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Come percepiamo la pandemia

26 Agosto 2020 8 min lettura

Come percepiamo la pandemia

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Quando accadono eventi che riteniamo imprevedibili cerchiamo di trovare ad essi delle spiegazioni per noi accettabili. La complessità di queste spiegazioni dipende dalle conoscenze che abbiamo accumulato e, se si tratta di epidemie, dalla percezione che riusciamo ad avere della malattia.

Se le conoscenze scientifiche alle quali possiamo accedere sono limitate o contrastanti non abbiamo altra scelta che fare leva sul nostro giudizio per affrontare le incertezze.

Tuttavia, il nostro giudizio può essere niente di più ingannevole non solo per le ampie distorsioni cognitive alle quali siamo vulnerabili nelle scelte decisionali ma anche quando si tratta di percepire visivamente la realtà non riusciamo a vederla proprio com’è. Questi aspetti sono particolarmente rilevante ai fini della percezione del rischio associato, ad esempio, a un’infezione virale e dell’attuazione dei comportamenti necessari a controllarlo.

Le illusioni ottiche rappresentano un elegante esempio degli inganni che ci sottopone il nostro cervello nel ricostruire i dati di realtà, restando solo ai livelli della percezione visiva.

Nei seguenti esempi non vediamo quello che c’è, vediamo quello che non c’è, vediamo solo da uno dei due punti di vista possibili.

Una volta svelata l’insidia (i cerchi tra i rettangoli dell’illusione del forziere, il triangolo bianco apparente di Kanizsa, la giovane o la vecchia) riusciamo a guardare ogni figura con maggiore consapevolezza e a vederne la molteplicità di elementi anche se resta l’effetto dell’illusione.

L’accesso alle informazioni ci permette quindi di andare oltre le nostre percezioni sensoriali e di imparare a gestire la complessità, a meno che non decidiamo deliberatamente non solo di accontentarci delle nostre visioni soggettive ma di spacciarle come oggettive e affidabili per una varietà di scopi, dalla sfida interna alla nostra piccola cerchia all’attivismo antiscientifico in una comunità.

In tal caso si può continuare a insistere che nella seguente figura i due quadrati A e B siano di un grigio diverso mentre alla prova dei fatti condividono proprio la stessa tonalità:

Ricorre a questa illusione la fisica e divulgatrice Sabine Hossenfelder nel suo ultimo video rivolto a spiegare il fondamento delle posizioni dei 'terrapiattisti', coloro che ritengono la terra sia piatta.

Per Hossenfelder una logica di questo movimento anacronistico e antiscientifico è comunque rintracciabile e consiste nel fare affidamento sulle proprie evidenze sensoriali o percezioni soggettive: “per quello che vedo, per quello che sento, per quello che calpesto la terra tonda non è”. Al giorno d’oggi sono sufficienti poche informazioni da un altro punto di vista per dimostrare l’infondatezza di questa posizione. Nelle persone che hanno dei dubbi, l’accesso a queste informazioni è determinante per accrescere la conoscenza scientifica e ridurre l’affidamento alle sole evidenze soggettive. Non è così per chi ha un approccio fideistico e crede per dottrina nella rivelazione della piatta terra oppure amministra organizzazioni dedicate.

Quando questa attitudine si applica alla salute la situazione diventa più problematica.

Qualcosa di analogo sta, infatti, accadendo per il nuovo coronavirus: “per quello che vedo e che sento non ci sono ammalati quindi chi ne parla crea psicosi”.

È quello che è accaduto per l'articolo sui sintomi cronici e complessi della Covid-19 che ha scatenato reazioni aggressive e negazioniste.

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C’è da dire che l'informazione su giornali e tv ha una notevole responsabilità in questo scetticismo verso la malattia perché ha fatto e continua a far circolare di tutto, genera confusione che sia intenzionalmente o meno, enfatizza le infrazioni alle regole sui comportamenti non sicuri inducendo emulazione in diversi gruppi di persone, trascura gli aggiornamenti sulla situazione attuale di ammalati, di operatori, dell’organizzazione dei servizi, delle risorse, ecc.

