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Bulgaria, la brutale repressione delle proteste contro il governo accusato di corruzione e il silenzio dell’Unione Europea

15 Settembre 2020 8 min lettura

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Bulgaria, la brutale repressione delle proteste contro il governo accusato di corruzione e il silenzio dell’Unione Europea

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di Valerio Evangelista

Ogni giorno, da oltre due mesi, migliaia di cittadini bulgari scendono in piazza contro la gestione clientelare del sistema politico e giudiziario del paese balcanico. I manifestanti accusano infatti il premier Boyko Borisov e il procuratore capo Ivan Geshev di connivenza con le potenti oligarchie che hanno portato la Bulgaria a essere il più corrotto e povero Stato dell’Unione europea. Anche molte comunità bulgare all’estero si sono riunite di fronte alle rispettive ambasciate per chiedere giustizia e trasparenza.

L’iceberg di scandali pubblici e la scintilla del malcontento

I quasi ininterrotti dieci anni di governo del GERB – il partito conservatore e populista guidato da Borisov – sono stati caratterizzati da una gestione controversa di risorse e istituzioni pubbliche, con un graduale intorpidimento dei movimenti di protesta. Ma una serie di scandali esplosi negli ultimi mesi ha risvegliato tensioni sociali dormienti. Come la crisi idrica nella città di Pernik, 45 km a sud ovest di Sofia, dovuta alla mancanza di manutenzione di infrastrutture vitali e alla clemenza del governo nei confronti delle grandi industrie che abusano delle riserve idriche locali. Oppure la scoperta di un traffico di rifiuti tossici gestito dalle mafie italiane, che vedrebbero nella Bulgaria una nuova, profittevole terra dei fuochi. O ancora, la diffusione di fotografie che ritraggono il primo ministro dormire accanto a un comodino pieno di banconote da 500 euro, lingotti d'oro e una pistola.

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Ma a scatenare le manifestazioni è stato lo scandalo della lussuosa villa estiva del politico e magnate Ahmed Dogan, costruita abusivamente e protetta da milizie private rivelatisi poi agenti del servizio di sicurezza nazionale (dunque dipendenti pubblici che, in violazione del proprio mandato, agivano da guardie private). Il presidente della Repubblica Rumen Radev ha riconosciuto l’inopportunità di quanto accaduto; in replica, il procuratore capo ha inviato i propri agenti verso gli uffici presidenziali (operazione culminata nell’arresto di due collaboratori del Presidente), in palese contrasto con tutte le garanzie di immunità e separazione dei poteri sancite costituzionalmente. L’episodio ha scatenato un’ondata di indignazione popolare e di denuncia al potere apparentemente illimitato di Ivan Geshev (per il quale, unico candidato alla posizione di procuratore capo nel 2019, non fu difficile essere nominato nonostante le ombre sulla sua figura).

Il caso Ahmed Dogan è stato reso pubblico da Hristo Ivanov, co-leader della coalizione liberale "Bulgaria democratica”, che per questo è stato inizialmente ritenuto tra i promotori morali e ideologici della protesta anti-governativa. Ma a ormai due mesi dalla prima manifestazione di massa, la composizione si è evoluta in modo inaspettato. Le proteste hanno infatti attirato persone da tutto lo spettro politico, tra cui molti esponenti del “centenario” Partito Socialista, membri della citata coalizione liberale, gruppi di sinistra extraparlamentare e radicale, anarchici, conservatori delusi, movimenti apolitici e persino qualche (minoritario e forse confuso) elemento di estrema destra. Questa demografia così variegata rappresenta un caso senza precedenti nella recente storia bulgara. Eppure, o forse proprio per questo motivo, sono pochissime le bandiere di partito. A dare vita alle contestazioni sono prima di tutto cittadini, famiglie, associazioni, artisti, lavoratori, imprenditori, pensionati, studenti e altri componenti della esasperata società bulgara. La leadership morale si è invece consolidata attorno alla retorica al vetriolo del cosiddetto “trio velenoso” – formato dall'avvocato Nikolai Hadjigenov, dall’artista e scultore Velislav Minekov e dall’ex giornalista radiofonico Arman Babikyan – e al gruppo "BOETS” (dal bulgaro Боец, “combattente”, e acronimo di “Bulgaria Unita da un’Unica Causa), un movimento nato durante l’ultima grande ondata di proteste antigovernative, nel 2013.

