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La strategia dei tamponi: criteri, ritardi, criticità in Italia e all’estero

30 Marzo 2020 21 min lettura

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La strategia dei tamponi: criteri, ritardi, criticità in Italia e all’estero

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Il modo più efficace per prevenire le infezioni da nuovo coronavirus SARS-CoV-2 e interrompere la catena di contagio è quello di fare «Test, test, test», perché non si può fermare la pandemia in atto «se non sappiamo chi è infetto». Queste le parole pronunciate da Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore generale dell'Organizzazione mondiale della sanità (OMS), lo scorso 16 marzo, e rilanciate dai media.

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Cerchiamo quindi di capire perché è importante questa strategia – che deve essere accompagnata da altre misure di contenimento e contrasto –, come funziona, quali sono le indicazioni dell’OMS, come si sono comportati i diversi paesi del mondo e cosa si sta facendo in Italia.

Cos’è un tampone e come funziona un test
Qual è stata la raccomandazione dell'OMS sui test
Le strategie difformi tra paese e paese
Cosa succede in Italia

Cos’è un tampone e come funziona un test

Il tampone è un piccolo batuffolo di cotone, come spiega l'epidemiologo Pier Luigi Lopalco, con cui si preleva del muco dal naso e della saliva dalla bocca. Il materiale prelevato viene poi analizzato dai laboratori predisposti per rilevare (in circa 4 o 6 ore, quando non si accumula dell'arretrato per varie criticità) la presenza o meno del virus nelle prime vie respiratorie.

In Italia si sta parlando di vari "test rapidi" per aiutare a tracciare con più velocità il contagio in atto, aumentando il numero di tamponi effettuati. Ma il Comitato Tecnico Scientifico (CTS) – l’organo che ha lo scopo di fornire consulenza a governo e protezione civile sulle misure di prevenzione necessarie a fronteggiare la diffusione del nuovo coronavirus – in una nota del 18 marzo ha comunicato che “l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) sta attualmente valutando circa 200 nuovi test rapidi basati su differenti approcci. I risultati relativi a quest’attività di screening saranno disponibili nelle prossime settimane”. In attesa di questi risultati, gli esperti italiani hanno ribadito comunque che al momento “l’approccio diagnostico standard e internazionalmente accettato rimane quello basato sulla ricerca dell’Rna virale nel tampone rino-faringeo”.

Qual è stata la raccomandazione dell'OMS sui test

Nel suo discorso pronunciato durante la conferenza stampa di metà marzo, Ghebreyesus ha spiegato che, oltre alle politiche di distanziamento sociale decise in diversi Stati e alle misure di prevenzione personali, la reale spina dorsale per contrastare la diffusione del virus è effettuare test per capire chi è positivo o meno, isolando poi i contagiati e tracciando i loro contatti fino a 2 giorni prima dall’insorgere dei sintomi della malattia. L'OMS ha dichiarato che «ogni giorno vengono prodotti più test per soddisfare la domanda globale. L'OMS ha spedito quasi 1,5 milioni di test a 120 paesi. Collaboriamo con le aziende per aumentare la disponibilità di test per coloro che ne hanno più bisogno».

L’invito a fare test su test da parte del direttore generale dell’OMS non deve essere però confuso con una richiesta di screening di massa a tutta la popolazione di ogni paese colpito da Covid-19 (la malattia provocata dal virus). I test, infatti, ha specificato Ghebreyesus nel suo intervento, devono essere fatti sui "casi sospetti".

L’OMS definisce, ad oggi, “i casi sospetti” in questo modo:

a) Una persona che ha una malattia respiratoria acuta (febbre e almeno un sintomo di malattia respiratoria, ad esempio tosse, mancanza di respiro) e che quattordici giorni prima dei sintomi ha viaggiato o soggiornato in un luogo dove Covid-19 è presente.
b) Una persona con qualsiasi malattia respiratoria acuta e che è stata in contatto con un caso confermato o "probabile" di Covid-19 (cioè un caso sospetto per il quale il test effettuato non è conclusivo o per il quale non è stato possibile eseguire un test) negli ultimi 14 giorni prima dell'insorgere dei sintomi.
c) Una persona con una grave malattia respiratoria acuta e senza una diagnosi alternativa che spieghi completamente la sua situazione clinica.

