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La macchina del negazionismo: dal cambiamento climatico alla COVID-19, la lezione (ancora) da imparare

15 Dicembre 2020 21 min lettura

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La macchina del negazionismo: dal cambiamento climatico alla COVID-19, la lezione (ancora) da imparare

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Lo scorso 30 ottobre, durante un comizio elettorale in Michigan, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha sostenuto la falsa tesi che i medici gonfino il numero di morti di COVID-19 perché sarebbero pagati di più per ogni decesso attribuito al nuovo coronavirus. Il 2 novembre, in un altro comizio tenuto il giorno prima dell'election day, Trump lamentava che i media americani parlassero troppo della pandemia: «Guardate i notiziari, "Covid, covid, covid, covid"». Mentre pronunciava queste parole, la folla che lo ascoltava ha iniziato a urlare uno slogan:

«Licenzia Fauci! Licenzia Fauci!»

«Lasciatemi aspettare fino a un po' dopo le elezioni», ha risposto Trump al pubblico che lo applaudiva. «Apprezzo il consiglio».

Il Fauci di cui i sostenitori di Trump invocavano a gran voce il licenziamento è Anthony Fauci, immunologo, direttore del National Institute of Allergy and Infectious Diseases e membro della task force presidenziale sulla COVID-19. Dall'inizio della crisi sanitaria Fauci è stato uno degli esperti più in vista nel dibattito pubblico americano, distinguendosi per i suoi interventi critici, per la sua posizione a favore dell'obbligo di indossare la mascherina, per i suoi inviti a non abbassare la guardia contro il virus in contrasto con le posizioni espresse da The Donald, che tendevano a mimimizzare la gravità della crisi sanitaria. Lo scienziato è diventato perciò ben presto una vera e propria bestia nera per i fautori della linea di Trump sulla pandemia, tanto che lo slogan Fire Fauci! era risuonato già a luglio durante una protesta contro i lockdown in Texas.

Lo stesso Trump ha ignorato per mesi le indicazioni degli esperti sull'uso delle mascherine e ne ha indossata una in pubblico, per la prima volta, soltanto l'11 luglio. Durante il primo dibattito presidenziale, il 29 settembre, il presidente ha deriso l'avversario, Joe Biden, per la sua abitudine di portare la mascherina. Ad appena pochi giorni di distanza, il 2 ottobre, la Casa Bianca annunciava che Trump era risultato positivo al SARS-CoV-2. Nelle settimane successive verranno scoperti diversi casi all'interno dell'entourage di Trump e a fine novembre saranno una cinquantina i contagi registrati tra persone vicine al presidente o legate alla Casa Bianca: membri dello staff dell'Amministrazione e della campagna elettorale, consiglieri, politici del Partito repubblicano.

Almeno una decina di questi casi sembrano direttamente ricollegabili alla cerimonia che si è svolta il 26 settembre nel Giardino delle Rose della Casa Bianca per la nomina alla Corte Suprema della giudice conservatrice Amy Coney Barrett. In quell'occasione si sono ritrovate più di 150 persone, per di più senza mascherina: conversazioni ravvicinate, strette di mano, abbracci, come mostra un video del Washington Post che ricostruisce le interazioni avvenute nel Giardino delle Rose. Questa cerimonia non è stata, peraltro, l'unico evento organizzato alla Casa Bianca che ha visto la partecipazione di molte persone e senza il rispetto delle norme anticontagio. La residenza ufficiale del Presidente degli Stati Uniti viene oggi considerata a tutti gli effetti un cluster. Un focolaio epidemico, che si sarebbe potuto prevenire, come ha osservato lo stesso Fauci, e che ha potenzialmente esposto al contagio centinaia di persone.

Quanto è successo alla Casa Bianca non è stato solo il risultato di comportamenti individuali irresponsabili e imprudenti. È stata un'applicazione sul campo delle posizioni che l'Amministrazione Trump ha abbracciato sulla pandemia. La minimizzazione della gravità della situazione sanitaria, della pericolosità del virus e della sua circolazione, il rifiuto delle proprie responsabilità, la rimozione del problema. In una parola: negazionismo.

