COVID-19, perché abbiamo bisogno di un sistema di tracciamento europeo
4 min letturaDa metà agosto in poi abbiamo visto salire il numero di positivi al nuovo coronavirus. Le cronache quotidiane hanno parlato di persone che hanno contratto il virus di ritorno dalle vacanze all’estero (in particolar modo da Spagna, Croazia, Malta e dalle isole greche) e che sono diventate a loro volta veicolo di contagio nelle cerchie di amici, parenti e contatti stretti.
Il tracciamento dei contatti ha permesso di individuare un’alta quota di persone asintomatiche (che avrebbero potuto anche manifestare i sintomi della malattia nel giro di qualche giorno) o che avevano sintomi lievi, tali da non accorgersi di avere la COVID-19, nel tentativo di identificare e spegnere il più presto possibile eventuali focolai.
Tuttavia, le micce accese dai tanti cosiddetti “contagi da ritorno” (dalle vacanze) praticamente in tutte le regioni in un momento in cui, dopo i mesi di lockdown, il grande incendio epidemico sembrava quasi spento, evidenzia ancora una volta come la pandemia riguardi tutti i paesi e richieda risposte comuni. Fino a quando l’andamento dei contagi sarà disomogeneo tra i diversi paesi non potremo permetterci di tornare a viaggiare e a spostarci come un tempo. E quanto sta accadendo da un mese a questa parte ce lo sta mostrando impietosamente.
Secondo alcuni documenti di sanità pubblica, consultati dal Financial Times, sette gruppi di giovani tornati a casa, in provincia di Padova, da Croazia, Grecia e Malta, sono risultati positivi al nuovo coronavirus. Dai tamponi effettuati dopo che alcuni di loro avevano manifestato i primi sintomi sono stati individuati nuovi cluster epidemici che hanno coinvolto almeno 25 casi positivi e portato all’isolamento di altre 159 persone per aver avuto un potenziale contatto con il virus per recidere eventuali catene di contagio che poi rischiano di diventare incontrollabili. Un po’ come, purtroppo, avvenuto prima che la COVID-19 si manifestasse in tutta la sua forza tra marzo e aprile.
Il rischio è che l’aumento contemporaneo di molti focolai possa rivelarsi troppo forte rispetto all’argine garantito dalla sorveglianza epidemiologica e dal contact tracing sul territorio e mettere di nuovo a dura prova gli ospedali. Il problema, ancora una volta, è la corsa contro il tempo. Anche questa estate, fino all'ordinanza del ministero della Salute del 12 agosto (che stabilisce l'obbligo di sottoporsi a tampone per verificare l'eventuale contagio da Covid-19 per chi arriva in Italia dopo essere stato in Grecia, Croazia, Spagna o Malta), i primi casi positivi sono stati rilevati dopo la manifestazione dei primi sintomi, con un intervallo di alcuni giorni rispetto a quando una persona aveva contratto il virus ed era potenzialmente contagioso. Solo dopo il rilevamento di questi casi, è partita poi la procedura di tracciamento e isolamento dei contatti.
Secondo gli esperti, scrive il Financial Times, si sarebbe potuto guadagnare tempo e limitare la diffusione del coronavirus se fossero stati fatti i test prima delle partenza o se fossero state adottate procedure di tracciamento transfrontaliere, tra un paese europeo e l’altro. Ma, al momento, gli strumenti utilizzati sono frammentati e non c’è condivisione di informazioni e strategie. Basti pensare che il meccanismo di tracciamento paneuropeo, un sistema di allerta rapido, creato nel 1999 per monitorare la diffusione della tubercolosi, è stato sottoutilizzato dagli Stati membri. Dal 2017, sono state registrate appena 408 notifiche, incluse quelle relative alla COVID-19.
Si continuano a perseguire strategie individuali. Le politiche di sanità pubblica sono nazionali e cambiano anche i modi attraverso i quali i singoli paesi rispondono alla nascita dei focolai, rendendo difficoltoso un coordinamento tra i paesi dell’Unione europea. Per fare un esempio, il Belgio e i Paesi Bassi hanno strategie di monitoraggio dell’andamento dei contagi diverse nonostante siano Stati confinanti.
Nel frattempo, alcuni paesi, come l’Italia, hanno introdotto misure di quarantena ad hoc e test per le persone che provengono da determinate nazioni. In Francia e nel Regno Unito sono stati introdotti dei blocchi locali. Ma queste decisioni mostrano limiti e debolezze ed evidenziano l’assenza di politiche transfrontaliere e comuni.
«La questione del contagio da rientro è molto seria e va affrontata con direttive comuni», spiega il direttore del Dipartimento di Medicina Molecolare dell'Università di Padova, Andrea Crisanti. «Ma i meccanismi decisionali europei non sono all’altezza del compito e, al punto in cui siamo, il tracciamento non sarà sufficiente a prevenire la trasmissione del virus all’interno delle comunità a meno che non esista una rete di laboratori in grado di fare i test alle persone prima che viaggino. Dobbiamo testare tutti i contatti, i membri della famiglia, i colleghi di lavoro». In sintesi, rintracciare i casi dopo che le persone hanno viaggiato è molto più difficile che testare le persone prima che partano.
Tuttavia, qualcosa si muove, anche se in ritardo. La sottosegretaria alla Salute, Sandra Zampa, ha recentemente annunciato la possibilità di un’intesa con Francia e Spagna per far sì che tutte le persone che viaggiano tra i tre paesi facciano il test prima di partire e prima di fare ritorno a casa.
Intanto, gli Stati membri dell’UE stanno lavorando a un meccanismo che consentirà loro di tracciare i casi positivi e i loro contatti oltre confine attraverso app per smartphone che utilizzano uno standard sviluppato da Apple e Google, con il supporto di SAP e Deutsche Telekom. Ma il tutto dovrebbe realizzarsi a ottobre, a stagione estiva conclusa, e al progetto non sta partecipando la Francia, uno dei paesi più visitati al mondo e che sta vedendo un grande incremento dei contagi.
In assenza di un meccanismo di tracciamento paneuropeo, il peso dell’attività di test, tracciamento e isolamento cade tutto sui contesti locali. Secondo una stima del Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie, per una media di 1.000 casi segnalati al giorno sono necessari fino a 359 addetti. In Spagna, le autorità catalane avevano sottostimato l’aumento dei contagi e si sono trovate senza un numero sufficiente di personale. In Belgio, invece, i governi locali e regionali stanno segnalando l’incongruenza dei sistemi di tracciamento tra le regioni francofone e fiamminghe del paese. «In questo modo non ci sarà mai un tracciamento preciso dei contagi attraverso i confini regionali», ha dichiarato Hans Bonte, sindaco di Vilvoorde, una città fiamminga fuori Bruxelles.
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