L’OMS raccomanda comunque che, nel caso in cui ci siano gravi difficoltà nella capacità di effettuare e analizzare i test, i casi sospetti che non presentano rischi per la propria salute devono essere messi in isolamento domiciliare ma non testati. I tamponi, invece, vengono fortemente raccomandati per i casi sospetti che hanno bisogno di essere ospedalizzati o per gli operatori sanitari sintomatici.

Le strategie difformi tra paese e paese

Sulle gestione dello screening dei contagi, sia negli Stati Uniti che in molte parti dell’Europa occidentale, ci sono stati però ritardi e criticità dovuti a cambi di strategie politiche, a errori e carenze, come raccontano Matt Apuzzo e Selam Gebrekidan sul New York Times. La risposta al virus non è stata uniforme e questo, secondo diversi esperti citati dal Financial Times, avrebbe portato a una paralisi nel capire l’effettiva diffusione della malattia e all’opportunità di contenere il virus. Inoltre, la stessa metodologia di raccolta dati sui tamponi cambia da paese a paese e per questo un confronto rischia di diventare fuorviante.

Negli Stati Uniti d’America, scrive Nidhi Subbaraman su Nature, gli esperti sanitari hanno denunciato la lenta risposta alla pandemia del governo, “in particolare riguardo alla scarsa disponibilità e velocità dei test”. Un fatto che ha permesso al virus di diffondersi senza essere scoperto e tracciato. Lo scorso 12 marzo, Anthony Fauci, direttore del National Institute of Allergy and Infectious Diseases, ha dichiarato che il paese stava fallendo nella capacità di testare le persone, specificando che gli USA non erano riusciti a soddisfare la capacità necessaria dei test per il nuovo coronavirus, tra problemi organizzativi, burocratici e tecnici.

Successivamente, il presidente americano Donald Trump ha promesso l’arrivo su larga scala dei test. Il 16 marzo, Brett Giroir, vice segretario alla Salute, ha dichiarato che il paese sarebbe stato in grado di elaborare un milione di test entro la fine della settimana, 2 milioni entro quella successiva e 5 milioni nelle prossime. Ad oggi, secondo i dati forniti dal COVID Tracking Project, una collaborazione no profit di funzionari della sanità pubblica e giornalisti che contano i test effettuati negli Stati Uniti, sono stati finora eseguiti oltre 776mila test.

Anche in Europa, i paesi hanno adottato strategie difformi nella risposta alla diffusione del virus, in particolare sui test per capire chi è infetto o meno, anche in relazione alla disponibilità dei propri laboratori. Come riporta il 21 marzo Le Monde, se la Francia “limita l'accesso ai test agli operatori sanitari e ai casi più gravi, (...) l’Austria, con una situazione di pandemia molto paragonabile a quella francese, sta perseguendo una politica di screening più dinamica”. Per poter effettuare un tampone è “sufficiente presentare i sintomi o essere stato in contatto con una persona contaminata, dopo una prescrizione medica”. Il governo di Vienna ha disposto anche la possibilità di poter eseguire test drive-thru come in Corea del Sud.

Altri paesi invece sembrano avere difficoltà a poter effettuare tutti i test necessari, continua il quotidiano francese: “La Slovenia ha deciso di limitare gli esami al personale medico, agli anziani e ai malati con sintomi gravi”. Da parte sua, la Repubblica Ceca riesce ad effettuare i test necessari, dopo una prescrizione medica, e questi vengono “effettuati anche da laboratori privati ​​ad un costo compreso tra i 35 euro e 100 euro”. In Polonia, secondo quando dichiarato dal ministro della Sanità, Lukasz Szumowski, i laboratori hanno effettuato una media di 1.500 test al giorno, anche se la loro capacità può arrivare al doppio. “Le attuali istruzioni delle autorità – spiega Le Monde – lasciano infatti un ampio margine di manovra ai medici per decidere il loro utilizzo, una posizione considerata da parte della popolazione e dai medici stessi non molto rassicurante. L'ordine dei medici ha quindi invitato il ministro ad aumentare la disponibilità di test”.  