Si pensi che questa abitudine a presentare una specie di informazione pericolosamente “bilanciata” è uno dei fattori responsabili del persistere della credenza che l’autismo sia causato dai vaccini. È quanto rilevano ancora oggi Monica Pivetti (Università di Bergamo), Giannino Melotti (Università di Bologna) e Claudia Mancini (Università di Chieti-Pescara) in uno studio qualitativo sulle percezioni di 18 madri di bambini autistici, pubblicato lo scorso aprile. Se è vero che lo sconcertante articolo di Wakefield del 1998, che riportava senza dati attendibili un’associazione statistica tra vaccino e diagnosi di autismo, è stato ritirato nel 2010 dalla rivista The Lancet, ancora persistono gli effetti devastanti del dubbio che ha inoculato questa falsa scienza nell’opinione pubblica generale. La pressione dei movimenti anti-vaccinazione e una copertura mediatica che ha dato lo stesso credito a fonti scientifiche e antiscientifiche sono le cause principali, rilevano Pivetti e collaboratori. Giova ricordare che il caso italiano si è arricchito anche della sentenza di primo grado che a Rimini nel 2012 aveva riconosciuto il risarcimento da parte della ASL alla famiglia di un bambino autistico. La sentenza fece scalpore e fu riportata con grande enfasi su giornali e tv. Per Pivetti e collaboratori questo è stato l’innesco che ha fatto dilagare i dubbi sulle vaccinazioni. La sentenza fu poi ribaltata dalla Corte d’Appello di Bologna nel 2015 ma l’eco mediatica di questa importante notizia è stata irrisoria. Solo due delle madri intervistate nello studio di Pivetti, Melotti e Mancini riferiscono che l’autismo sia dovuto a cause genetiche, per sei madri l’autismo del proprio bambino è stato causato dal vaccino (è da ribadire che vi è solo al più una coincidenza temporale tra l’età di somministrazione del vaccino MPR e l’esordio della regressione comportamentale) e per le restanti, hanno un ruolo entrambi i fattori. Ci vorrà ancora del tempo per ristabilire verità scientifica e fiducia che permettono anche di elaborare in modo consapevole la diagnosi, gestire l’ansia per l’imprevedibilità delle manifestazioni e attenersi agli interventi riabilitativi.

All’attuale situazione di confusione e frastuono nella quale ci troviamo ad affrontare l’emergenza della Covid-19 – che non giova all’adozione di comportamenti sicuri e prosociali - non poco hanno contribuito quegli esperti che si sono profusi nel diffondere con ogni mezzo le proprie evidenze soggettive, pensieri positivi o addirittura le più fantasiose tesi cospirazioniste.

In qualche tranello sono caduti anche gli esperti più affidabili, nel momento in cui sono stati richiesti di esprimere opinioni su temi al di fuori delle proprie competenze o semplicemente per le scarse abilità di comunicazione.

La macchina antiscientifica sta oliando tutti i suoi ingranaggi: falsi esperti, fallacie logiche, aspettative impossibili, selettività delle fonti, teorie cospirazioniste. Si tratta di un modello che si applica a tutte quelle situazioni in cui è in atto il negazionismo scientifico, come l’emergenza climatica, le vaccinazioni e quest’anno il nuovo coronavirus.

Con la stessa alacrità sta fabbricando nuove barriere lo stigma sociale che da noi già contava su solide fondamenta.

Come riporta un documento del Ministero della Salute:

“Lo stigma sociale, nel contesto della salute, è l'associazione negativa tra una persona o un gruppo di persone che hanno in comune determinate caratteristiche e una specifica malattia. In una epidemia, ciò può significare che le persone vengono etichettate, stereotipate, discriminate, allontanate e/o sono soggette a perdita di status a causa di un legame percepito con una malattia”.

