Il video di Grillo spiega bene la paura delle donne di denunciare
5 min letturadi Giulia Blasi
Partiamo dalle basi: qualunque tipo di accusa deve passare per tre gradi di giudizio prima di diventare una condanna definitiva. Ciro Grillo, Francesco Corsiglia, Edoardo Capitta e Vittorio Lauria, accusati di stupro da una ragazza all’epoca diciannovenne, non sono colpevoli di niente di fronte alla legge finché la giustizia non avrà fatto il suo corso. La responsabilità penale, inoltre, è personale: solo gli imputati rispondono dei reati a loro ascritti. Allora perché Beppe Grillo, leader del Movimento 5 Stelle, ex comico prestato alla politica (e mai restituito) e padre di Ciro Grillo, ha sentito il bisogno di fare un video come quello che ieri era prima notizia su tutti i quotidiani nazionali?
Le illazioni lasciano il tempo che trovano, ma due considerazioni sul video in sé vale la pena di farle. Il tono di Grillo ormai lo conosciamo: urlato, sempre sopra le righe, sempre alla ricerca del gancio emotivo. Questo video non fa eccezione, anzi, alza l’asticella dell’urlo, spinge sul furore: Beppe Grillo è adirato. Adirato perché da due anni suo figlio è accusato di un reato grave: non di essere uno “stupratore seriale”, come dice lui, ma comunque di avere usato violenza a una ragazza in compagnia di un gruppo di amici. “C’è un video” urla Grillo, fra le altre cose, in cui si vede chiaro che ci sarebbe “consensualità” nel rapporto. Ragazzi che si divertono, che saltano su e giù in mutande. E la ragazza? Perché avrebbe aspettato “otto giorni” per denunciare? Una che è stata stuprata denuncia subito, no? “Arrestate me”, grida il capo dei pentastellati, in un momento padre-coraggio, essendosi evidentemente dimenticato non solo che la responsabilità penale è individuale, appunto, ma anche di avere costruito buona parte del successo del suo movimento sulla certezza che tutti i politici accusati di un reato fossero automaticamente colpevoli.
I processi si fanno in tribunale, e saranno le autorità giudiziarie a decidere come procedere, se rinviare a giudizio o archiviare il procedimento. Così come saranno le autorità giudiziarie a chiarire chi avrebbe girato il famoso “video” di cui parla Grillo senior (da cui, secondo le ricostruzioni, emergerebbe che le ragazze coinvolte sono due, ma non è stato appurato se entrambe abbiano subito violenza) e con quali modalità, perché un conto è riprendere una scena di sesso di gruppo con il consenso e la piena partecipazione di tutte le persone coinvolte, e un’altra è riprenderla all’insaputa di una donna incapace o impossibilitata a dare il consenso. L’effetto delle parole di Beppe Grillo – che ricordiamolo, ricopre un ruolo di rilevanza pubblica, essendo “garante” del Movimento 5 Stelle – è prima di tutto di ricordare alle donne cosa le attende se anche solo provano a considerare l’ipotesi di denunciare uno stupro, soprattutto se il loro stupratore è ricco e potente o figlio di potenti. Non importa quanto siano fondate le accuse, nessuno ti crederà. Che tu denunci subito, dopo otto giorni o entro l’anno previsto dalla legge dopo l’ultima riforma dei termini, non ha importanza: andrai comunque incontro a un processo di vittimizzazione secondaria. Sarai costretta a rivivere il trauma del tuo stupro, e se il tuo caso dovesse fare notizia saresti costretta a subire gli attacchi della stampa conservatrice e dell’opinione pubblica, che in buona parte si domanderà cosa tu abbia fatto per meritarti quella violenza, sempre che di violenza si tratti, perché si sa, le donne sono bugiarde e denunciano “per la visibilità”, oppure perché si sono vergognate. Qualcosa si trova sempre: per molta gente, entrare in casa di un uomo equivale a dare il consenso a un rapporto, come anche assumere alcool o droghe. Altrimenti non ci saresti andata, no?