In Germania, invece, attualmente, gli ospedali e i medici di famiglia decidono chi sarà sottoposto al test, si legge sul sito del Ministero della Salute tedesco, basando la loro decisione sulle raccomandazioni del Robert Koch Institute, cioè l’ente responsabile per il controllo e la prevenzione delle malattie infettive. “Secondo queste raccomandazioni, sintomi come febbre, mal di gola e disturbi respiratori da soli non sono sufficienti. Le persone devono inoltre aver avuto contatti con una persona infetta o aver trascorso del tempo in una regione in cui è stato dimostrato che il virus è presente in ampie aree”. Il Ministero tedesco afferma che testare anche persone sane può mettere a dura prova la capacità di effettuare test nel paese. Secondo Christian Drosten, un virologo tedesco, la Germania, con le proprie reti di laboratori è capace di organizzare in maniera più facile il lavoro: ha infatti implementato il numero di test effettuati ogni settimana, arrivando così a uno screening su larga scala (passando da una capacità di 160mila test a settimana a una stima di 500mila). Un’analisi di Sky News mostra come la Germania sia stata in grado di identificare più rapidamente di altri paesi, fin da subito, i casi di nuovo coronavirus e isolare le persone infettate (uno dei motivi ipotizzati che ha portato il paese ad avere, fino a oggi, un basso tasso di letalità della malattia rispetto agli altri paesi).  

Nel Regno Unito, inizialmente venivano testati solo i pazienti gravemente malati in ospedale con sintomi simil-influenzali, riporta la BBC. Nei giorni scorsi, però, dopo le critiche ricevute, è stato annunciato dal governo guidato dal primo ministro Boris Johnson (risultato positivo al nuovo coronavirus) che i test verranno eseguiti anche sul personale del Sistema sanitario nazionale. “Attualmente, circa 6mila persone vengono testate quotidianamente. Ma alla fine di marzo si punta a effettuare 10mila test al giorno, passando a 25mila a metà aprile”.

In Francia si è deciso di testare solo i casi gravi di persone malate con sintomi da Covid-19. Una strategia, scrive Le Monde, “coerente con le limitate capacità di screening disponibili”. Sono emerse infatti diverse complicazioni nella catena logistica, mancanza di preparazione e carenza di prodotti necessari per effettuare questi tamponi. A livello strategico Daniel Lévy-Bruhl, epidemiologo e capo dell'unità per le infezioni respiratorie presso Public Health France, ha affermato di non poter pretendere di identificare tutti i casi: «Non conosco paesi in Europa in grado di identificare tutte le catene di trasmissione. Da quando è iniziata la fase 3 (ndr cioè da quando l'epidemia è ormai presente su tutto il territorio del paese), devi accettare che non puoi più identificare individualmente i casi». Intanto, comunque, i laboratori francesi predisposti per l’analisi dei test sono in continuo aumento. La Francia esegue “più di 5mila test al giorno", secondo quanto riferito dal ministro della Salute, Olivier Véran. Il direttore della Direzione Generale della Sanità, Jérôme Salomon, il 25 marzo ha annunciato che la capacità di fare test sarebbe aumentata a 29mila al giorno entro la fine del mese.