Introducendo questo termine in certe discussioni si corre il rischio di trasformarle in un flame. Alcuni pensano infatti che dare del negazionista a qualcuno significhi compiere una delegittimazione morale della sua opinione o perfino dargli del nazista. Ma se è vero che è stata impiegata per definire chi non riconosce la veridicità storica delle camere a gas, della Shoah e dei crimini nazisti, la parola negazionismo (denial, in inglese) è ampiamente usata in letteratura anche per classificare fenomeni di rifiuto di alcune evidenze e conoscenze scientifiche. Il negazionismo dell'esistenza del virus HIV o del suo ruolo come causa dell'AIDS e il negazionismo climatico sono due esempi oggi paradigmatici di negazionismo applicato alla scienza.

Sbaglia chi pensa che il rifiuto della scienza su certi temi possa essere spiegato solo con l'ignoranza, l'ottusità, l'irrazionalità o evocando, spesso impropriamente, l'analfabetismo funzionale. La conoscenza ha certo un peso nella formazione delle opinioni. Se siamo poco o male informati difficilmente potremo fare un discorso sensato su qualsiasi argomento non solo scientifico. Il problema però non sono solo il deficit di informazioni o la loro cattiva comprensione. La ricerca in campo psicologico evidenzia che quando interpretiamo dati, notizie e informazioni siamo inclini a individuare conferme, piuttosto che smentite, dei nostri giudizi. La nostra mente, inoltre, funziona attraverso processi che la indirizzano facilmente verso la ricerca di una risposta semplice e rapida, soprattutto in situazioni in cui dobbiamo prendere decisioni sulla base di informazioni scarse o incerte.

Tendiamo inoltre a innamorarci delle nostre opinioni, tanto da non volervi rinunciare nemmeno quando confliggono con i fatti. Ma ciò accade anche agli scienziati. Idee bizzarre su temi scientifici sono state caldeggiate anche da chi la scienza sa come funziona e ne è stato perfino un protagonista. Uno dei più noti sostenitori di tesi negazioniste, sull'AIDS e non solo, è stato il biochimico Kary Mullis, premio Nobel per la chimica nel 1993 per l'invenzione della PCR, la tecnica di laboratorio che oggi, in una versione modificata, viene impiegata tra l'altro per diagnosticare l'infezione da virus come il SARS-CoV-2.

E poi c'è il ruolo della cultura, un altro prodotto del nostro cervello e del nostro essere una specie sociale. Le nostre visioni del mondo e i nostri valori possono entrare in conflitto con alcune evidenze scientifiche. Alcune affermazioni della scienza possono minacciare convinzioni radicate e profonde, che contribuiscono a definire la nostra identità personale e di gruppo, a dare significato alla nostra vita e a orientare il nostro sguardo sulla realtà.

Quando la discussione su un tema scientifico oltrepassa i confini della ricerca per entrare nel campo della politica, dell'economia, dell'etica, della religione, ci sono diversi fattori che determinano il modo con cui viene accolto e dibattuto nella società. Il riscaldamento globale, come oggetto di studio delle scienze naturali, è di per sé neutrale, tanto quanto il DNA o il bosone di Higgs: l'anidride carbonica è un gas serra e l'aumento della sua concentrazione nell'atmosfera fa innalzare la temperatura del pianeta. Questo è un fatto naturale e, come tale, è neutro rispetto a qualsiasi linea di divisione ideologica.

Ma il riscaldamento globale smette di essere un oggetto scientifico puro quando le conseguenze della crisi climatica e le azioni necessarie per affrontarla diventano una questione sociale e politica.

La macchina della negazione

Il negazionismo climatico è forse il caso più emblematico e rilevante di quello che gli psicologi Stephan Lewandowsky e Klaus Oberauer chiamano "negazionismo istituzionalmente organizzato" (institutionally organized denial). È organizzato perché è promosso da singole personalità e associazioni - gruppi di interesse, partiti, industrie, think tanks, media - che, anche se non si muovono sempre in modo coordinato, formano di fatto una rete della negazione. È un negazionismo razionale, perché si prefigge scopi razionali: influenzare l'opinione pubblica e le scelte dei decisori politici.

