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Cosa sappiamo sul nuovo Coronavirus in Italia

25 Febbraio 2020 28 min lettura

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Cosa sappiamo sul nuovo Coronavirus in Italia

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27 min lettura

di Angelo Romano, Claudia Torrisi, Andrea Zitelli

[articolo aggiornato al 27 febbraio]

In questo approfondimento abbiamo fatto un lavoro di sistematizzazione e aggregazione di tutte le informazioni certe e verificate che si hanno sul nuovo Coronavirus SARS-CoV-2, con uno zoom specifico sull'Italia.

Che cos'è il nuovo Coronavirus

Il punto dell'Organizzazione Mondiale della Sanità

Il contagio in Italia

Quali sono state finora le azioni di governo e Regioni

Perché così tanti casi in Italia in poco tempo?

Cosa dicono lo studio sul nuovo Coronavirus e i virologi

Cosa fare

Che cos'è il nuovo Coronavirus

I Coronavirus sono una vasta famiglia di virus noti per causare malattie che vanno dal comune raffreddore a malattie più gravi come la Sindrome respiratoria mediorientale (MERS) e la Sindrome respiratoria acuta grave (SARS). Sono virus RNA a filamento positivo, con aspetto simile a una corona al microscopio elettronico. 

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Al virus è stato dato il nome di SARS-CoV-2, ovvero "Sindrome respiratoria acuta grave coronavirus 2", come annunciato dall'International Committee on Taxonomy of Viruses (ICTV), che si occupa della designazione e della denominazione dei virus (ndr, specie, genere, famiglia, ecc.). Secondo il gruppo di esperti incaricato di studiare il nuovo ceppo di coronavirus, il virus è fratello di quello che ha provocato la Sars (SARS-CoVs) e per questo motivo è stato chiamato SARS-CoV-2. Tuttavia, si tratta di virus diversi. 

La malattia provocata dal nuovo Coronavirus è stata chiamata, invece, “COVID-19” (dove "CO" sta per corona, "VI" per virus, "D" per disease e "19" indica l'anno in cui si è manifestata).

Il nuovo Coronavirus è un virus respiratorio che si diffonde principalmente attraverso il contatto stretto con una persona malata (un operatore sanitario, una persona con cui si è stati a contatto faccia a faccia, qualcuno con cui si convive, compagni di viaggio seduti nella stessa fila o nelle due file antecedenti, ad esempio in aereo) entro un periodo di 14 giorni prima o dopo la manifestazione della malattia. 

La via primaria di contagio sono le goccioline del respiro delle persone infette ad esempio quando tossiscono o starnutiscono, attraverso contatti diretti personali, toccando con le mani contaminate (non ancora lavate) la bocca, il naso o gli occhi. In rari casi il contagio può avvenire tramite contaminazione fecale.

Secondo i dati attualmente disponibili, le persone sintomatiche sono la causa più frequente di diffusione del virus. Inoltre, l’Osservatorio mondiale della sanità (OMS) considera non frequente l’infezione da nuovo Coronavirus prima che si sviluppino sintomi.

Il punto dell'Organizzazione Mondiale di Sanità

In base agli ultimi dati aggiornati e pubblicati dall’Organizzazione mondiale della Sanità (OMS), in totale nel mondo (in 29 paesi) i casi confermati hanno raggiunto le 80mila persone (di cui oltre 77mila in Cina), i decessi registrati hanno superato i 2700 (di cui più di 2500 in Cina) e più di 27mila i guariti. L’Istituto superiore di sanità (ISS) ha specificato che in Europa “sono stati documentati cluster di trasmissione locale in Germania, Francia, Italia e nel Regno Unito”.

In una conferenza stampa tenuta il 24 febbraio, l’OMS ha presentato i risultati di un rapporto di un team OMS-Cina redatto dopo la visita in diverse province cinesi, tra cui Wuhan, epicentro del contagio in Cina. L’Organizzazione mondiale della Sanità si è detta innanzitutto incoraggiata del “continuo calo dei casi in Cina”.

Il team ha inoltre comunicato di aver fatto diverse scoperte sulla trasmissibilità del virus, sulla gravità della malattia e sull'impatto delle misure adottate: “L'epidemia ha raggiunto il picco tra il 23 gennaio e il 2 febbraio e da allora è in costante calo. Non vi è stato alcun cambiamento significativo nel RNA del virus. Il tasso di mortalità dei casi (cioè la letalità) è compreso tra il 2% e il 4% a Wuhan e dello 0,7% fuori da Wuhan”. Come specifica Scienza in Rete è utile non confondere il tasso di letalità con quello di mortalità: il primo è il rapporto tra morti per una malattia e il numero totale di soggetti affetti dalla stessa malattia, mentre il secondo mette a rapporto il numero di morti sul totale della popolazione media presente nello stesso periodo di osservazione (e non sul numero di malati).

Nel report si legge anche che per le persone con una forma lieve di malattia, il tempo di recupero è di circa due settimane, mentre per quelle con una forma più grave, la guarigione è compresa entro 3-6 settimane. Secondo il team, inoltre, le misure di contenimento adottate in Cina hanno funzionato, evitando un aumento significativo dei casi di contagio. Ed è proprio questo, afferma l’OMS, il messaggio più importante: “Questo virus può essere contenuto”. Restano comunque diverse domande sul virus che non hanno ancora risposta.