All’inizio di marzo in Spagna, tra i paesi risultati poi più colpiti insieme all’Italia, erano arrivate segnalazioni e denunce da parte dello stesso settore sanitario: il paese stava facendo pochi tamponi (inizialmente alle sole persone con sintomi che erano state in aree a rischio) a causa della mancanza di risorse, personale e materiale. Con il continuo aumento dei contagi, però, la strategia delle persone da testare cambia in alcune parti del paese. Il 15 marzo in Catalogna e a Madrid si smette di testare tutti i casi con sintomi e ci si concentra solo sui pazienti più gravi. Attualmente in Spagna, secondo fonti ufficiali, vengono analizzati circa 15mila – 20mila test al giorno. Numeri ritenuti non sufficienti. Per questo motivo il governo spagnolo punta a raggiungere la cifra di 80mila test diagnostici giornalieri grazie all’acquisto di robot

Rispetto agli Stati Uniti d'America e parte d'Europa, alcuni paesi asiatici hanno saputo invece organizzarsi meglio, anche per esperienze pregresse, e praticare una risposta mirata. La Corea del Sud quando il virus ha cominciato a diffondersi, combinando vari interventi di contrasto al contagio, ha iniziato una massiccia campagna di test per riuscire a individuare quale fosse il paziente dal quale era partita la catena della trasmissione della malattia. I tamponi sono stati effettuati sin da subito su contatti stretti di casi diagnosticati positivi, operatori sanitari e persone in isolamento potenzialmente guarite. Questi testi sono stati eseguiti in centri in diverse parti del paese o in strutture drive-thru come i parcheggi degli ospedali o altre aree, dove le persone, senza scendere dall’auto, fanno il tampone con operatori sanitari in tuta isolante. Un approccio sistematico facilitato anche dall’esperienza che la Corea del Sud ha acquisito dopo l’epidemia della sindrome respiratoria del Medio Oriente (MERS) nel 2015. 

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Stessa efficienza di misure nell’approccio contro Covid-19 è stata portata avanti a Singapore. Ad esempio, garantendo in tempo la possibilità a tutti gli ospedali pubblici di poter realizzare uno screening avanzato, testando chiunque si recasse in ospedale con una malattia respiratoria e chiunque fosse stato in contatto con un paziente COVID-19, riporta Stephen Khan su The Conversation. Una preparazione acquisita dopo l’epidemia di Sars del 2003 nella città Stato.

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Cosa succede in Italia

In Italia, il primo caso di contagio locale da nuovo coronavirus SARS-CoV-2 è stato comunicato dalla Regione Lombardia nella notte tra giovedì 20 e venerdì 21 febbraio. Da quel giorno, i casi positivi riscontrati sono aumentati quotidianamente, concentrati per la maggior parte in diverse regioni del Nord Italia. Inizialmente, sono stati individuati due focolai: uno in Lombardia, nel lodigiano, e un secondo a Vo' Euganeo, in Veneto. Tra le prime misure di distanziamento sociale del governo c’è stato così il blocco delle entrate e delle uscite in queste due aree, con l’istituzione di due zone rosse che ha coinvolto circa 50mila persone. 

Contagio in Italia, via piersoft.it

Dopo la scoperta del primo caso e della diffusione del contagio, Lombardia e Veneto hanno iniziato a fare uno screening massiccio sulle persone sintomatiche e non (ad esempio i contatti dei contagiati).  Il 27 febbraio, però, il presidente del Consiglio superiore di sanità (Css), Franco Locatelli, ha comunicato un cambio di strategia. I test in Italia sarebbero stati fatti solo alle persone con sintomi acuti da Covid-19 perché: «La larghissima parte dei tamponi realizzati, diciamo più del 95%, ha dato esito negativo. Il rischio di contagiosità è elevato nei soggetti sintomatici mentre è marcatamente più basso nei soggetti asintomatici. E questo supporta la scelta di riservare l’esecuzione dei tamponi solo ai soggetti sintomatici, anche perché siamo ancora in un periodo di pandemia di altre infezioni virali [come l’influenza] e quindi vanno escluse anche queste, prima di procedere con la realizzazione dei tamponi». Posizione confermata anche da Giuseppe Ippolito, direttore scientifico dell'Istituto Lazzaro Spallanzani: «Tamponi solo a sintomatici. In Italia sono stati fatti test oltre le indicazioni previste dal Centro europeo per il controllo delle malattie (ECDC), per uno scrupolo delle regioni». 