Il negazionismo organizzato del cambiamento climatico ha mosso i primi passi negli anni '80, quando si stava definendo il consenso scientifico sulla realtà del riscaldamento globale e sulle sue cause: la temperatura della Terra stava aumentando sensibilmente e la causa erano le emissioni di gas serra, di anidride carbonica in particolare, dovute all'utilizzo di combustibili fossili (petrolio, carbone, gas naturale).

Nel 1988 avvennero due eventi cruciali per il dibattito sul clima e il suo sviluppo futuro: la fondazione dell'Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), l'organismo delle Nazioni Unite che pubblica rapporti periodici sullo stato delle conoscenze sul cambiamento climatico, e la testimonianza al Senato degli Stati Uniti del climatologo James Hansen, allora direttore del Goddard Institute for Space Studies della NASA. Il 23 giugno Hansen presentò ai senatori americani i risultati delle ricerche che dimostravano come l'aumento della temperatura terrestre stesse producendo effetti che la scienza era capace di rilevare:

«Possiamo affermare con il 99% di affidabilità che le temperature attuali rappresentano una tendenza al riscaldamento reale piuttosto che una fluttuazione casuale nel periodo di 30 anni (...) Il riscaldamento globale ha raggiunto un livello tale che possiamo attribuirlo con un alto livello di affidabilità a una relazione causale con l'effetto serra».

Hansen illustrò tre scenari di aumento delle emissioni di gas serra nei decenni successivi e dell'innalzamento della temperatura che avrebbero causato. Lo scenario intermedio si è rivelato realistico e vicino a quanto si è effettivamente verificato negli anni successivi. Il suo intervento riuscì ad accendere i riflettori sulla questione del clima, portandola all'attenzione dell'opinione pubblica e dei media. Il New York Times titolò: Il riscaldamento globale è iniziato, riferisce al Senato un esperto. Nel 1988 il riscaldamento globale era in effetti già iniziato da un secolo, ma la tendenza era ormai diventata evidente. Il 1988 si rivelò l'anno più caldo da più di un secolo, cioè da quando sono disponibili registri affidabili delle misurazioni delle temperature. Quell'anno in Nord America si verificò una delle più gravi siccità a memoria d'uomo. Un'anticipazione di quello che sarebbe potuto accadere (e che in effetti è accaduto) sempre più di frequente su un pianeta sempre più caldo. Il riscaldamento globale era una realtà e non si poteva più fingere che non esistesse e che non costituisse un pericolo.

via wikimedia

La politica aveva ora la responsabilità di trovare delle soluzioni e di prendere delle decisioni per risolvere questo problema. Se le emissioni di gas serra, dovute a diverse attività umane, erano la causa del problema, era necessario regolamentarle e ridurle. Il business as usual non era un'opzione compatibile con questo obiettivo. Tutto questo andava contro gli interessi economici dell'industria dei combustibili fossili. Ma metteva in discussione anche una concezione politica del rapporto tra Stato e mercato che non ammette ingerenze del primo nel secondo. Il negazionismo climatico, come fenomeno organizzato, emerge dalla fusione di queste due componenti: gli interessi di alcuni settori industriali e l'ideologia della destra politica pro-libero mercato. Per il mondo politico conservatore, libertarian, pro-business statunitense l'intervento pubblico nell'economia è l'anticamera del socialismo.

Il riscaldamento globale non è né di sinistra né di destra. Ma il pieno riconoscimento della scienza del riscaldamento globale ha di fatto delle conseguenze politiche. Per chi coltiva un'idea fondamentalista di libero mercato e una visione politica conservatrice il cambiamento climatico costituisce una minaccia ideologica. Questa è la logica fallace su cui si basa il negazionismo: se alcune evidenze scientifiche hanno delle implicazioni non accettabili, è impossibile riconoscerle. Al contrario, si renderà necessario tentare di dimostrare che queste evidenze non sono ancora abbastanza chiare e complete per agire. "La scienza non è ancora definita" è da decenni uno dei ritornelli del negazionismo climatico. Si tratta di un'altra fallacia. La scienza ha molto a che vedere con l'incertezza e non conosciamo ancora tutto, nemmeno sul clima. Questo non significa che tutto quello che già sappiamo non sia sufficiente, e da ormai molto tempo, per trarre delle conclusioni.