L’OMS afferma poi che gli “improvvisi aumenti di casi” in Italia, in Iran e in Corea del Sud “sono profondamente preoccupanti”, ma chiarisce che ad oggi non si può ancora parlare di “pandemia”: “Per il momento, non stiamo assistendo alla diffusione globale non contenuta di questo virus e a gravi malattie o alla morte su vasta scala. Ciò che vediamo sono epidemie in diverse parti del mondo, che colpiscono i paesi in modi diversi e richiedono una risposta su misura”. L’Organizzazione mondiale della sanità avverte comunque che questo nuovo coronavirus ha un potenziale per raggiungere una pandemia.

Infine, l’OMS sottolinea che ad oggi ci sono almeno tre priorità: “Innanzitutto tutti i paesi devono dare priorità alla protezione degli operatori sanitari. In secondo luogo, devono essere protette le persone che sono maggiormente a rischio, in particolare gli anziani e le persone con condizioni di salute critiche. Infine, bisogna proteggere i paesi più vulnerabili, facendo del nostro meglio per contenere le epidemie negli Stati che hanno la capacità per farlo”. Al riguardo, l’OMS ha ringraziato la Commissione europea che ha stanziato un contributo di 232 milioni di euro: “Anche Francia, Germania e Svezia hanno annunciato ulteriori contributi”.

Il contagio in Italia

Nella notte tra giovedì 20 febbraio e venerdì 21, l'assessore al Welfare della Lombardia, Giulio Gallera, ha comunicato che un italiano di 38 anni di Codogno, in provincia di Lodi, era risultato positivo al test del coronavirus SARS-CoV-2. Dopo i casi confermati il 30 gennaio dei due turisti cinesi e di quello del ricercatore italiano arrivato dalla Cina dello scorso 6 febbraio, in cura allo Spallanzani di Roma, si è trattato del primo caso di contagio locale nel nostro paese.  

Da quel giorno i casi positivi (cioè quelli forniti dai laboratori delle Regioni che poi devono essere successivamente confermati dall'Istituto Superiore di Sanità ed è per questo che il numero dei "positivi" e quello dei "confermati" non risultano uguali) sono aumentati quotidianamente, concentrati per la maggior parte in diverse regioni del Nord Italia. Al 27 febbraio (ore 18), secondo i dati forniti dalle regioni e dal Ministero della Salute e pubblicati dalla Protezione civile, in Italia risultano positivi dal coronavirus SARS-CoV-2 650 persone (con oltre 10mila tamponi eseguiti): in Lombardia sono 403, 111 in Veneto, 97 in Emilia-Romagna, 19 in Liguria, 4 in Sicilia, 3 nelle Marche, 3 nel Lazio e 3 in Campania, 2 in Piemonte, 2 in Toscana, 1 in Abruzzo, 1 in Puglia e 1 nella Provincia autonoma di Bolzano. Un dato che porta l’Italia al terzo posto dei paesi nel mondo per contagi (da diversi parti, però, sono stati sollevati dubbi sulla veridicità dei numeri forniti dall'Iran), dietro a Cina (oltre i 77mila casi) e Corea del Sud (superati gli 800 casi). Secondo il fisico esperto di sistemi complessi e direttore del Network Science Institute della Northeastern University di Boston Alessandro Vespignani, sentito dall’Ansa, l'aumento progressivo dei casi del nuovo coronavirus rilevati in Italia non indica che l'epidemia si sta espandendo: «I casi adesso vengono scoperti, ma erano già quasi tutti lì e i numeri saliranno ancora per un po', ma l'epidemia non si sta espandendo». 

Nello specifico dei casi nel nostro paese, uno è stato dimesso (si tratta del ricercatore a Roma in cura allo Spallanzani) e altri 45 sono guariti sono guariti. I pazienti ricoverati con sintomi sono 248, 56 sono in terapia intensiva, mentre 284 si trovano in isolamento domiciliare. Diciassette sono invece le persone decedute (14 Lombardia, 2 Veneto e 1 in Emilia Romagna). Per quanto riguarda queste morti si tratta di persone tra i 70 e i 90 anni, una di 62 anni, diverse delle quali si trovavano già in ospedale (ad esempio per una diagnosi di polmonite, una di tumore, per un infarto, per patologie cardiache e per un quadro clinico compromesso) e la maggior parte con pregresse patologie. Giovanni Rezza, direttore del dipartimento malattie infettive dell'Istituto Superiore di Sanità, ha affermato che «In Italia c'è una popolazione piuttosto anziana e si spiegano così i tassi di mortalità del 2-3%. Gli anziani sono più fragili, lo vediamo con l'influenza. Da quest'ultima possiamo proteggerli con il vaccino; non essendoci il vaccino per il Coronavirus la malattia è più grave in queste categorie d'età. L'unica maniera per proteggerli è circoscrivere i focolai come si sta facendo». Sulla raccolta dei casi, il direttore scientifico dell'Istituto Spallanzani, Giuseppe Ippolito, ha comunicato il 27 febbraio che «In Italia si sta lavorando affinché vengano comunicati solo i casi di nuovo coronavirus clinicamente rilevanti, ovvero i casi clinici di pazienti in rianimazione o morti, come avviene negli altri Paesi del mondo. I positivi ai tamponi fatti per qualsiasi altro motivo andranno in una lista separata estremamente importante per la definizione della situazione epidemiologica».