In un documento elaborato il 26 febbraio dal Consiglio Superiore di Sanità, si legge che l’ECDC aveva modificato la definizione di caso per la sorveglianza nei paesi europei, specificando che i test dovevano essere fatti “ai pazienti con infezione respiratoria acuta che richieda il ricovero o meno, e che nei 14 giorni precedenti l’insorgenza dei sintomi hanno almeno uno dei seguenti criteri epidemiologici: i) stretto contatto con un caso confermato o probabile di infezione Covid-19 o ii) aver soggiornato in aree con presunta trasmissione comunitaria”. Una decisione presa anche per evitare di pressare oltre le proprie capacità i laboratori di virologia presenti in Italia che, “comunque, devono svolgere normale attività diagnostica per altri tipi di infezioni virali a potenziale impatto negativo sulla salute dei cittadini del nostro paese” (nel frattempo, ad oggi, per potenziare la capacità diagnostica dei tamponi in Italia, i laboratori sono stati aumentati arrivando a 77 su tutto il territorio nazionale). 

Sentito da Wired, Massimo Andreoni, direttore scientifico della Società italiana di malattie infettive e tropicali, aveva definito quella scelta «opportuna e adeguata» perché avrebbe dato la possibilità “di mettere in campo tutti gli strumenti per evitare la trasmissione del virus e dunque a contenere l’epidemia”. Questa scelta, però, continuava Andreoni, avrebbe limitato in un certo modo l’analisi dei dati sull’epidemia in atto, come ad esempio il dato della letalità. Quest'ultima, infatti, è il rapporto tra i morti per una malattia e il numero totale di soggetti affetti dalla stessa malattia. Per questo motivo, se il numero delle persone positive individuate è più basso rispetto a quello reale, il dato della letalità tenderà a essere sovrastimato.

Come spiega infatti Matteo Villa, esperto di analisi dei dati dell’ISPI, nella difficoltà concreta di testare l’intera popolazione di persone contagiate (ad esempio perché la parte asintomatica non si sottopone ai test perché non sa di essere malata o perché con una forte espansione dell’epidemia risulta molto difficile sottoporre a tampone tutti i sintomatici) esistono due dati che rappresentano la letalità di una malattia: quella apparente (CFR) che si ottiene dividendo il numero di morti confermate per il numero di casi confermati e quella plausibile (IFR) che tenta di stimare anche le dimensioni della “base”, ovvero il numero di contagiati totale, per poi dividere il numero delle morti confermate per l’intera grandezza della piramide. 

Via ISPI

Attualmente l’Italia ha una letalità (apparente) molto più alta rispetto a quella degli altri paesi.

La decisione presa il 27 febbraio dalle autorità sanitarie in Italia di testare solo i sintomatici, continua Villa, avrebbe così avuto effetti sulla letalità perché “nei primi giorni dell’epidemia la letalità italiana si attestava intorno al 3%, e tra il 25 febbraio e il 1° marzo era persino gradualmente scesa fino al 2%. Da quel giorno in avanti, al contrario, la letalità ha invertito la rotta e ha cominciato ad aumentare, gradualmente e linearmente”. Altro effetto c'è stato poi sulla portata reale della diffusione del virus, che secondo l’analista sarebbe dieci volte più alta rispetto ai casi ufficiali.

Per quanto riguarda il numero dei tamponi effettuati c'è un ulteriore aspetto da considerare. Come ricostruito da YouTrend il numero dei test eseguiti non corrisponde al numero di persone testate che "potrebbe quindi, nel complesso, essere molto inferiore rispetto a quanto finora pensato". Ad esempio, nei confronti dei "guariti da Covid-19" viene sicuramente effettuato un doppio tampone, come si legge in un documento del Consiglio Superiore della Sanità. Per questo motivo, spiega ancora YouTrend, è impossibile dedurre dal bollettino (fornito quotidianamente dalla Protezione civile, ndr) il numero reale delle persone testate in Italia.