L'ostilità nei confronti delle regolamentazioni dell'industria e del mercato diventa così negazione della scienza. Se poi ad affermare che «la scienza non è ancora definita» sono persone che possono vantare credenziali accademiche, il discorso negazionista diventa più autorevole e convincente. È proprio ciò che è successo sul clima. Nel saggio Mercanti di dubbi gli storici della scienza Naomi Oreskes ed Erik Conway hanno documentato come alcuni eminenti scienziati, vicini al conservatorismo americano, abbiano messo a disposizione la loro autorevolezza al servizio di campagne di disinformazione sul riscaldamento globale e altre questioni che avevano implicazioni per gli interessi di alcuni settori industriali: i danni alla salute causati dal fumo passivo, le piogge acide, il buco dell'ozono. L'obiettivo era «alimentare la controversia», «tenere aperto il dibattito» e costruire un'artefatta incertezza scientifica su quei temi. Industrie e think tanks conservatori, negli Stati Uniti, hanno così investito risorse finanziarie ed energie per confondere l'opinione pubblica e cercare di influenzare la politica.

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Tra questi scienziati c'erano Frederick Seitz, Robert Jastrow e William Nierenberg, tre fisici di primo piano, che nel 1984 fondarono il George C. Marshall Institute. La missione di questo istituto, che prendeva il nome dal generale che elaborò l'omonimo piano di ricostruzione per il dopoguerra in Europa, voleva essere quella di  incoraggiare l'uso di una "scienza solida" nell'orientare le decisioni politiche su questioni su cui la scienza e la tecnologia erano fattori importanti. Di fatto, l'area di interesse primario di questa organizzazione erano le politiche per la difesa. L'istituto era stato fondato per appoggiare la Strategic Defense Initiative dell'Amministrazione Reagan, un piano per la costruzione di un sistema di difesa, con base a terra e nello spazio, contro possibili attacchi nucleari da parte dell'Unione Sovietica.

Secondo l'allora presidente Ronald Reagan questo progetto (passato alla storia come "scudo spaziale" o "Guerre Stellari") avrebbe scoraggiato l'impiego delle armi nucleari e favorito la causa della pace. Nella visione fortemente anticomunista dei promotori del George C. Marshall Institute, l'Unione Sovietica costituiva ancora una minaccia militare (maggiore di quanto realmente ormai fosse a metà degli anni '80). La gran parte dei fisici, anche di coloro che avevano ricevuto finanziamenti per ricerche nel campo della difesa, si opponeva al progetto sia per motivazioni tecniche sulla sua fattibilità ed utilità sia per il timore che avrebbe potuto, al contrario di quanto si dicesse, essere un fattore di destabilizzazione e riaccendere una nuova corsa agli armamenti. Tra questi scienziati critici c'era anche il celebre astronomo e divulgatore Carl Sagan.

Cosa c'entra questa storia con il riscaldamento globale? Più di quanto possa sembrare. Verso la fine degli anni '80 il George C. Marshall Institute iniziò a interessarsi di questo argomento che, come abbiamo visto, era ormai emerso come questione pubblica. La caduta del Muro di Berlino e il collasso dell'Unione Sovietica furono due eventi che spinsero l'organizzazione a spostare la propria attenzione sul clima. Nel 1992, inoltre, venne firmata la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, che costituirà la base per le successive conferenze sul clima e per gli accordi internazionali per la riduzione delle emissioni di gas serra (il protocollo di Kyoto del 1997 e l'accordo di Parigi del 2015). Il mondo iniziava a muoversi per contrastare il riscaldamento globale, anche se non con la decisione e la rapidità che sarebbero state necessarie.

