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Trump, la libertà di espressione e l’ipocrisia di giornalisti e politici

15 Gennaio 2021 12 min lettura

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Trump, la libertà di espressione e l’ipocrisia di giornalisti e politici

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Qualche giorno fa scherzando sulla mia bacheca Facebook, a proposito del dibattito che si è scatenato in seguito alla decisione delle principali piattaforme social (non solo Facebook e Twitter, ma anche Youtube, Snapchat, Twitch...) di bannare o sospendere l'account del presidente uscente Trump dopo l'incitamento all'insurrezione e l'attacco al Congresso, avevo scritto: "Nonno ma tu quando Trump tentò il colpo di Stato in America che facevi? Mi battevo per il suo diritto ad avere un account Twitter, figliolo".

La sproporzione fra l'enorme gravità dell'attacco al cuore della democrazia americana e il dibattito incentrato sulla censura (che non c'è) contro Trump e il panico morale per le tecnologie mi è sembrata davvero eclatante.

Ricordo che stiamo parlando di un attacco di terrorismo interno portato avanti da milizie di suprematisti bianchi volto a sovvertire i risultati elettorali, i cui piani prevedevano, a quanto sembra dalle prime indagini, anche il sequestro e l'uccisione di membri del congresso, ricordo che 5 persone sono morte tra cui un poliziotto che sarebbe stato colpito alla testa con un estintore, che dalle testimonianze che stanno emergendo avrebbe potuto essere una strage, e che sono state ritrovate due bombe, fatte per esplodere, all'interno delle sedi, poco distanti dal Congresso, del partito Repubblicano e del partito Democratico. Nelle stesse ore drammatiche dell'assalto al Congresso, Trump faceva pressioni sui rappresentanti repubblicani affinché sovvertissero il risultato elettorale.

La preoccupazione di alcuni politici e giornalisti per la presunta censura contro il presidente uscente, addirittura c'è chi si è spinto a sostenere che Zuckerberg sarebbe più pericoloso di Trump, mi è parsa francamente risibile. Quell'atto di terrorismo interno porta la firma del presidente uscente, che ha per mesi usato anche i social come piattaforma per la sua propaganda violenta contro la stessa democrazia americana, diffondendo bugie e falsità sui risultati elettorali, indebolendo così la vittoria di Biden e la fiducia nelle istituzioni democratiche del paese, anche mentre perdeva tutte le azioni legali intentate fino alla Corte Suprema. Prima dell'attacco al Congresso, Trump ha tenuto uno dei discorsi più violenti e incendiari alla folla accorsa a Washington per protestare contro la certificazione della vittoria di Biden, che in quel momento stava avvenendo all'interno di Capitol Hill, esortandola esplicitamente a mostrare la sua forza verso il Congresso stesso.

Per questi fatti la Camera ha approvato, anche con il voto di 10 deputati repubblicani, l'impeachment di Donald Trump per "incitamento all'insurrezione", primo presidente della storia americana sottoposto alla procedura di impeachment per due volte. È di queste ore un rapporto dell'intelligence, ottenuto dal Washington Post, che avverte: le falsità diffuse sulla legittimità del risultato elettorale e la menzogna che la vittoria di Biden sarebbe fraudolenta possono essere la causa di violenza estremista anche in futuro. Insomma non è certo finita qui, anche perché Trump non smette di diffondere quelle bugie e perché i repubblicani non condannano queste falsità in modo netto e senza ambiguità.

Ho già spiegato ampiamente in questo approfondimento perché a mio avviso le piattaforme social hanno fatto bene, finalmente, ad applicare a uno degli uomini più potenti della terra, con un potere enorme di condizionare gli eventi e mobilitare le masse con i suoi discorsi di odio – potere che ha usato senza scrupoli e con un cinismo disgustoso – le stesse regole, gli stessi termini di servizio (Terms Of Service – ToS) che sono applicati a noi comuni mortali. Dopo aver per anni adattato di volta in volta le loro stesse regole (almeno Facebook e Twitter, Youtube è stato da questo punto di vista più coerente e non ha mai fatto differenziazioni fra cittadini di serie A e di serie B), nella evidente difficoltà di fare i conti con un uso dei social da parte del presidente degli Stati Uniti d'America che non solo andava contro i ToS ma contro qualsiasi regola di decenza, di morale e di serietà politica e umana. Ne ho parlato anche in questo intervento su Radio Capital durante la trasmissione di Selvaggia Lucarelli.