Riguardo alle persone decedute, Matteo Bassetti, direttore della clinica di malattie infettive dell’ospedale San Martino di Genova e presidente della Sita (società italiana di terapia anti-infettiva) ha specificatodopo i primi tre morti registrati, che «un soggetto può morire per Coronavirus (ovvero il virus ha contribuito direttamente alla sua morte) o con il Coronavirus (il virus è presente ma il suo ruolo non è primario nella morte). Degli attuali tre decessi italiani, due sembrano morti più con il virus, che per il virus». Ad esempio, l'assessore al Welfare della Regione Lombardia Giulio Gallera ha spiegato lo scorso 22 febbraio che a Casalpusterlengo una signora di 77 anni è stata rinvenuta deceduta nella propria abitazione: «Aveva una serie di patologie. A questa persona post mortem è stato fatto un tampone ed è risultato positivo. Ad oggi in attesa dell'autopsia non possiamo dire se è morta a causa del coronavirus o se aveva il coronavirus ed è morta per altre ragioni». 

In Italia sono stati individuati finora due focolai: uno nel lodigiano, in Lombardia, e un secondo a Vo' Euganeo, in Veneto. In una conferenza stampa di lunedì 24 febbraio Angelo Borrelli, capo della protezione civile e commissario per l'emergenza coronavirus in Italia, aveva affermato che non esistevano al momento conferme di possibili legami tra questi due focolai. Due giorni dopo, il ministro della Salute, Roberto Speranza, durante un'informativa in Parlamento, ha dichiarato: «I primi riscontri evidenziano che in Italia si sono sviluppati due focolai, che inizialmente sembravano distinti, ma che poi si sono dimostrati connessi, uno in Lombardia, più vasto, e un altro puntiforme in un piccolo comune del Veneto». Il ministro in un successiva conferenza stampa del 27 settembre ha però specificato che questo legame è ancora un'ipotesi: «C'è uno studio in corso affidato all'Istituto Superiore di Sanità che sta verificando la connessione tra i due possibili focolai. Stiamo ancora valutando l'ipotesi di un contatto tra i due focolai». 

Non sono stati ancora individuati, invece, il paziente o i pazienti zero di questi focolai, cioè la persona da cui è partito il contagio. Come spiega Pier Luigi Lopalco, professore di Igiene all’Università di Pisa, all’Ansa «identificare questi soggetti sarebbe fondamentale proprio per riuscire a tracciare l’intera linea del contagio. È verosimile però che in Italia si sia già alla terza generazione di casi. Presupponiamo che il virus abbia iniziato a circolare in Italia verso la fine di gennaio, quando ancora l’allerta non era al massimo e i voli non erano bloccati: vari soggetti avranno preso l’infezione magari senza accorgersene e in forma leggera». 

I prossimi giorni, inoltre, avverte l’esperto, saranno «cruciali» per capire se l’epidemia dai piccoli centri investirà le grandi città con il passaggio «da una fase di contenimento dell'emergenza ad una di mitigazione, in cui si può solo mitigare gli effetti, e questo implica che tutte le forze in campo siano pronte. Dagli ospedali, che devono essere preparati a sostenere una richiesta improvvisa e massiccia disponendo di attrezzature, personale e di efficienza efficiente per identificare subito i casi più gravi».

Intanto, i ricercatori dell’Ospedale Sacco di Milano hanno isolato il virus autoctono con trasmissione secondaria di 4 pazienti di Codogno. Un fatto che, ha spiegato Massimo Galli, ordinario di Malattie infettive all'Università degli Studi di Milano e primario del reparto di Malattie infettive III, permetterà di «seguire le sequenze molecolari e tracciare ogni singolo virus per capire cos'è successo, come ha fatto a circolare  e in quanto tempo» e di poter moltiplicare e studiare nel dettaglio il virus, «ad esempio per ottenere la sua sequenza genetica. A partire da questa possono essere riprodotti in laboratorio frammenti utili per preparare farmaci e vaccini».

Quali sono state finora le azioni di governo e Regioni

Dopo l’inizio del contagio in Italia, sabato 22 febbraio il Consiglio dei ministri ha approvato un decreto-legge che ha introdotto diverse misure urgenti per contenere e gestire la situazione in Italia e in particolare “nei comuni o nelle aree nei quali risulta positiva almeno una persona per la quale non si conosce la fonte di trasmissione o comunque nei quali vi è un caso non riconducibile ad una persona proveniente da un’area già interessata dal contagio”.

Tra queste misure vi sono “il divieto di allontanamento e quello di accesso al Comune o all’area interessata; la sospensione di manifestazioni, eventi e di ogni forma di riunione in luogo pubblico o privato; la sospensione dei servizi educativi dell’infanzia e delle scuole e dei viaggi di istruzione; la sospensione dell’apertura al pubblico dei musei; la sospensione delle procedure concorsuali e delle attività degli uffici pubblici”, esclusa l’erogazione dei servizi essenziali e di pubblica utilità.