Nel mondo del dopo '89 la nuova bestia nera dei conservatori diventò l'ambientalismo. Come socialisti e comunisti, anche gli ambientalisti sarebbero nemici della libertà. Seguaci di un'ideologia ostile alla crescita, allo sviluppo e alla prosperità. Utopisti che mirano a controllarci. Perfino, avversari della scienza e del progresso. Per i negazionisti infatti sarebbe proprio chi denuncia il riscaldamento globale e altri problemi ambientali a basarsi su una "scienza spazzatura", mentre l'approccio più razionale sarebbe quello ispirato a uno "scetticismo ambientale". Ma, mentre i think tanks conservatori negazionisti, come l'Heartland Institute, parlano di "ambientalismo di libero mercato", rivendicando di seguire un approccio scientifico, in realtà rifiutano la scienza alla base delle stesse questioni ambientali su cui prendono posizione.

Negli anni '90 e 2000, mentre era ormai stabilito il consenso scientifico sul cambiamento climatico, l'offensiva negazionista contro la scienza del clima si intensificò, cercando anche di ammantarsi di un'aura di scientificità. Ma anche se cerca di entrare nel merito degli aspetti tecnici di una questione, il negazionismo non segue le regole della comunità scientifica: si limita a rifiutarne le affermazioni. I negazionisti, ad esempio, non pubblicano sulle riviste scientifiche e non sottopongono a revisione e controllo le loro tesi. Del resto, sarebbe difficile portare prove che possano smentire dati ed evidenze sulla realtà del riscaldamento globale che la stessa compagnia petrolifera Exxon, come si è scoperto, riconosceva già alla fine degli anni '70 ma su cui successivamente ha alimentato, con la propria comunicazione pubblica, falsi dubbi e artefatta incertezza. Così, il negazionismo arriva a somigliare a una pseudoscienza. Un discorso che può sembrare in apparenza scientifico, ma che non lo è.

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Il negazionismo, perciò, non ha fatto altro che cercare di attaccare il lavoro della comunità scientifica. Lo ha fatto attraverso libri, pubblicazioni promosse da organizzazioni di riferimento, campagne, conferenze, interventi sui giornali e altri media, specialmente quelli vicini alla destra. Uno studio ha preso in esame una lista di 141 libri "ambientalisti scettici" in lingua inglese pubblicati tra il 1972 e il 2005, la maggior parte negli Stati Uniti dopo il 1992. Il 92% di queste pubblicazioni è legato a think tanks conservatori. Gli autori di un'altra ricerca pubblicata nel 2015 hanno analizzato 16.000 documenti prodotti da 19 organizzazioni conservatrici tra il 1998 e il 2013. Una vasta letteratura di affermazioni su diversi argomenti riguardanti il cambiamento climatico contrarie a quelle in cui si riconosce la comunità scientifica. Una delle evidenze più interessanti che emerge da questa analisi è che, come scrivono gli autori, «l'era della negazione della scienza non è finita». La narrazione negazionista, nell'arco di tempo esaminato, ha continuato a concentrarsi non solo sulle politiche (il "che cosa fare" sul riscaldamento globale) ma anche sugli aspetti scientifici del problema e in misura relativamente crescente fino agli anni più recenti.

La macchina della negazione ha contribuito a plasmare la percezione e la consapevolezza pubblica sulla scienza del riscaldamento globale. Ha alimentato sui media il false balance, cioè quel fuorviante bilanciamento tra la posizione scientifica e quella negazionista, amplificando la cattiva informazione. Ha approfondito la polarizzazione politica sulla questione. Ed è riuscita a ostacolare o ritardare decisioni cruciali per affrontarla.

Sebbene il negazionismo climatico sia stato un fenomeno particolarmente influente negli Stati Uniti, non si tratta di una storia solo americana. Anche l'Italia ha avuto i suoi mercanti di dubbi. È una vicenda che oggi si preferisce rimuovere. Forse, con qualche imbarazzo.

COVID-19: il copione si ripete

Osservare lo svolgersi della crisi della COVID-19 è un po' come rivedere il film del riscaldamento globale, dall'emergere del problema fino alla sua presa di coscienza e alle reazioni, accelerato di numerose volte. Le analogie in effetti non mancano. Anche davanti alla pandemia c'è chi ha negato, chi ha minimizzato, chi ha diffuso cattiva informazione o disinformazione, chi ha preso di mira gli scienziati, chi ha tentato di ritardare le azioni e chi vi si è opposto per ragioni ideologiche ma cercando di nasconderle dietro argomenti scientifici. Un elemento di connessione tra i due negazionismi è costituito proprio dalla loro ideologia di riferimento. Il caso di Trump ne è un esempio.

