Division (Awd), ritenuto responsabile di cinque omicidi. Mason è a tutti gli effetti il padre nobile di questa cellula, che obbliga i suoi membri a leggere Siege.

Dal 2015, l’anno della fondazione ufficiale, la Atomwaffen Division si è espansa oltre i confini degli Stati Uniti raggiungendo Regno UnitoCanada, Germania e i paesi baltici (dove ha adottato il nome di Feuerkrieg Division). Nella primavera del 2020 Mason ha annunciato lo scioglimento formale del gruppo, ma secondo un dettagliato reportage di Die Zeit l’avrebbe fatto solo per allentare la pressione delle forze dell’ordine. In realtà i membri della Awd sarebbero entrati in clandestinità con il nome di National Socialist Order (“Ordine Nazional Socialista”), mantenendo i legami con altre formazioni di estrema destra in giro per il mondo.

James Mason, al centro, con dei militanti della Atomwaffen Division

Tra queste la più inquietante è The Base (“La base”), creato dal neonazista americano Rinaldo Nazzaro e recentemente classificata come “minaccia terroristica” dalle forze dell’ordine Usa. Il gruppo rientra nel filone dell’accelerazionismo di estrema destra (menzionato da Tarrant nel suo manifesto): in sostanza, bisogna favorire il collasso della civiltà contemporanea – corrotta dal multiculturalismo, dal femminismo, dal politicamente corretto e altro ancora – attraverso azioni estremamente violente, per poi instaurare un etno-stato bianco e “purificato”.  

La campagna di reclutamento è iniziata nel 2018 su forum, DiscordTelegram. Da allora il gruppo ha cercato di pianificare attentati, ha danneggiato sinagogheorganizzato campi di addestramento paramilitari. Anche The Base intrattiene relazioni con altre realtà; una di queste, l’australiana Lads Society, nel 2017 aveva chiesto all’attentatore di Christchurch di far parte del gruppo (invito però declinato da Tarrant). Almeno un militante, ha scoperto VICE, è andato in Ucraina per provare a combattere in Donbass nel battaglione di estrema destra Azov (che negli anni ha attratto diversi estremisti americani ed europei).

È evidente che, di fronte a un quadro del genere, è impossibile comprendere le ramificazioni del nuovo terrorismo bianco se ci si focalizza solo sulla figura del “lupo solitario” – un errore commesso per anni dalle forze dell’ordine e dai servizi di sicurezza di vari paesi, che hanno dirottato quasi tutte le loro risorse nel contrasto al terrorismo di matrice jihadista (questa è anche una delle conclusioni del rapporto governativo sull’attentato di Christchurch).

Parliamo infatti di una struttura ormai “post-organizzativa” e completamente orizzontale. Non c’è più un leader che dirige dall’alto un’organizzazione, ma una sincronizzazione transnazionale e multi-livello tra: gli “influencer” e ideologi di estrema destra; un ecosistema social-mediatico parallelo frequentato da migliaia di utenti radicalizzati; leader, partiti e movimenti più o meno istituzionali che contribuiscono alla normalizzazione di determinate teorie (Donald Trump è stato quello che più l’ha fatto); e terroristi che rientrano nel modello della “resistenza senza leader” – con l’aggiunta cruciale di manifesti scritti (e tradotti in vari lingue) per spingere alla violenza altre persone.

Militanti di The Base in un video di propaganda

E un sistema del genere, purtroppo, è efficace: i dati parlano chiaro. Come ha rilevato l’Institute for Economics and Peace (IEP, un’associazione australiana che traccia e analizza la violenza politica in tutto il mondo) nel suo ultimo Global Terrorism Index pubblicato a novembre del 2019, gli attentati ispirati dall’ideologia di estrema destra nel mondo sono aumentati del 320% dal 2014 al 2018.

In Germania, nel 2020 sono stati registrati 24mila reati collegati all’estrema destra; si tratta del numero più alto da quando si è iniziato a tener traccia dei crimini d'odio politicamente motivati. Per il ministro dell'interno Horst Seehofer l'estremismo di destra ha lasciato una "scia di sangue" in tutto il paese, citando in particolare l'omicidio del politico Walter Lübcke e l'attentato razzista di Hanau. "La violenza di estrema destra è la più grave minaccia alla sicurezza tedesca", ha aggiunto nella conferenza stampa del 4 maggio 2021 in cui ha presentato i dati.

La situazione è particolarmente critica anche negli Stati Uniti: secondo una recente ricerca del Center for Strategic and International Studies commissionata dal Washington Post, dal 2015 al 2020 gli estremisti di destra hanno commesso 267 attentati che hanno provocato 91 morti. Si tratta del numero più alto da 25 anni a questa parte.

Le “gocce” di cui parlava Breivik sono diventate davvero tante.

Ritorno a Utøya

Nell’immediatezza della strage del 22 luglio 2011 in Norvegia, il governo aveva promesso alle famiglie delle vittime due memoriali – uno a Oslo e uno a Utøya.

Ora che il decimo anniversario è sempre più vicino, i monumenti non sono ancora stati completati. Anzi: quello davanti all’isola è bloccato da una causa legale intentata da alcuni residenti della vicina cittadina di Honefoss.

Secondo loro, il memoriale rischia di trasformare l’area in una perversa “attrazione turistica” e di traumatizzarli ancora di più. L’avvocato Ole Hauge Bendiksen, che rappresenta i cittadini, ha spiegato al New York Times che alcuni hanno prestato soccorso nei primi momenti del massacro e hanno visto deteriorare la loro salute mentale col passare degli anni. La pressione psicologica di un memoriale, dicono, sarebbe insostenibile.

La Lega dei giovani lavoratori del Partito Socialista norvegese e i familiari delle vittime, invece, non la pensano così. Lisbeth Kristine Royneland, che ha perso una figlia nell’attentato, è convinta che i residenti “vogliano solo dimenticare quello che è successo. Capisco che vedono Utøya ogni giorno, e che molti soffrono al ricordo di quello che è successo”.

Ma “dobbiamo riconoscere che è successo”, ha aggiunto, e confrontarci con le motivazioni politiche di estrema destra dell’autore. Dello stesso avviso è il legale dei giovani socialisti, Paal Martin Sand: “Un memoriale nazionale è il simbolo più forte che uno stato può usare per dire alle generazioni future che una società non dimentica il suo passato”.

Tuttavia, come dimostra la disputa sul memoriale del 22 luglio – e più in generale le reazioni ad ogni attentato di estrema destra, con la parziale eccezione della Nuova Zelanda – è difficile accettare che cose del genere possano succedere da noi, o che siano il prodotto delle società in cui viviamo.

Uno degli effetti più terribili del terrorismo bianco è quello di spaccare le comunità al proprio interno, erodendo quella zona grigia di tolleranza che rende possibile la convivenza pacifica tra persone di diversa estrazione sociale, religiosa, politica e culturale. È un equilibrio precario, sottoposto ad uno stress incredibile in condizioni normali; figuriamoci in un contesto inquinato da discorsi tossici e atti di violenza. 

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Qualche tempo fa Viljar Hanssen, una delle vittime di Breivik sopravvissuto per miracolo, aveva confidato al regista di 22 luglio Paul Greengrass che “mi rendo conto che sia stato sconfitto [in tribunale], ma mi rendo anche conto che in qualche modo è ancora lì fuori. E sta diventando sempre più forte”.

La tempesta si è abbattuta per davvero, alla fine, e non smette di imperversare sopra di noi. 

Immagine di anteprima: un frame di un video di reclutamento della Atomwaffen Division.

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