Ancora, “l’applicazione della quarantena con sorveglianza attiva a chi ha avuto contatti stretti con persone affette dal virus e la previsione dell’obbligo per chi fatto ingresso in Italia da zone a rischio epidemiologico di comunicarlo al Dipartimento di prevenzione dell’azienda sanitaria competente, per l’adozione della misura di permanenza domiciliare fiduciaria con sorveglianza attiva; la sospensione dell’attività lavorativa per alcune tipologie di impresa e la chiusura di alcune tipologie di attività commerciale”. Inoltre è stata prevista la limitazione all’accesso o la sospensione dei servizi del trasporto di merci e di persone, “salvo specifiche deroghe”. Il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ha chiarito che questi provvedimenti interesseranno circa 50mila italiani: «I residenti del comune di Vo’ Euganeo sono circa 3.500, nei dieci comuni del Lodigiano stiamo parlando di un numero molto più cospicuo, circa 47mila, i quali potranno peraltro circolare all’interno dei comuni».

Il mancato rispetto di queste misure prevede l'arresto fino a tre mesi o l'ammenda fino a euro 206 (articolo 650 codice penale).

Nella serata del 24 febbraio, il ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, ha annunciato ulteriori misure, varate tramite decreto, che prevedono la “sospensione degli adempimenti e dei pagamenti dei tributi per i cittadini e le imprese dei comuni della zona rossa: "Stiamo definendo una serie di misure già concordate con l'Abi come la sospensione dei pagamenti delle rate dei mutui", "la cassa integrazione per i lavoratori delle aree colpite" e "a sostegno della liquidità delle imprese dei settori più colpiti". Gualtieri ha specificato che si tratta di provvedimenti "che stiamo predisponendo e che verranno definiti e modulati nei prossimi giorni sulla base dell'evoluzione del quadro complessivo".

Il ministero della Salute ha attivato il numero di pubblica utilità 1500, attivo 24 su 24, “per rispondere alle domande dei cittadini sul nuovo Coronavirus”. 

Le Regioni con i casi di contagio sul proprio territorio – e non solo –, in base al decreto del governo, hanno messo in atto diverse azioni.

La Lombardia ha predisposto “la sospensione di manifestazioni o iniziative di qualsiasi natura, di eventi e di ogni forma di riunione in luogo pubblico o privato, anche di carattere culturale, ludico, sportivo e religioso, anche se svolti in luoghi chiusi aperti al pubblico”. La sospensione dei servizi educativi dell'infanzia e delle scuole di ogni ordine e grado e di quelli di apertura al pubblico dei musei e degli altri istituti e luoghi della cultura.

Il Veneto ha previsto il blocco temporaneo di tutte quelle manifestazioni che “determinano significative concentrazioni di persone in luoghi pubblici e privati”, come manifestazioni, fiere, sagre, concerti, eventi sportivi, rappresentazioni teatrali, cinematografiche, musicali, discoteche e sale da ballo. Si è quindi fermato anche il Carnevale di Venezia. I matrimoni e i funerali sono permessi, a condizione vi sia la partecipazione dei soli familiari.   

Anche il Piemonte ha stabilito la chiusura per una settimana di scuole e università e la sospensione di “tutte le manifestazioni, eventi o iniziative di qualsiasi natura in luogo pubblico o privato, sia in luoghi chiusi sia aperti al pubblico, anche di natura culturale, ludica, sportiva e religiosa”.

L’Emilia Romagna ha deciso fino al prossimo primo marzo la “chiusura delle scuole di ogni ordine e grado e degli asili nido, e sospensione dell'attività didattica delle Università, di manifestazioni ed eventi e di ogni forma di aggregazione in luogo pubblico o privato, delle gite di istruzione e dei concorsi”.

Diverse Regioni italiane hanno predisposto infine dei numeri verdi per rispondere alle richieste di informazioni sul coronavirus e sulle misure urgenti per il contenimento del contagio.

Perché così tanti casi in Italia in poco tempo?

Nel giro di pochi giorni, l’Italia è passata da 0 casi a essere il terzo paese al mondo per contagi da Coronavirus, il primo in Europa – dove i numeri sono molto minori. Com’è possibile che solo l’Italia si sia trovata a confrontarsi con una situazione del genere?

La risposta a questa domanda non è semplice e con molta probabilità dipende da diversi fattori. Non ultimo il caso, come afferma Fabrizio Pregliasco, virologo dell’Università degli Studi di Milano e presidente nazionale Anpas: «Magari questa situazione la vedremo più avanti anche in altri Stati. Può anche esserci una differenza nei controlli, che qui sono più numerosi e specifici. È presto per dirlo. Può anche essere solo sfortuna».

Ilaria Capua, virologa italiana della University of Florida, ha scritto su La Stampa che chiedere come mai nel nostro paese il virus stia colpendo in modo così aggressivo “è una domanda mal posta”: “Troviamo tutti questi malati in questo momento, perché, semplicemente, abbiamo cominciato a cercarli. Cioè abbiamo iniziato a porci il problema se certe gravi forme respiratorie simil-influenzali fossero o meno provocate dal Coronavirus. Sino a due settimane fa non avevamo nemmeno a disposizione, negli ospedali cittadini, i test diagnostici per riconoscerlo”.

Da quando si è registrato il primo contagio di un italiano – il 38enne di Codogno - il nostro paese in effetti ha messo in piedi un sistema di controlli a tappeto che hanno fatto emergere a catena casi su casi. Al 24 febbraio sono stati effettuati in totale 4.141 tamponi in diverse regioni (quasi tutti concentrati negli ultimi quattro giorni), numeri che secondo il presidente del Consiglio Conte farebbero dell’Italia «il primo paese in Europa che ha deciso controlli più rigorosi e accurati».