Il presidente degli Stati Uniti ancora in carica era un negazionista del riscaldamento globale già prima di candidarsi alla Casa Bianca e lo aveva perfino definito una «bufala». Trump ha ritirato gli Stati Uniti dall'accordo di Parigi sul clima e sotto la sua presidenza la Environmental Protection Agency, l'agenzia federale per la protezione dell'ambiente, si è mossa per cancellare alcune regolamentazioni sulle emissioni di gas serra dagli impianti energetici e altre norme ambientali come quelle sulla qualità dell'aria. L'amministrazione Trump si è contraddistinta per il sistematico attacco all'ambiente, fondato su politiche di deregulation e negazione della scienza. Come riporta il New York Times, Trump ha avviato, nella gran parte completandola, la cancellazione di più di 100 leggi sull'ambiente, aprendo tra l'altro alla vendita di licenze per l'estrazione di petrolio e gas nell'Arctic National Wildlife Refuge, un'area federale protetta nello stato dell'Alaska.

Le motivazioni alla base della minimizzazione della gravità della pandemia sotto l'amministrazione Trump scaturiscono da quella stessa ideologia politica che per decenni ha fatto del negazionismo climatico un cavallo di battaglia. Lo scorso aprile Oreskes e Conway hanno pubblicato sul Los Angeles Times un editoriale intitolato I fallimenti di Trump sul coronavirus? Ringraziamo Ronald Reagan:

«Ciò che è iniziato 40 anni fa come ideologia è ora una patologia. Una dedizione ideologica al “governo limitato” ha spinto i conservatori a menare il can per l’aia sul cambiamento climatico, l’assistenza sanitaria, la crisi degli oppioidi e altri problemi che il settore privato non è stato in grado di risolvere e che sono troppo grandi per gli individui o anche per gli Stati [nel senso americano di States, i singoli Stati dell’Unione] per aggiustarsi da soli. Questa ideologia ha indotto i leader conservatori a respingere le evidenze scientifiche, anche se fornite dai propri consulenti esperti, e anche quando sono in gioco vite umane. La tragica conseguenza, come stiamo vedendo ora, è che si perdono vite che avrebbero potuto essere salvate».

Anche gli attacchi all'immunologo Anthony Fauci ricordano quelli subiti in passato dalla comunità scientifica che si occupa di cambiamento climatico, come ha notato a riguardo il climatologo Michael Mann:

«Quelli di noi in prima linea nelle "guerre del clima" sanno come ci si sente. Per decenni siamo stati attaccati da politici e cani da guardia del settore dei combustibili fossili a causa della natura scomoda della nostra scienza, scienza che dimostra la realtà del cambiamento climatico.»

In entrambe le vicende, inoltre, la disinformazione è stata una delle armi più usate. Uno studio della Cornell University ha analizzato un campione di 38 milioni di articoli sulla COVID-19, pubblicati da diversi media in lingua inglese tra l'1 gennaio e il 26 maggio del 2020. Ha trovato che più di 1 milione riportavano informazioni scorrette e nella gran parte dei casi senza metterne in discussione la veridicità e senza verificarne i contenuti. Nel 37,9% dei casi questi articoli citavano proprio Donald Trump. Secondo gli autori dello studio, nel periodo di tempo analizzato, Trump è stato «il singolo più grande fattore di informazione scorretta sulla COVID-19».

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Un altro elemento in comune è stato il tentativo di dare una verniciata di autorevolezza scientifica a iniziative e posizioni politiche. Come abbiamo visto, il negazionismo climatico tenta di presentarsi con il volto dell'autorità. Autorità, ma non competenza. Molto raramente, infatti, gli scienziati che appoggiano il negazionismo climatico possono vantare una reale esperienza di ricerca sull'argomento. Spesso sono docenti universitari che non si sono mai occupati di riscaldamento globale. Il loro titolo e la qualifica di scienziato sono però sufficienti ad accreditarli come esperti presso i media. Le tesi negazioniste non vengono comunicate sulla letteratura scientifica, ma attraverso mezzi che possono raggiungere direttamente l'opinione pubblica, come lettere e petizioni.