Dalle contestazioni sono emerse tre richieste principali:

  • Le dimissioni della coalizione di governo e del procuratore capo.
  • Elezioni anticipate.
  • Una riforma giudiziaria attraverso degli emendamenti alla Costituzione.

L’ombra della radicalizzazione

Ignorando i primi due punti, la coalizione di governo ha redatto una nuova costituzione con la pretesa di soddisfare la richiesta di cambiamento. La nuova bozza costituzionale, piena di errori grammaticali e tecnici, è stata percepita da giuristi e analisti come un tentativo di rafforzare il potere del partito al governo. Tra i più controversi effetti degli emendamenti, citiamo la riduzione del numero dei parlamentari, il ridimensionamento dei poteri del Presidente e la rimozione delle garanzie costituzionali di uguaglianza tra uomini e donne (sostituite con allusioni all’aumento della natalità e ai "valori familiari”). La proposta di Boyko Borisov è stata oggetto di negoziati per due lunghe, intense settimane, raccogliendo poi le firme necessarie grazie all’aiuto di Veselin Mareshki, magnate dell’industria farmaceutica e petrolifera nonché fondatore del partito di estrema destra ed euroscettico Volya. Il giorno seguente, è stato reso noto che una società collegata a Mareshki è risultata vincitrice della concessione, della durata di vent’anni, di una spiaggia sulla costa del Mar Nero.

Ritenendo gli emendamenti proposti nient’altro che una provocazione e un modo per prendere tempo, i movimenti di protesta hanno convocato una manifestazione straordinaria per il 2 settembre. La partecipazione è stata oceanica, la più grande dall’inizio delle contestazioni. Ma la differenza con le altre sere non è stata solo una questione di numeri. I cittadini sono scesi in piazza con uno spirito diverso. L’indignazione ha lasciato il posto alla rabbia, gli slogan si sono fatti più espliciti e agguerriti, il carattere artistico, festivo e pacifico ha assunto connotati violenti. Alcuni manifestanti hanno lanciato sampietrini e altro materiale contro le cordate di polizia in assetto anti-sommossa, provando a ribaltare camionette e volanti. La polizia ha risposto manganellando alla cieca, lanciando gas lacrimogeni verso gruppi di manifestanti pacifici e inondando l’area di spray al peperoncino.

Tra le vittime della brutale repressione anche diversi giornalisti. Come Dimitar Kenarov, picchiato e arrestato mentre filmava gli scontro tra polizia e manifestanti. Aveva con sé una macchina fotografica, indossava una maschera antigas con su scritto “Stampa” e ha più volte detto alla polizia di essere un giornalista. Ma tutto ciò non lo ha risparmiato dalla violenza delle forze dell’ordine. Rilasciato dopo una notte in prigione, Kenarov ha raccontato la sua esperienza:

“[I poliziotti] mi hanno portato via dal resto della folla e trascinato violentemente in via Dondukov [una delle arterie principali del centro di Sofia, ndr]. Continuavo a gridare di essere un giornalista e di avere con me una tessera-stampa. Ho chiesto di poter mostrare la mia identità. Due di loro si sono seduti sopra di me, al punto da non farmi più respirare. Urlavo dicendo di non riuscire a respirare. In quel momento, un poliziotto mi ha tirato diversi calci in faccia, anche nella zona degli occhi”

Quando Kenarov ha esibito la sua tessera giornalistica, i poliziotti ne hanno letto distrattamente i dati contenuti e poi l’hanno riconsegnata. Lo hanno picchiato, lasciato ammanettato sul marciapiede per ore e poi arrestato. La sua fotocamera, fatta a pezzi dalla furia repressiva, sembra essere scomparsa nel nulla. Durante la sua detenzione gli è stato persino negato di contattare un avvocato. Tutto ciò soltanto per aver svolto il suo lavoro di giornalista. Dopo essere stato rilasciato, Dimitar Kenarov ha pubblicato una foto su Twitter che evidenzia i segni della violenza subita.