Leggi anche >> “Deplatforming” Trump: la giusta decisione di Facebook e Twitter di bloccare gli account del presidente uscente

Premettendo che su Valigia Blu sono anni che ci occupiamo dei temi legati alla regolamentazione delle piattaforme e alla libertà di espressione sui social media, qui vorrei affrontare alcune questioni emerse ulteriormente nel dibattito in questi giorni: 1) perché il Primo Emendamento americano (First Amendment), che protegge la libertà di pensiero e di espressione, è dalla parte delle piattaforme in questa decisione; 2) la posizione della Cancelliera tedesca Angela Merkel, visto che in molti usano la sua dichiarazione in merito al ban di Trump come argomento contro la decisione delle piattaforme; 3) l'ipocrisia insopportabile di giornalisti e politici che in queste ore si battono al grido "non sono d'accordo con quello che dici, ma darei la vita etc etc" ed "è ora di mettere mano allo strapotere delle piattaforme".

È legale se Twitter esclude Trump dalla sua piattaforma? Si è chiesto il New York Times. Il Primo Emendamento dice sì. Quando l'account di Trump è stato bannato definitivamente da Twitter, i suoi alleati e la sua famiglia hanno tutti più o meno usato le stesse espressioni: "Stiamo vivendo il 1984 di Orwell, la libertà di espressione in America non esiste più". Ma la decisione delle piattaforme è perfettamente legale, perché il Primo Emendamento proibisce la censura del governo e non si applica alle decisioni prese da imprese private. Si sono sentite le stesse lamentele quando l'editore Simon & Schuster ha deciso di cancellare la pubblicazione del libro del senatore Josh Hawley per il suo ruolo nell'incitamento all'insurrezione e per la diffusione di menzogne sui risultati elettorali.

RonNell Andersen Jones, professoressa di legge alla Università dello Utah, ricorda sul New York Times, che "il Primo Emendamento limita solo gli attori del governo e né un'azienda di social media né un editore di libri sono il governo". Queste aziende, ha aggiunto, hanno i loro stessi diritti previsti dal Primo Emendamento, secondo cui il governo non può obbligarli ad associarsi (e quindi diffondere) alle opinioni di qualsiasi persona/soggetto. Rientra nella loro libertà di espressione decidere se ospitare o meno determinati discorsi.

Il Primo Emendamento non impone ad alcun forum privato di pubblicare i discorsi di qualcuno. Queste aziende sono libere di scegliere e questo è appunto un diritto che il Primo Emendamento garantisce loro. Né Twitter né Simon & Schuster hanno alcun obbligo ai sensi del Primo Emendamento. Spiega Gregory P. Magarian, professore di legge alla Washington University di St. Louis, sempre al NYT: “Chi dice che a persone come Trump e Hawley, e i punti di vista che loro sposano, verrebbe a mancare un accesso significativo all'attenzione pubblica è ridicolo. Certo che dovremmo preoccuparci del potere privato sulla libertà di espressione, ma presidenti e senatori sono gli ultimi di cui dobbiamo preoccuparci in questo senso". Trump e Hawley non sono certo nella posizione di potersi lamentare.

Certamente, come sottolinea il professor Magarian, dobbiamo porci la questione del potere delle piattaforme sulla libertà di espressione dei cittadini. Tra l'altro sono le stesse piattaforme a chiedere ai governi di indicare regole precise, i confini entro cui possono muoversi con i loro termini di servizio. Lo ha chiesto Mark Zuckerberg a febbraio 2020 proprio in relazione al crescente problema dei contenuti di odio. Lo ha chiesto in questi giorni Jack Dorsey, il CEO di Twitter, in un thread in cui ribadisce la correttezza della loro decisione di bannare Trump dalla piattaforma e sottolinenando anche che questa scelta segna comunque un precedente pericoloso.