Nel 1998 iniziò a circolare una petizione, nota come Oregon Petition, che chiedeva al governo degli Stati Uniti di non firmare il protocollo di Kyoto sul clima perché, a detta dei suoi promotori, non ci sarebbero state evidenze che il rilascio di anidride carbonica e altri gas serra stesse causando modificazioni del clima terrestre. Anzi, l'aumento dell'anidride carbonica avrebbe avuto effetti benefici (un altro persistente mito negazionista). La petizione era accompagnata da una lettera di Frederick Seitz, l'allora presidente del negazionista George C. Marshall Institute, e raccolse circa 31mila firme. «31mila scienziati», scrissero alcuni media. In realtà, dei 31mila firmatari, solo poco più di 9.000 hanno un dottorato nel proprio curriculum e appena il 12% ha qualche titolo di studio in discipline dell'ambiente, della terra o dell'atmosfera. Non erano perciò "30mila scienziati", tantomeno competenti sul cambiamento climatico. La storia si è ripetuta in tempi più recenti. Nel settembre del 2019 alcuni media hanno diffuso una lettera di «500 scienziati» secondo i quali non ci sarebbe alcuna emergenza climatica in corso sulla Terra. Gli argomenti a sostegno della tesi sono quelli di sempre del negazionismo (ad esempio: «il clima sulla Terra è sempre cambiato»). E i «500 scienziati» non erano per lo più scienziati né esperti dell'argomento.

Qualcosa di simile è avvenuto quest'anno. L'American Institute for Economic Research (AIER), un think tank americano di orientamento libertarian, ha promosso una petizione chiamata Great Barrington Declaration (ne abbiamo parlato su Valigia Blu). I promotori volevano denunciare «l'uso senza precedenti delle costrizioni statali nella gestione della pandemia da COVID-19». Una posizione politica, coerente con l'orientamento ideologico dell'AIER. La stessa ideologia che ha motivato l'opposizione alle regolamentazioni sul clima e l'ambiente e che, anche nel caso della pandemia, cerca di travestirsi da seria proposta scientifica. In questo caso, la proposta è stata quella di adottare una strategia di contenimento della diffusione del virus SARS-CoV-2 basato sull'immunità di gruppo. Un approccio che è però insostenibile sia dal punto di vista scientifico che etico.

L'AIER è parte di quella stessa rete di organizzazioni conservatrici e libertarian che hanno promosso negli scorsi decenni il negazionismo climatico. Sul proprio sito ha pubblicato un intervento contro l'uso delle mascherine, scritto da un chimico che si scaglia contro quella che, a suo dire, sarebbe perfino una minaccia alla libertà e all'identità stessa degli Stati Uniti:

«È tempo che gli esseri umani siano di nuovo esseri umani. Smettiamola di cercare di incolpare le persone per un virus naturale» (...) Le persone sane nella nostra società non dovrebbero essere punite per essere sane, che è esattamente ciò che fanno i lockdown, le distanze, gli obblighi sulle mascherine, ecc. Questo va completamente contro i principi su cui sono stati fondati gli Stati Uniti d'America. Abbiamo perso il significato di "Terra dei Liberi, Dimora dei Coraggiosi" [le parole dell’inno degli Stati Uniti] in "Terra degli Imprigionati, Dimora degli impauriti"»

La Great Barrington Declaration ha trovato qualche sostenitore anche nel nostro paese, all'interno della medesima area ideologica.