Pregliasco ritiene che «identificando casi gravi in Italia è stata trovata la punta dell'iceberg dell'infezione e da lì si è andati in profondità con centinaia e centinaia di controlli. L'Italia ha cercato in modo attivo, attraverso i tamponi, gli eventuali altri contagiati con controlli a tappeto». Il virologo non esclude che «nel resto d'Europa non siano emersi tanti casi come nel nostro Paese perché, non essendoci stati casi gravi, potrebbero non essere state svolte verifiche accurate come è successo da noi».

Anche altri paesi europei si sono mossi con il controllo attivo, anche se con numeri in proporzione più bassi, sia di tamponi che di casi. Nel Regno Unito dal 24 gennaio al 24 febbraio si contano 13 contagi accertati da Coronavirus e 6.536 test effettuati. In Francia i numeri non sono chiari. Sul sito dell'agenzia nazionale della Sanità pubblica i casi confermati sono 12, su 475 “investigati”. La pagina dedicata alle informazioni sul Coronavirus sul sito del governo, invece, specifica che la capacità diagnostica, che fino a questo momento è stata di 400 test al giorno, dal 24 febbraio è stata aumentata a migliaia di tamponi giornalieri “per soddisfare le necessità”.

Le differenze nei numeri di test dipendono anche dal fatto che in Francia, ad esempio, sono stati sin da subito chiari i “pazienti zero”, quindi i tamponi sono stati fatti in maniera mirata tra i contatti di questi ultimi.

In Italia questo non è successo, e si è proceduto con un controllo a tappeto. Secondo Pierluigi Lopalco, «la situazione è ormai molto difficile da controllare: abbiamo più focolai nel Nordest non collegabili tra loro e ciò significa che la circolazione del virus è invisibile, perché parte della catena di contagio non è stata individuata proprio perché manca ancora il ‘paziente zero’».

«La crescita improvvisa può essere dovuta a diverse cause», aggiunge Massimo Andreoni, direttore scientifico della società italiana di malattie infettive e tropicali Simit, professore all'università di Tor Vergata.«La prima è appunto la strategia di sottoporre al prelievo con tampone faringeo tutti i contatti delle persone malate. Questo ha permesso di individuare persone che non sarebbero mai state diagnosticate come positive».

Ma la diffusione del virus in Italia ha molto a che fare anche su come si è sviluppato il focolaio e il contagio. Massimo Galli, ordinario di Malattie infettive all’Università degli Studi di Milano e primario del reparto di Malattie infettive III dell’Ospedale Sacco, ha spiegato al Corriere della Sera che nel nostro paese «si è verificata la situazione più sfortunata possibile, cioè l’innescarsi di un’epidemia nel contesto di un ospedale», ossia una struttura dove si trovano soggetti fragili e lavoratori ad alto rischio di contagio.

In casi come questi, ha aggiunto, un ospedale «si può trasformare in uno spaventoso amplificatore del contagio se la malattia viene portata da un paziente per il quale non appare un rischio correlato: il contatto con altri pazienti con la medesima patologia oppure la provenienza da un Paese significativamente interessato dall’infezione. Chi è andato all’ospedale di Codogno non era stato in Cina e, fra l’altro, la persona proveniente da Shanghai che a posteriori si era ipotizzato potesse averla contagiata è stato appurato non aver contratto l’infezione. Non sappiamo quindi ancora chi ha portato nell’area di Codogno il Coronavirus, però il primo caso clinicamente impegnativo di COVID-19 è stato trattato senza le precauzioni del caso perché interpretato come altra patologia».

Che ci sia stata una falla da parte di un ospedale nel trattare il primo caso di contagio l’ha detto anche il presidente Conte, secondo cui la diffusione del virus dal focolaio è imputabile anche a «una gestione di una struttura ospedaliera non del tutto propria secondo i protocolli prudenti che si raccomandano in questi casi». Il concetto era stato espresso con altre parole precedentemente anche dal capo del Dipartimento della Protezione Civile Angelo Borrelli, che aveva correlato la veloce diffusione dei focolai di Coronavirus in Lombardia e Veneto con una «non conoscenza dei sanitari che non sono stati in grado di riconoscere immediatamente i sintomi del virus».

All’ospedale di Codogno, dove è stato ricoverato il 38enne positivo al COVID-19, sono rimasti contagiati almeno in 5 tra medici e infermieri; a Dolo, dove invece era il pensionato di Mira, sono risultati positivi il medico, l’infermiere e l’operatore sanitario che sono entrati in contatto con l’uomo durante la degenza; l’ospedale di Schiavonia è stato svuotato dopo uno dei decessi di persone positive al Coronavirus, un paziente che era stato ricoverato nella struttura per dieci giorni e al quale era stato fatto il tampone poche ore prima che morisse.

In nessuno di questi casi era stato sospettato un contagio da COVID-19. Il dottor Pregliasco ritiene che questo sia accaduto perché in Italia il Coronavirus «non era mai stato segnalato se non per i due turisti cinesi ricoverati allo Spallanzani», e «le diagnosi differenziali vengono eseguite quando c'è attenzione su un particolare patogeno, cose che appunto fino a pochi giorni fa non c'erano».

Il contagio è stato accelerato anche dalla mancanza di protocolli di protezione adeguati per medici e infermieri, che «hanno un rischio maggiore di contagio perché hanno una vicinanza prolungata con il paziente, talvolta devono anche mettere in atto manovre invasive».