Lo stupro è considerato un fatto inevitabile, qualcosa che prima o poi ti succederà, se non stai attenta. Lo definiamo entro parametri di raffigurazione molto stretti: una donna che non resiste, che collabora con il suo stupratore, non può essere stata vittima di una violenza. La coercizione, la manipolazione, o semplicemente la paura di essere uccise (perché uno che ti stupra non ti vede come un essere umano: non sai cosa ti può fare se resisti) non sono prese in considerazione quando si cerca di stabilire cosa sia o meno violenza sessuale, in quali casi questa sia perseguibile e con quali modalità. Una stima del 2017 basata sui dati Istat calcola che ogni anno si consumano almeno quattromila stupri, undici al giorno, per lo più entro le mura domestiche. Un sommerso gigantesco, che si confronta con una legislazione inefficiente sotto ogni punto di vista, sia educativo (che lavori, quindi, alla prevenzione della violenza) che repressivo. La riforma introdotta dal governo Lega-M5S si sta dimostrando straordinariamente inefficace in entrambi i sensi, come testimonia sia la perdurante assenza di formazione sul tema e di protocolli a livello di intervento da parte di Polizia e Carabinieri. Le minacce di violenza e stupro continuano a essere un mezzo molto diffuso di intimidazione delle donne, soprattutto sui social, ma una donna qualsiasi ha scarse possibilità di essere ascoltata e sostenuta. L'aspetto più agghiacciante: chi usa lo stupro come minaccia è spesso giovanissimo, poco più che un bambino. La violenza sessuale entra prestissimo nel vocabolario dei ragazzi. Non c’è da stupirsi se a un certo punto delle loro vite quella minaccia si fa realtà, soprattutto se gli uomini adulti si espongono per dare loro il senso di essere protetti, invincibili. Di avere diritto a “divertirsi”.
Il potere sociale è anche questione di sguardo e prospettiva, e la narrazione sullo stupro non è stata e non è tuttora definita dagli individui che più di tutti la subiscono, ma da quelli che a stragrande maggioranza la agiscono. Verrebbe da dire che se le donne avessero il potere sociale di definire quello che viene fatto ai loro corpi controllando la narrazione, anche la violenza verrebbe a cessare: quello che manca è un pieno riconoscimento della possibilità delle donne di scegliere, di dare il consenso a un rapporto, di essere centrali nella definizione della propria esperienza.
Quante volte l’abbiamo ripetuto? Centinaia. Migliaia. Centinaia di migliaia. Se rimaniamo inascoltate è perché le nostre voci non contano. La legge non ci tutela, né dalla violenza in sé né dalle minacce di violenza e tantomeno dall’abuso del proprio potere mediatico per screditarci, esponendoci ad altra violenza, ad altre umiliazioni. Se la Procura dovesse decidere di archiviare il procedimento in mancanza di elementi per procedere – non sarebbe la prima volta – la donna coinvolta rischia di essere marchiata per sempre come la bugiarda che ha cercato di incastrare un bravo ragazzo.
Torniamo a ripeterlo: Beppe Grillo è il leader di uno dei partiti che compongono la maggioranza di governo. Pur non avendo ruoli istituzionali, è stato presente in tutti i momenti fondamentali della vita parlamentare del Movimento 5 Stelle, da lui fondato. È una guida e un capo carismatico. E quella guida, in questo momento, non sta solo cercando di fare pressioni sui giudici incaricati di decidere se processare o meno suo figlio: lo fa dando apertamente della bugiarda alla ragazza che l’ha denunciato. Anche lei è figlia di qualcuno, ma quel qualcuno non fa video in cui chiede di buttare in galera l’accusato e gettare via la chiave senza passare per un processo. Ma soprattutto, quel qualcuno non è un personaggio politico di alto profilo, non è in grado di orientare l’opinione pubblica, non gode di alcun credito fra chi siede in Parlamento. E lei è solo una ragazza. Non ha alcun potere.
Ogni volta che ci domandiamo come mai in Italia sia così difficile parlare di abusi sessuali, ricordiamoci questo: che il capo di un partito politico può tentare di immischiarsi nel procedimento giudiziario a carico di suo figlio e aggredire verbalmente la donna che lo accusa, senza che ci siano conseguenze immediate, che il partito stesso se ne dissoci e lo costringa a farsi da parte (“dimettersi” sarebbe impossibile, data la natura liquida del ruolo di Grillo, che rimane tecnicamente un privato cittadino). La vita, la sicurezza e l’integrità fisica delle donne contano così poco, di fronte alla necessità di mantenere il quieto vivere.