Queste iniziative mettono in luce un aspetto della questione: al negazionismo, che sia del riscaldamento globale o della pandemia, per quanto organizzato, non serve adottare un punto di vista coerente e basato su evidenze perché, come abbiamo visto, la sua strategia persegue il solo scopo di impedire o ritardare alcune azioni e decisioni. Come dimostra anche il caso della Great Barrington Declaration, il negazionismo non può accettare quella scienza che ha alcune implicazioni che mettono in crisi certe premesse ideologiche. Il negazionismo, perciò, non si fa particolari scrupoli intellettuali ad utilizzare argomenti che si basano su fallacie logiche, a selezionare quei dati che possono favorire la propria tesi scartando tutti gli altri e, perfino, ad alimentare teorie del complotto. Talvolta, il discorso negazionista si riduce a una grossolana (ma che può risultare a suo modo efficace) retorica contro "catastrofismo" e "allarmismo".

Una strategia negazionista non ha bisogno nemmeno di contestare radicalmente l'esistenza di un problema. Non tutti coloro che si oppongono a un lockdown, paventandolo come una minaccia per la libertà, o che puntano il dito contro la dittatura sanitaria contestano l'esistenza del virus. Negheranno che si tratti di un serio problema per la salute pubblica, che sia una malattia peggiore dell'influenza stagionale o (come fanno ancora oggi i negazionisti climatici) affermeranno che certe misure determinano più costi che benefici.

Il negazionismo non è un sistema di pensiero coerente. È un sistema di difesa, in cui la negazione assoluta può essere solo la prima di una serie di linee di reazione. Gli stadi della negazione possono andare da il problema non esiste, passando per non è colpa nostra e non è un problema così grave, fino a le soluzioni sono più costose che benefiche o è ormai troppo tardi. È un copione che si ripete. Se poi si ammette che il problema esiste e va in qualche modo affrontato, si può comunque fare in modo che sia un'occasione per promuovere una propria particolare agenda. Ad esempio, tra i negazionisti climatici c'è stato chi ha colto l'occasione offerta dalla pandemia e dalla necessità di fare ampio uso di mascherine e altri dispositivi medici per promuovere l'immagine della plastica. È accaduto anche in Italia.

Una lezione (ancora) da imparare

La vicenda del negazionismo climatico e ambientale e quella che stiamo ancora vivendo della pandemia hanno molto da insegnarci sul rapporto complicato tra scienza, società e politica e su come riconoscere e contrastare la cattiva informazione e la disinformazione, soprattutto quando vengono veicolate dai media. Abbiamo visto, infatti, come quest'anno i media generalisti si siano resi responsabili della diffusione di quell'infodemia che ha spesso trasformato il dibattito sulla crisi sanitaria in una cacofonia incomprensibile.

Questa storia tuttavia ci insegna anche che quelli che chiamiamo fatti, come le evidenze scientifiche che dovrebbero informare le politiche in molti settori, non possono imporsi da soli soltanto in virtù della propria solidità e veridicità.

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Il politologo Brendan Nyhan, parlando di come rafforzare la fiducia del pubblico americano nei confronti dei vaccini anti-COVID-19, spiega che bisogna partire dalle risorse di cui già si dispone: «una popolazione che generalmente supporta i vaccini e reti di fiducia che mettono in contatto gli operatori sanitari con i loro pazienti e le persone con le loro comunità». Una sfida cruciale sarà quella di limitare la diffusione delle informazioni false sui vaccini anche se, osserva Nyhan, smontare miti e informazioni scorrette non è sempre l'approccio migliore e talvolta può risultare perfino controproducente. È necessario raggiungere la popolazione attraverso un lavoro che dovrebbe coinvolgere diversi attori, dalle istituzioni alle scuole.

Scrive il filosofo Bruno Latour in Tracciare la rotta: come orientarsi in politica:

Nessuna conoscenza certa, lo sappiamo bene, si regge da sé. I fatti restano saldi solo quando c'è una cultura comune che li sostiene, ci sono istituzioni di cui potersi fidare, una vita pubblica grosso modo decente, dei media almeno un po' affidabili.

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Contrastare i negazionismi e la disinformazione è quindi un'impresa complessa e richiede una responsabilità diffusa nella società. Una responsabilità in buona sostanza collettiva. È un'impresa che in ultima analisi, a pensarci bene, ha a che vedere con quella cosa che chiamiamo democrazia.

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Foto in anteprima via Ilbolive

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