L’Associazione dei giornalisti europei ha chiesto indagini accurate, punizione per i soggetti coinvolti e una presa di posizione da parte del Ministero degli Interni, aggiungendo: “L'AEJ condanna fermamente la violenza della polizia contro i giornalisti che coprono le proteste. Ci sono anche segnalazioni di altre azioni illegali della polizia contro i giornalisti. Molti dei nostri colleghi, facenti capo a vari media, sono stati picchiati e gasati durante le proteste di mercoledì. Ci è stato anche comunicato che anche ad altri giornalisti sono state danneggiate le attrezzature. L'AEJ sta monitorando tutti questi casi e informerà i suoi partner internazionali sulle brutali azioni della polizia contro Dimitar Kenarov. L'associazione fornirà supporto al giornalista per far valere i suoi diritti in tribunale”.

Diritto al dissenso

Un elemento singolare della società bulgara è dato dalle conseguenze a cui potrebbe andare incontro chi manifesta pubblicamente il proprio dissenso verso il governo.

Come Michael Hristov, dirigente pubblico presso l’Aeroporto di Sofia, licenziato due giorni dopo aver espresso su Facebook il proprio supporto alle proteste. Prima di allora, non gli era mai stata notificata alcuna irregolarità professionale che possa giustificare il licenziamento. Nessuna sanzione disciplinare (né scritta né orale), neanche un ritardo in ufficio.

Oppure come Marian Kolev, proprietario del colosso di giochi per l’infanzia Hyppoland, che ha subito controlli fiscali il giorno dopo aver denunciato la violenza della polizia nei confronti del figlio adolescente (che aveva partecipato alle manifestazioni antigovernative). I suoi uffici sono stati perquisiti, in contemporanea, da agenti dell'Agenzia delle Entrate, della Polizia Economica e della Direzione generale per la sorveglianza del mercato. Nello stesso tempo, altri agenti hanno effettuato controlli anche in alcuni negozi della catena. Dopo un gran frugare, le autorità hanno riscontrato una discrepanza di 9,60 leva (pari a meno di 5 euro) tra i contanti in cassa e quanto scritto nel libro cassa.

O ancora, il caso di Zagrey, un’azienda vinicola nei pressi di Plovdiv dall’ex parlamentare Yordan Kostadinov. Alcuni operai della cantina vengono fermati dalla polizia lungo la strada per Sofia. Quando viene chiesto il motivo del viaggio, loro rispondono in modo trasparente e dichiarano di andare alle proteste. Vengono trattenuti a lungo, senza capire perché. I poliziotti notano il marchio aziendale sul loro mezzo di trasporto. Due giorni dopo, la cantina riceve la visita di ispettori dell’Agenzia delle Entrate, dell’Agenzia delle Dogane, del Fondo statale per l’agricoltura e dalla Polizia Economica. Gli agenti verificano cose a caso, senza una chiara direzione. Si fanno consegnare registri e archivi, ma vanno via senza aver riscontrato alcuna irregolarità.

È raro notare operazioni congiunte di questi organi di controllo, perché fanno capo a ministeri diversi. Quando accade, è perché ci sono fondati motivi di anomalie talmente evidenti e sostanziose da richiedere un coordinamento del genere. Il fatto che siano state riscontrate irregolarità minime o inesistenti sembrerebbe dare credito a chi considera queste ispezioni meri strumenti di intimidazione da parte del potere.

Dunja Mijatovic, commissaria per i diritti umani del Consiglio d’Europa, ha espresso grande apprensione per la brutale repressione del 2 settembre e ha esortato le autorità bulgare a portare avanti indagini serie per perseguire i responsabili. “Gli agenti di polizia devono urgentemente ricevere istruzioni chiare su come rispettare la libertà di stampa e permettere ai giornalisti e ai loro colleghi di coprire le proteste in totale sicurezza”.

Dalle istituzioni dell’Unione Europea, quasi nessun riscontro. Voce nel deserto più unica che rara è quella di Clare Daly, europarlamentare irlandese della Sinistra Unitaria Europea/Sinistra Verde Nordica, che alla vigilia della maxi-manifestazione indetta per il 10 settembre, ha attaccato veementemente le violenze contro giornalisti e manifestanti, l’utilizzo della cosa pubblica per perseguire interessi privati e gli altri elementi che in Bulgaria elevano i casi di corruzione a sistema.

Siamo ormai entrati nel terzo mese di proteste. Se il governo ha intenzione di rimanere al proprio posto fino alle prossime elezioni, i manifestanti non mostrano segni di cedimento. Cosa dovrà accadere, prima che l’Unione Europea si ricordi dei propri cittadini in terra bulgara?

Immagine in anteprima via Mary Kostov

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