Secondo Walter Ricciardi, docente di Igiene alla Cattolica e membro italiano del Comitato esecutivo dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, «quando vengono contagiati i medici significa che non si sono messe in campo le pratiche adatte, oltre al fatto che il virus è molto contagioso». Quello che è successo in Italia, aggiunge Ricciardi, «è un caso da manuale in cui una o più persone vengono contagiate da chi arriva da un luogo di epidemia, e poi ci sono dei contagiati secondari con lo stesso tempo di incubazione».

In un’intervista a RadioPopolare, Ricciardi ha precisato perché secondo lui nel nostro paese il numero di contagi sia così elevato: «È probabile che un paio di settimane fa qualcuno (verosimilmente una singola persona) sia entrato in Italia da zone ad alto rischio senza essere identificato. Quello che sta succedendo è che l’esordio sintomatologico è contemporaneo, quindi è probabile che la fonte di contagio sia ‘puntuale’, molto molto limitata. Il contagio comincia così, poi ci sono dei cosiddetti superspreader cioè persone che non contagiano due o tre persone (come avviene abitualmente), ma ne contagiano dieci o dodici. Questo determina un’accelerazione. Quello che è avvenuto con ogni probabilità è che non abbiamo intercettato questi primi casi di contagio».

«È verosimile che l'epidemia non sia – aggiunge ancora Galli – nella sua origine recentissima nell'area del lodigiano ed è certo che la persona che si è rivolta all'ospedale di Codogno per assistenza non è colui che ha importato il virus in Italia (il cosiddetto paziente «zero», ndr). È quindi probabile che il virus sia circolato per diversi giorni prima che il caso grave numero uno si rivolgesse ai sanitari di Codogno».

Cosa dicono lo studio sul nuovo Coronavirus e i virologi

Secondo lo studio che ha analizzato la quantità più consistente di dati sulle persone che hanno contratto il “COVID-19” in Cina, la malattia si manifesta per lo più con sintomi lievi, colpisce i più anziani ed è letale nei confronti di coloro che sono affetti da altre patologie. 

Lo studio, a cura del Centro cinese per il controllo e la prevenzione delle malattie (CCDC), è stato pubblicato lo scorso 17 febbraio sul Chinese Journal of Epidemiology e ha preso in esame 72.314 casi confermati, sospetti, diagnosticati clinicamente e asintomatici di “COVID-19” in Cina fino all’11 febbraio 2020 per poi concentrarsi, in particolare, sugli oltre 44mila casi confermati.

La ricerca mostra che l’80,9% delle infezioni è classificata come lieve, il 13,8% come grave e solo il 4,7% come critico. Il più alto tasso di mortalità dei casi riguarda persone di età pari o superiore agli 80 anni (il 14,8% dei casi), mentre non ci sono stati decessi tra i bambini fino a 9 anni, nonostante almeno due neonati siano stati contagiati dalle loro madri. Fino a 39 anni, il tasso di mortalità rimane basso (0,2%) per poi aumentare gradualmente con l’aumentare dell’età: tra i 40 e i 49 anni, è pari allo 0,4%, tra i 50 e i 59 è dell'1,3%, per salire al 3,6% tra i 60 e i 69 anni, e all’8% dai 70 anni in poi. 

I pazienti che hanno maggiori probabilità di morire sono quelli affetti da altre patologie, come le malattie cardiovascolari, seguiti dal diabete, le malattie respiratorie croniche e l’ipertensione. Il tasso di mortalità complessivo per il virus è del 2,3%, decisamente minore rispetto alla sindrome respiratoria acuta grave (SARS) del 2002-2003, che aveva colpito un minor numero di persone, ma che aveva un tasso di mortalità pari quasi al 10%.

Inoltre, stando a quanto riportato da uno studio apparso su The Lancet, il virus ha una scarsa trasmissibilità sui bambini e i neonati: su nove donne che hanno contratto “COVID-19” nell’ultima parte della gravidanza, nessuna ha registrato infezioni intrauterine e la trasmissione della malattia al feto. Si sono verificati due casi di sofferenza fetale, ma tutte e nove le gravidanze sono andate a buon fine. Tuttavia, i ricercatori precisano che i loro risultati si basano su un numero limitato di casi, in un breve periodo di tempo, e includevano solo donne nell’ultimo periodo della loro gravidanza e che hanno partorito con un cesareo. Rimangono ancora poco chiari i possibili effetti dell’infezione nelle donne durante il primo o il secondo trimestre di gravidanza e gli esiti successivi per i figli, nonché se il virus può essere trasmesso da madre a figlio in un parto naturale. 

Nonostante quello pubblicato dal Chinese Journal of Epidemiology sia lo studio più dettagliato sull’epidemia di coronavirus in Cina dall’inizio della sua diffusione, il quadro che fornisce la ricerca è tutt’altro che completo. Anzi, come suggeriscono gli autori della ricerca, non è detto che il peggio sia passato e che si possa cominciare a essere tranquilli: la Cina potrebbe essere colpita da un rimbalzo della malattia, considerato anche il ritorno di molte persone dalle vacanze per il capodanno lunare.

Tuttavia, come detto, l’Osservatorio mondiale della sanità (OMS) ha spiegato che dopo il momento di picco il virus «è in costante calo» e, per quanto si sia trattato finora di un’emergenza sanitaria, non può essere definito una pandemia. Il direttore generale dell’OMS Tedros Adhanom ha invitato però «gli Stati a fare tutto il possibile per prepararsi a una potenziale pandemia».