La difformità di strategie e interventi per quanto riguarda i tamponi esiste inoltre anche all'interno dello stesso territorio italiano. Il 9 marzo il Ministero della Salute, dopo la diffusione dell’epidemia su tutto il territorio nazionale, ha diffuso una nuova circolare in cui si conferma che a livello nazionale i soggetti da sottoporre al test devono presentare sintomi acuti: 

a) Una persona con infezione respiratoria acuta e senza un'altra eziologia che spieghi pienamente la presentazione clinica e storia di viaggi o residenza in un Paese/area in cui è segnalata trasmissione locale durante i 14 giorni precedenti l’insorgenza dei sintomi.
b) Una persona con una qualsiasi infezione respiratoria acuta e che è stata a stretto contatto con un caso probabile o confermato di COVID-19 nei 14 giorni precedenti l’insorgenza dei sintomi.
c) Una persona con infezione respiratoria acuta grave e che richieda il ricovero ospedaliero e senza un'altra eziologia che spieghi pienamente la presentazione clinica.

Ma, come scrive Luca Misculin su Il Post, “paradossalmente, da allora l’approccio delle autorità locali al test è diventato sempre meno uniforme”: “A seconda del luogo in cui si trovano i sospetti contagiati, (...) il trattamento dei pazienti può essere molto diverso e così il criterio con cui il test viene o non viene fatto. Le linee guida del governo, infatti, devono essere recepite e applicate da ogni regione, che ha la competenza esclusiva sulla sanità, e soprattutto deve gestire situazioni molto diverse fra loro”.

Il Veneto, ad esempio, tra le regioni più colpite dal virus, presenta il più alto numero di tamponi effettuati per ogni caso positivo, spiega Riccardo Saporiti su Info Data.

Il grafico mostra il rapporto tra i tamponi effettuati e i casi di contagio riscontrati. Più la barra è lunga, maggiore è questo rapporto. Il colore diventa più scuro tanti più sono i tamponi effettuati, mentre la larghezza della barra fa riferimento alle persone positive al coronavirus all’interno del territorio regionale. Via Info Data

Sulla strategia di screening adottata dal Veneto, Andrea Crisanti, direttore dell’Unità complessa diagnostica di Microbiologia a Padova e docente di Virologia all’Imperial College di Londra, in un’intervista a Globalist precisa che nella Regione non si sta facendo però uno “screening a tappeto”: «(...) Parte tutto dallo studio di Vo perché abbiamo dimostrato che al momento del primo contagio abbiamo trovato che il 3% della popolazione era positiva. Che è una enormità. Una fetta ampia di queste persone era asintomatica. Non solo. Nel secondo screening abbiamo dimostrato che persone che vivevano con persone positive asintomatiche si sono a loro volta infettati. Quindi gli asintomatici tramettono il virus, non ci sono dubbi. È chiaro che una delle sfide che abbiamo in questo momento è trovare gli asintomatici oltre che preoccuparci e curare i sintomatici. Quindi noi vogliamo rafforzare la sorveglianza sul territorio. E fare quello che finora non si è fatto». 

«Sorveglianza attiva sul territorio – continua il professore – significa che se una persona chiama e dice io sto male, invece di lasciarla sola a casa senza assistenza, senza niente, noi con l’unità mobile della croce rossa andremo lì, faremo il prelievo alla persona, faremo il tampone ai familiari, faremo il tampone agli amici e al vicinato, perché è là intorno che c’è il portatore sano, è là intorno che ci sono altri infetti».