Qui però mi verrebbe da chiedere se non lo fosse già, un precedente pericoloso, la decisione precedente di trattare diversamente i potenti, applicando per loro una moderazione sostanzialmente meno stringente rispetto ai cittadini / utenti comuni. E se non fosse già un precedente pericoloso gestire in modo arbitrario e opaco chi bannare e chi no, cosa rimuovere e cosa no. Questo aspetto profondamente critico è connaturato alla struttura stessa di queste piattaforme, non nasce con Trump e non dovremmo occuparcene perché Trump è stato bannato. Mai come in questo caso, infatti, siamo davanti a una procedura estremamente lineare, chiara, trasparente. Il presidente ha usato i social per incitare alla violenza e ha mobilitato la massa contro il Congresso con le sue parole di odio e le sue bugie diffuse per mesi anche sui social media. La decisione di bannarlo è corretta da ogni punto di vista: non sono stati rispettati i ToS e in modo trasparente e pubblico sono state spiegate le ragioni del ban.

Il NYT ricorda il caso che a giorni potrebbe arrivare davanti alla Corte Suprema per discutere sull'account Twitter di Trump: diversi tribunali hanno stabilito che Trump ha violato il Primo Emendamento bloccando alcuni utenti dal suo account.

Trump è un funzionario pubblico che ha utilizzato l'account per condurre funzioni governative, perciò un collegio unanime di tre giudici della Corte d'appello degli Stati Uniti per il secondo circuito, a New York, ha stabilito nel 2019 che l'account era un forum pubblico e quindi non poteva escludere le persone per i loro punti di vista.

Se l'account fosse stato privato, scrivono i giudici, Trump avrebbe potuto bloccare chi voleva. Ma poiché ha utilizzato l'account nel suo ruolo ufficiale di funzionario governativo, è soggetto al Primo Emendamento, che vieta la discriminazione basata sui punti di vista. "Abbiamo citato in giudizio il presidente, non Twitter, e questo fa la differenza, legalmente – ha spiegato Jameel Jaffer, direttore del Knight First Amendment Institute della Columbia University –. Chi agisce in nome del governo deve rispettare il Primo Emendamento, ma le società private no".

"Quindi", prosegue Jaffer, "il presidente non può bloccare le persone dai suoi account sui social media in base alle loro opinioni politiche, ma Twitter può bannare le persone dalla sua piattaforma praticamente per qualsiasi motivo ritenga opportuno". Si può essere d'accordo o meno d'accordo sul fatto che Twitter avesse ragione a escludere Trump, ma non c'è dubbio che le piattaforme hanno agito legalmente. Le piattaforme dovrebbero abbracciare volontariamente i valori del Primo Emendamento, ha concluso Jaffer, e in generale consentire ai cittadini di valutare da soli le dichiarazioni dei politici. Ma ci sono dei limiti e l'incitamento alla violenza è tra questi. "Bannare un account nelle circostanze che abbiamo visto non è un affronto alla libertà di parola, come alcuni hanno suggerito. Al contrario, è esercizio responsabile di un diritto garantito del Primo Emendamento".

Veniamo alla preoccupazione di Angela Merkel.

La cancelliera tedesca, così come dichiarato dal suo portavoce Steffen Seibert, insieme ad altri esponenti europei, ha espresso la sua preoccupazione rispetto a questa decisione, perché sarebbe "problematica". Singolare che a esprimere queste preoccupazioni siano politici che fino a qualche giorno fa e negli ultimi anni hanno fatto pressioni notevoli sulle piattaforme perché intervenissero sui discorsi di odio, hate speech e sulla disinformazione. Singolare che oggi la Germania si dica preoccupata, dopo aver approvato una legge controversa e criticatissima, che impone la rimozione entro 24 ore di contenuti illegali, senza però definirli. Lasciando di fatto alle piattaforme l'incombenza di decidere e stabilire criteri per la rimozione, e per questo nel dubbio le stesse piattaforme tendono a rimuovere senza una effettiva valutazione dei contenuti per non incorrere in sanzioni durissime.

A rimetterci chiaramente la libertà di parola dei cittadini, schiacciati fra due poteri, uno privato, l'altro pubblico che poco si curano di proteggere i loro diritti. Perché se così fosse i politici – ma anche i giornalisti – che oggi si sono mobilitati per Trump (qualcuno anche molto indignato e contrito) e il suo diritto di parola (anche se si tratta di violenza online che genera violenza offline), ci dovrebbero far sapere dove erano quando le piattaforme radevano al suolo account di giornalisti e attivisti palestinesi, siriani, tunisini, in modo del tutto opaco e arbitrario. Arbitrarietà e opacità che ribadiamo con Trump non ci sono state.