I dati finora a disposizione, con i nuovi picchi di epidemie che stanno colpendo soprattutto Corea del Sud, Iran e Italia con dinamiche di trasmissione ancora non decifrabili, non consentono di ricostruire il quadro completo della diffusione e letalità dell’epidemia. 

In base alle analisi fatte finora, si può dire che “SARS-CoV-2” è un virus che si diffonde velocemente (ma meno del morbillo) ma ha un tasso di letalità basso.

Come scrivevamo nel nostro primo pezzo sul “SARS-CoV-2”, in epidemiologia per poter valutare la velocità di diffusione di un virus si ricorre a un indicatore, R0 (“R naught”) che indica quanto è contagiosa una malattia infettiva e quanto un'infezione si riproduce diffondendosi fra le persone. Se si stima che ogni persona ne contagi un’altra, R0 equivale a 1. Se l’indicatore risulta superiore rispetto al valore 1, significa che ogni persona ne sta contagiando più di una, e cioè che il virus si sta diffondendo velocemente. Più alto è l’indicatore, dunque, maggiore è la probabilità che molte persone si ammalino.

Per fare alcuni esempi, il morbillo, il virus più contagioso che i ricercatori conoscono, può restare nell'aria di una stanza e far ammalare le persone fino a due ore dopo che una persona infetta che ha tossito o starnutito è andata via. Se le persone esposte al virus non vengono vaccinate, il valore R0 del morbillo può arrivare fino a 18. L'ebola è più mortale ma molto meno contagiosa: il suo R0 è in genere 2, in parte perché molte persone infette muoiono prima di poter passare il virus a qualcun altro.

Nel caso del “COVID-19”, la maggior parte delle stime sull’R0 concordano su un valore di contagio tra 2 e 2,5 (il che significa che ogni persona infetta ne sta contagiando altre 2 o 2,5). Se, invece, si restringono le stime ad alcune delle principali analisi di modellistica epidemiologica del mondo (come quelle condotte da Maia Majumder all’ospedale pediatrico di Boston, Christian Althaus all'Università di Berna, Jon Read a Lancaster) si va da un valore di 2 a uno di 3,11, che renderebbe il nuovo Coronavirus più contagioso dell'influenza stagionale e potenzialmente anche più della SARS.

Per quanto riguarda il tasso di letalità (ovvero la percentuale di decessi che una malattia provoca in un gruppo di persone che si è ammalato), la percentuale sembra essere bassa, intorno al 2%. Anche in questo caso, al momento, è difficile arrivare a stime solide perché all’inizio di un’epidemia è complicato determinare con certezza il numero certo delle persone che si sono ammalate e quante, tra queste, sono poi morte. Non sappiamo quanti hanno contratto il virus senza mostrare sintomi o non preoccupandosi di andare dal medico perché di solito non si ammalano. Inoltre, i dati che girano non sono ancora definitivi perché, considerato che il virus ha un periodo di incubazione di due settimane, ci sono molte persone con l'infezione in corso o ancora negli ospedali che possono sopravvivere o meno alla polmonite che ne deriva.

Secondo Christian Althaus, immuno-epidemiologo dell’Università di Berna, in base ai dati attuali è possibile stimare il tasso di letalità di “COVID-19” intorno all’1,8%. Tuttavia, l’incertezza intorno a questa stima resta alta a causa del numero limitato dei decessi e il valore percentuale potrebbe addirittura scendere. Ci sarà più precisione man mano che saranno presi in considerazione un maggior numero di casi e di decessi, anche fuori dalla Cina, conclude Althaus.

Ma che tipo di virus è “SARS-CoV-2”? Rischia di diventare una pandemia? Quanto è effettivamente contagiosa e letale? E cosa dovremo fare per renderlo inoffensivo?

Quella che stiamo affrontando, scrive la virologa Ilaria Capua, è “una sindrome simil-influenzale da Coronavirus” e pertanto va trattata come “una probabile brutta influenza” che provoca nella maggior parte dei casi sintomi lievi, in alcuni più gravi e in altri gravissimi. 

Per trovare un vaccino ci vorrà almeno un anno, prosegue la virologa, ed è probabile che l’epidemia possa continuare a diffondersi fino a primavera inoltrata. L’unico modo per contrastare la diffusione del virus è “opporre una reazione di grande coscienza collettiva” per evitare che il contagio coinvolga tantissime persone contemporaneamente e metta in ginocchio il nostro sistema sanitario e blocchi il paese. Rendere la vita difficile al virus significa “non solo seguire le linee guida internazionali”: “la regola deve essere la seguente, proteggere gli altri per proteggere se stessi e lavorare con intelligenza (tutti insieme) per arginare il contagio”. Come? Accorgendosi che quella che può sembrare una banale influenza in realtà può essere il coronavirus. È questo un passo che “riguarda tutta l’umanità. E ognuno deve fare il proprio pezzetto”.

Uno degli errori che possiamo fare, avverte l’epidemiologo Pier Luigi Lopalco, è proprio pensare che ci si trovi di fronte a un’influenza. “COVID-19” non è una pandemia letale ma non è nemmeno una banale sindrome influenzale. Rispetto alle normali influenze, nel caso del coronavirus «la popolazione non è immune, è completamente vergine». 