Sempre secondo Crisanti, inoltre, il fatto che in Veneto ci sia il 3% della letalità mentre in Lombardia il 12% si deve al fatto che nella regione lombarda «manca il numero dei casi domiciliari. Questa distanza dà l’idea del crollo del Sistema Sanitario Lombardo a livello locale, territoriale. Non è che in Lombardia si muore di più, il fatto è che il numero dei contagiati è molto maggiore ma non sono rilevati». Per l’esperto, infatti, «la battaglia si vince sul territorio non negli ospedali», perché «nessuna epidemia si controlla con gli ospedali». Riguardo a questa modalità, Ranieri Guerra, direttore vicario dell’Organizzazione Mondiale della Sanità ha sottolineato però che «l'aggressività (ndr, di screening) dimostrata dal Veneto è su un ambito di popolazione abbastanza ristretto» e che inoltre, in questo momento, la tamponatura generale a sintomatici e asintomatici a livello nazionale come screening generale è infattibile. 

La Lombardia presenta un'altra storia. Durante una conferenza stampa dello scorso 26 marzo, il professore Carlo Federico Perno operativo nei laboratori dell’ospedale Niguarda di Milano, ha dichiarato che la Regione «per necessità – e non per scelta propria – ha optato per un tamponamento inizialmente solamente ai sintomatici impegnativi, quelli che dovevano poi essere ricoverati. È chiaro dunque che in queste condizioni è alta la mortalità ed è alto il numero di positivi». Come raccontato infatti su L’Eco di Bergamo a metà marzo “i tamponi vengono eseguiti sui pazienti ricoverati, ma sono tanti anche i malati a casa con sintomi più o meno evidenti di una possibile (ma non accertata da analisi di laboratorio) infezione da coronavirus. Il quotidiano locale continua specificando che "c’è chi come Veila Ardrizzo mette in evidenza la situazione di un componente della famiglia che non abita con lei: «Senza una diagnosi ufficiale, fatta con il tampone, non scatta la quarantena e chi abita con il malato deve andare a lavorare, con il rischio di diffondere il contagio. Al di là del mio caso famigliare, ho sentito che a molte altre persone non è stato fatto il tampone. Come mai non si fanno i tamponi?»”. L’accusa alla Lombardia è infatti quella di non seguire correttamente le raccomandazioni dell’Istituto superiore di Sanità su quali casi andrebbero testati.

In un’intervista a Il Messaggero, il sindaco di Bergamo, Giorgio Gori, ha prima affermato che per «la sanità lombarda è una prova inimmaginabile, innanzitutto per chi sta negli ospedali. Con estrema fatica i presidi reggono», ma poi ha denunciato che «troppe persone arrivano in ospedale tardi e in pessime condizioni, devono essere intubate in terapia intensiva. Molte in ospedale non riescono proprio ad arrivare e muoiono a casa: sono quasi tutti anziani con la polmonite, casi di Covid-19 non censiti, che sfuggono ai radar».

Sempre il 26 marzo, però, la Regione ha annunciato un ampliamento dello screening. La criticità, ha sottolineato comunque il presidente Attilio Fontana, non sta nel numero dei tamponi effettuati, ma nel loro processamento da parte dei laboratori regionali. Secondo i dati forniti il 28 marzo dall’assessore al Welfare lombardo, Giulio Gallera, oggi la Lombardia riesce a processare circa 5mila test al giorno: “A inizio emergenza Coronavirus erano 3 i laboratori che potevano processare i tamponi, oggi sono 22 i centri attivi. Per ‘ampliare la sorveglianza’ è stata avanzata una richiesta ai centri privati che potrebbe alzare la capacità regione a 7-8mila test al giorno”.