Scrive Mike Masnick su Techdirt: "La Germania è tra quei paesi che spingono per nuove regole, come il regolamento sui contenuti terroristici che darebbe alle aziende solo un'ora per rimuovere i 'contenuti terroristici'. Quindi sembra un po' assurdo che Merkel ora si lamenti quando Twitter chiude l'account di Trump". Tra l'altro non regge nemmeno l'affermazione successiva del suo portavoce, secondo cui va bene rimuovere o etichettare singoli tweet, ma chiudere completamente l'account è spingersi un po' oltre e in ogni caso sono i governi, e non le aziende private, a dover stabilire eventuali limiti alla libertà di parola. E non regge semplicemente perché, come già detto, anche se è il governo ad aver approvato la legge NetzDG e sta lavorando su altre leggi come il Digital Services Act e il Regolamento sui contenuti terroristici, ognuna di queste leggi sostanzialmente lascia il processo decisionale nel merito a quelle società. Non indicano mai quale contenuto è "cattivo", dicono semplicemente alle aziende che se sbagliano, potrebbero incorrere in multe enormi e/o procedimenti penali. Ciò porta inevitabilmente a un eccesso di censura.

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L'ipocrisia e le contraddizioni di queste posizioni politiche sono evidenti. Quando le criticità della moderazione investono semplici cittadini, il ban eventuale non è un problema. Ma lo diventa se tocca il potente di turno.

"Tutto questo è così frustrante – commenta Masnick –. Persone che non hanno idea di come tutto questo funzioni sembrano aspettarsi che ci sia un modo magico di gestire in maniera perfetta la moderazione. Sbagliano. Ci saranno sempre, sempre, sempre, disaccordi sul modo in cui moderare, e Merkel è parte del problema nel fare pressioni sulle aziende per rimuovere e bloccare il più possibile. È davvero ridicolo ora lamentarsi del fatto che le aziende stanno facendo ciò che lei e il suo governo hanno chiesto sin dall'inizio".

Anche Jeff Jarvis, professore di giornalismo alla Craig Newmark Journalism School di New York, in una intervista alla BBC ribadisce il diritto delle piattaforme di ospitare o meno "la parola" di Trump: la libertà di parola include il diritto di scegliere cosa diffondere. Imporre alle piattaforme di diffondere / ospitare un discorso non è libertà di parola, quindi le piattaforme rientrano perfettamente nei loro diritti quando scelgono se ospitare Donald Trump o meno.

Le piattaforme, dice Jarvis al giornalista che chiede se non sia un problema il potere che aziende private hanno sul discorso pubblico, hanno ampliato l'accesso e la partecipazione al dibattito pubblico. È grazie a loro se esiste Black Live Matters, il movimento contro la violenza della polizia e il razzismo sistemico, se è stata possibile la nascita del movimento #metoo e quella di altri movimenti. Con i social abbiamo assistito a una democratizzazione del discorso pubblico che il vecchio sistema basato sui mass media non consentiva. In ogni caso, in qualsiasi direzione si muovano queste aziende, saranno sempre criticate.

Negli ultimi 4 anni, dice Jarvis, ho sentito persone chiedere alle piattaforme di chiudere l'account di Trump, di rimuovere disinformazione e hate speech e poi quando lo fanno vengono accusate di essere troppo grandi e di avere troppo potere. È impossibile eliminare dalle piattaforme o dal web ogni discorso razzista. "Il problema fondamentale è che l'America è un paese razzista. Quindi il panico morale intorno ai social media e alla tecnologia ci distrae dal vero problema che abbiamo in questa nazione". Come ha scritto Bruno Saetta su Valigia Blu, "il problema Trump" è un problema politico e sociale, e la soluzione non è e non può essere tecnologica.

Non si può, infine, dimenticare in tutto questo il ruolo dei media. Jarvis ricorda che la donna che è stata uccisa in Campidoglio non ha iniziato la sua radicalizzazione con i social media – è finita lì – ma è iniziata con Fox News. "Permettetemi di essere molto chiaro sul fatto che l'influenza più maligna in tutta la democrazia di lingua inglese – in Usa come in UK – è rappresentata da Rupert Murdoch e Fox News. È qui che inizia il viaggio, non nei social media, ma nei media".

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Immagine anteprima  Michael Vadon sotto licenza CC BY 2.0

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