Inoltre, «se un’ondata epidemica arriva diluita nel tempo è gestibile. Se arriva tutta insieme, tante persone si ammalano allo stesso tempo, è molto meno gestibile» ed è qualcosa che se arriva in Italia in maniera incontrollata può mettere in crisi l’intero sistema perché il nostro sistema ospedaliero, soprattutto gli ospedali di provincia, non è pronto a rispondere alle evenienze, come «abbiamo visto chiaramente al primo focolaio in cui 5 operatori sanitari sono risultati positivi». Tuttavia, prosegue il professore di Igiene all’università di Pisa, non si deve nemmeno cedere al facile allarmismo perché il sistema sanitario nazionale è tra i migliori al mondo, come dimostrato dai due turisti cinesi curati allo Spallanzani di Roma.

«È stato un colpo di fortuna intercettare il caso di coronavirus a Codogno. Senza quella prima diagnosi forse i casi si sarebbero moltiplicati ancora in modo silenzioso», aggiunge Lopalco. È verosimile che l’epidemia stesse circolando silenziosamente già da gennaio e si è pensato che molti malati, che si sono rivolti al sistema sanitario nazionale, fossero stati colpiti dall’influenza «o avessero sintomi così lievi che nemmeno sono andati dal dottore». Non riuscire a rintracciare il paziente zero (quello da cui è partita la catena del contagio) «complica dannatamente le cose» perché viene a mancare «il vertice dell’albero di propagazione dell’epidemia, il punto da cui si diramano i contagi» dal quale poter individuare tutti i rami di diffusione e cercare di contenerla. 

La situazione che si sta registrando nel lodigiano e nella provincia di Padova va gestita «come un incendio, facendo terra bruciata attorno all’area in cui divampa il fuoco», spiega il virologo Fabrizio Pregliasco, ricercatore all’Università Statale di Milano.

Dopo l’esplosione dell’epidemia, siamo nella fase della mitigazione nella quale si deve cercare di limitare e rallentare la velocità di diffusione che potrebbe in ogni caso rivelarsi ampia, prosegue il virologo. Il rischio è che, anche se di fronte a un basso rischio specifico, possa verificarsi una diffusione così massiccia da bloccare il paese. Per evitare questo scenario, l’isolamento e l’individuazione dei soggetti contagiati è una delle soluzioni che potrebbero risultare tra le più efficaci.

«È un virus inevitabilmente soggetto a espandersi in tutto il mondo perché è nuovo, nessuno lo ha mai visto prima e verso il quale non abbiamo alcuna immunità pregressa», aggiunge Arnaldo Caruso, presidente della Società italiana di virologia. «La trasmissione avviene in maniera più veloce dell’influenza e ci sono tempi di incubazione lunghi. Adesso si tenterà di bloccare tutti i focolai sul nascere».

Tuttavia, ha dichiarato il dottor Michael Ryan, direttore esecutivo del programma emergenze sanitarie dell’OMS, «non possiamo chiudere il mondo. Non funzionerà perché la malattia può diffondersi tra le nazioni. Non possiamo fermare la diffusione del virus, quindi dobbiamo essere concentrati sulla riduzione del rischio di trasmissione e sull'aumento della sopravvivenza dei pazienti che si ammalano».

Da questo punto di vista, spiega il professor Massimo Galli, al momento, «per curare i malati abbiamo possibilità solo di tipo sperimentale in uso “compassionevole”, cioè non all’interno di uno studio controllato, bensì in utilizzo diretto per vedere se la cura funziona». Queste terapie, però, non consentono di dire in assoluto se un farmaco è efficace o meno, ma sono strettamente legate ai singoli decorsi. Attualmente, prosegue Galli, si stanno tentando due strade: una è il ricorso all’associazione Lopinavir/Ritonavir a lungo utilizzato contro l’HIV (anche se non ci sono prove con studi in vivo che funzioni anche con questo coronavirus), che agisce verso un enzima che assembla le proteine virali, quasi come un sarto; l’altra è il Remdesivir, un antivirale studiato per Ebola che però sull’uomo non aveva mostrato grandi risultati e che agisce inserendo una “tesserina” sbagliata nella catena dell’RNA del virus in modo che non possa più replicarsi.  

Il Remdesivir è stato utilizzato anche sui tre pazienti ricoverati e poi guariti allo Spallanzani di Roma. I risultati dei primi test sull’uomo, condotti proprio in queste settimane nell’ospedale di Wuhan su pazienti gravi e di moderata gravità, saranno comunicati ad aprile. La sperimentazione clinica era stata accelerata dopo il caso di un paziente americano (ndr, il primo caso di persona che aveva contratto "COVID-19" negli Stati Uniti) che aveva beneficiato di questo antivirale.

Cosa fare

Il ministero della Salute, in collaborazione con l’Istituto Superiore di Sanità, ha diffuso un decalogo informativo su cosa fare per prevenire fonti di contagio. In particolare si raccomanda a chi ha dubbi di telefonare al 1500 oppure consultare il sito del Ministero della salute o quello dell’Istituto superiore di Sanità, e a chi sta male di non recarsi al Pronto Soccorso o in ospedale, ma di chiamare il numero unico per il soccorso (112 o 118, a seconda delle Regioni).  In caso di sintomatologia sospetta è bene avvisare subito il personale sanitario se si hanno avuti contatti diretti o indiretti con qualcuno tornato dai paesi ad alto rischio. Qui il portale del ministero dedicato al nuovo coronavirus.

Foto in anteprima via Pixabay.com

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