Un punto sulla difformità dello screening a livello territoriale e regionale è stato fatto da Giovanni Rezza, direttore del dipartimento di Malattie infettive dell'Istituto superiore di sanità: «I tamponi vanno fatti il prima possibile a persone sintomatiche, perché bisogna fare diagnosi, individuare focolai e, se c'è bisogno, curarle. Se c'è disponibilità i tamponi, possono essere fatti anche a persone con pochissimi sintomi o a contatti di pazienti. Ma qui subentra un problema di fattibilità. In una regione come la Lombardia, dove l'incidenza è molto alta, qualsiasi febbre probabilmente è attribuibile al Sars-CoV-2, perché il rischio è molto alto». Per Rezza così «in una regione a bassa incidenza come Sicilia o Calabria, è bene vedere subito se la persona con sintomi ha un'infezione da nuovo coronavirus o no. Una regione oberata come la Lombardia non potrà mai fare i tamponi ai contatti. Una regione con meno impegno potrà farlo: in Veneto l'hanno fatto e hanno tenuto la situazione sotto controllo a livello territoriale, ma non si trovavano in mano quella bomba biologica come a Lodi e a Bergamo». 

Ma a più di un mese dalla notizia del primo caso locale, riguardo alle linee guida adottate dalle autorità sanitarie italiane, sono state sollevate criticità. In una lettera inviata al presidente del consiglio Giuseppe Conte e ai governatori delle Regioni, 290 ricercatori italiani – direttori degli Irccs e dei principali istituti di ricerca biomedica, biologi molecolari e biotecnologi – chiedono di fare più tamponi per individuare chi è asintomatico o ha sintomi lievi: «Le attuali strategie di contenimento basate sulla identificazione dei soli soggetti sintomatici non sono sufficienti alla riduzione rapida dell'estensione del contagio. (...) Così pagheremo un prezzo altissimo, aumentare i test è critico per interrompere la catena di contagio». Per i firmatari “è possibile mettere in pratica un piano di sorveglianza attiva che preveda di fare ripetuti tamponi rino-faringei per individuare la presenza del virus almeno alle categorie a rischio: medici, infermieri, farmacisti e altro personale sanitario, ma anche forze dell’ordine, personale di tutti i servizi commerciali aperti (forniture alimentari, edicole, poste), autisti di mezzi pubblici e taxi, addetti alle pompe funebri, addetti a filiere produttive essenziali”, riassume Wired

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Tamponi eseguiti in Italia, via Covid19.intelworks.io

In risposta a questa lettera, Franco Locatelli, il presidente del Consiglio Superiore di Sanità, in un’intervista all’Huffington Post, ha dichiarato che ad oggi in Italia si effettuano circa 30mila tamponi al giorno (oltre 450mila in totale, secondo i dati al 29 marzo forniti dalla Protezione Civile), e che, oltre alle raccomandazioni sui soggetti su cui effettuare i test, sono sono state fornite indicazioni «perché si effettuino i tamponi in via prioritaria al personale sanitario, medico e infermieristico, per tutelare la loro salute e contestualmente quella dei pazienti e degli ospiti ricoverati nelle strutture – penso anche alle RSA (le residenze sanitarie assistenziali, ndr) – in cui operano». Locatelli, inoltre, sottolinea un'altra questione: «Nonostante lo sforzo enorme compiuto per aumentare il numero dei laboratori accreditati c’è un problema di queste strutture, che devono far fronte pure a limitate disponibilità del reagente per processare i test, a gestire i campioni». 

Nel frattempo, anche in Italia, in particolare in Emilia Romagna sono iniziati (come in altre Regioni) i test 'drive thru' che prevedono la possibilità di fare un tampone, previo appuntamento, rimanendo a bordo della propria automobile, in maniera sicura e veloce, racconta Quotidiano Sanità: "Si tratta di una sperimentazione appena avviata e prevede la realizzazione di un vero e proprio tampone rino-faringeo su persone risultate clinicamente guarite (divenute prive dei sintomi dell’infezione) che necessitano di effettuare il tampone due volte – a distanza di almeno 24 ore uno dall’altro – prima di essere dichiarate guarite a tutti gli effetti. Ma un secondo obiettivo è anche quello di aumentare il numero di tamponi da eseguirsi quotidianamente rendendo il sistema più efficiente e accorciando i tempi di accertamento delle guarigioni a tutti gli effetti e non solo clinicamente". 

Foto in anteprima via Ansa

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