Già con la pandemia da H1N1 nel 2009 si era prodotto un preoccupante stigma sociale verso gli infetti. I pregiudizi e gli atteggiamenti negativi nei loro confronti erano superiori a quelli dichiarati verso le persone positive a HIV, come riportarono in uno studio del 2013, Valerie Earnshaw (Università di Yale) e Diane Quinn (Università del Connecticut), richiamando anche all’urgenza di predisporre le strategie per ridurre lo stigma in vista delle future pandemie.

A dire il vero il documento del Ministero sopra riportato elenca i motivi per i quali la Covid-19 sta producendo stigma sociale:

1) è una malattia nuova per la quale esistono ancora molte incognite;

2) abbiamo spesso paura dell'ignoto;

3) è facile associare quella paura agli "altri".

Inoltre, ne descrive l’impatto:

Lo stigma può minare la coesione sociale e può indurre ad un isolamento sociale dei gruppi. Ciò potrebbe contribuire a creare una situazione in cui il virus potrebbe avere maggiore - non minore - probabilità di diffusione. Ciò può comportare problemi di salute più gravi e maggiori difficoltà a controllare l’epidemia.

Lo stigma può:

  • Spingere le persone a nascondere la malattia per evitare discriminazioni
  • Indurre a non cercare immediatamente assistenza sanitaria
  • Scoraggiare l’adozione di comportamenti sani

Infine, elenca le possibili strategie per ridurre lo stigma sociale associato alla Covid-19:

Il modo con cui parliamo di COVID-19 è fondamentale per supportare le persone a intraprendere azioni efficaci per aiutare a combattere la malattia e per impedire di alimentare la paura e lo stigma. È necessario creare un clima in cui la malattia e il suo impatto possano essere discussi e affrontati in modo aperto, onesto ed efficace.

Ecco alcuni suggerimenti su come affrontare il crescente stigma sociale e come evitarlo:

  1. Le parole contano: cosa fare e cosa non fare quando si parla del nuovo coronavirus (COVID-19)
  2. Fai la tua parte: idee semplici per allontanare lo stigma
  3. Suggerimenti e messaggi di comunicazione.

Se si scorrono i dettagli e gli esempi di queste tre strategie ci si rende conto che stiamo andando nella direzione giusta per accrescere giorno per giorno e irrimediabilmente lo stigma sociale.

Pensiamo al disprezzo con cui viene trattata ogni persona contagiata, se giovane o migrante è poi un bersaglio perfetto per chi urla notizie che si adattano ai pregiudizi

Le persone che hanno affrontato i sintomi acuti o stanno affrontando i sintomi persistenti e complessi della Covid-19 e i loro familiari hanno bisogno di essere visti, andando un po’ oltre le ristrette percezioni sensoriali, in modo da riconoscerne le sofferenze e i bisogni, garantire loro esistenza sociale e assicurare le cure farmacologiche, riabilitative e psicologiche necessarie. Le persone e le famiglie che hanno subito lutti, le/gli operatrici/tori sanitarie/i e socio-assistenziali che hanno affrontato le situazioni più dolorose hanno bisogno di essere ascoltate.

Se non allarghiamo il nostro campo percettivo mentre gli eventi accadono, il processo di dimenticanza di questa pandemia sarà ancora più rapido del previsto.

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C'è un pressante bisogno di accrescere le conoscenze e di una più estesa educazione scientifica: i primi progetti da realizzare alla riapertura delle scuole potrebbero essere proprio legati alla pandemia non solo per aiutare bambine/i e ragazze/i che hanno affrontato con maggiori fragilità i mesi scorsi a re-integrarsi ma anche per aiutare a distinguere le informazioni affidabili da quelle dannose e soprattutto a mantenere comportamenti sicuri.

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Quanto aiuterebbe ad affrontare le incognite dei prossimi mesi, a partire dagli esperti e dalle istituzioni, una comunicazione rispettosa - senza insulti né allarmi -, equilibrata, che aiuti a mantenere la lucidità nell'incertezza e a discernere le percezioni individuali (spesso illusorie) dalle prove dei fatti su larga scala!

Da dove si comincia?

Immagine anteprima di Mylene2401 via Pixabay

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