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Francia: la riforma delle pensioni e l’imponente movimento di protesta contro Macron

6 Febbraio 2020 12 min lettura

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Francia: la riforma delle pensioni e l’imponente movimento di protesta contro Macron

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di Filippo Ortona (sui social "Filippesi")

"In termini di durata, l’attuale contestazione ha già battuto tutti i record dal maggio 1968": basterebbe questo incipit del quotidiano Le Monde del 16 gennaio per dare una misura dell’ampiezza del movimento di opposizione alla riforma delle pensioni voluta dal presidente della Repubblica francese Emmanuel Macron.

Ma non è solo la durata a determinare l’eccezionalità degli scioperi francesi di questi mesi, iniziati il 5 dicembre con il blocco pressoché totale dei trasporti, durati più di un mese. A far riflettere, è soprattutto la diversità e il numero dei settori professionali coinvolti.

Scuola e università, sanità pubblica, tribunali, avvocature, centrali elettriche e nucleari, raffinerie, enti pubblici e privati di vario tipo, studenti, pompieri. Ogni giorno, un nuovo settore della società sembra convergere verso il movimento contro la riforma delle pensioni. Anche i giornalisti sono scesi in piazza aderendo apertamente allo sciopero sindacale.

Secondo gli ultimi sondaggi disponibili, a due mesi dall’inizio delle mobilitazioni, sei francesi su dieci "considerano che Emmanuel Macron dovrebbe prendere in considerazione le contestazioni contro la riforma delle pensioni e ritirarla, un dato in crescita di quattro punti in un mese". Nello stesso sondaggio, il 72% degli interpellati giudica Macron un "autoritario". Secondo un altro sondaggio, "il sostegno dei francesi alla mobilitazione contro la riforma […] continua ad aumentare: il 51%" degli interpellati (ovvero "più di un francese su due") ha espresso simpatia o sostegno per la protesta.

L’iter politico della riforma delle pensioni è stato finora particolarmente problematico, costellato di scandali (tra i quali le dimissioni del commissario alle pensioni del governo, Jean-Paul Delevoye, che non aveva dichiarato numerosi impieghi nel settore delle assicurazioni), scivoloni istituzionali e violenze da parte delle forze dell'ordine, oltre a una grande confusione sul contenuto stesso della riforma.

Tutto ciò ha senza dubbio contribuito a coagulare una rabbia che covava sin dall’inizio del mandato di Macron, già scosso dalla crisi dei Gilets Jaunes, ad appena un anno e mezzo della sua elezione a Presidente che ne aveva sancito la vittoria nel 2017.

Cosa prevede la riforma e le principali differenze con l'attuale sistema pensionistico francese

Durante la campagna elettorale del 2017, Macron aveva detto di voler attuare una riforma delle pensioni che portasse a un sistema universale, dove “ogni euro versato darà a tutti gli stessi diritti”. L’obiettivo era snellire l’attuale sistema che prevede 42 diversi regimi pensionistici obbligatori sostituito con un unico regime universale a punti.

L’attuale sistema pensionistico francese – eredità diretta del Secondo Dopoguerra e della Resistenza al nazifascismo – è sostanzialmente retributivo: lavoratori e datori di lavoro finanziano le casse degli enti pensionistici versando contributi prelevati direttamente dal loro reddito e tutte queste somme messe in comune servono a pagare le pensioni, garantendo ai pensionati un reddito equiparabile al salario percepito. 

Secondo un rapporto del governo, l’82% dei pensionati riceve una pensione attraverso il regime cosiddetto “generale” dei lavoratori dipendenti. Su 17,2 milioni di pensionati, 1 milione e centomila hanno una pensione esclusivamente attraverso uno degli undici regimi speciali. Poi ci sono altri fondi pensioni individuali anche se non considerati regimi speciali in senso stretto: quelli del servizio pubblico statale (2,3 milioni di pensionati, il 13%), del servizio pubblico territoriale e ospedaliero (1,1 milioni, 7%), del regime dei lavoratori autonomi (2 milioni, 12%), dei lavoratori agricoli stipendiati (2,5 milioni, 15% per cento). 

A seconda dei gruppi varia, poi, l’età di pensionamento: i ferrovieri (Snfc) e gli autoferrotranvieri (Ratp) vanno in pensione molto prima rispetto ai lavoratori appartenenti al regime generale (a 57 o 56 anni, i primi, 63 anni gli altri) e percepiscono in media una pensione più alta : 2.357 euro per i lavoratori della Ratp, che salgono a 3.705 euro per una carriera completa (anche se in pochi riescono a raggiungere queste cifre). Tuttavia, riporta Lavoce.info, il fatto che la pensione percepita compensi in parte la gravosità del lavoro svolto e un trattamento economico peggiore rispetto ad altri lavoratori europei dello stesso settore durante la carriera lavorativa ha spinto questi due gruppi a essere tra i più agguerriti partecipanti agli scioperi.

Macron voleva, dunque, risolvere la questione sopprimendo le singole “casse” legate ai vari settori professionali, e introducendo un unico sistema a punti universale, uguale per tutti. «Ogni ora di lavoro effettuata permetterà di acquisire un certo numero di punti», aveva detto il Primo ministro Edouard Philippe presentando il testo della riforma. Per ogni ora di lavoro effettuata sono assegnati dei punti che dovrebbero variare da professione a professione. A fine carriera, i punti accumulati saranno usati per determinare l’importo della pensione da ricevere ogni mese.

Inoltre, Presidente e Primo ministro avevano affermato di non voler modificare l’età pensionabile, ma spiega sempre Lavoce,  “l’idea di età pivot, o età di equilibrio, fissata a 64 anni, sembra contraddire queste affermazioni”. In altre parole, secondo la riforma, chi va in pensione prima avrà una riduzione del 5% dell’assegno mensile che riceverà; invece, “ogni anno di ritardo rispetto ai 64 anni e, quindi, di lavoro in più (e di contributi) verrà premiato con un aumento del 5% sull’importo della pensione”. Una mossa fortemente contestata e che, secondo i sindacati, costituisce il vero cuore della riforma: «il governo vuole incitare i francesi - senza obbligarli - a lavorare un po’ più a lungo», aveva detto sempre Edouard Philippe presentando la riforma a dicembre.

Di fronte all’ampiezza della mobilitazione e all’inedito fronte unito tra sindacati considerati “riformisti” (in particolare la CFDT) e la CGT (giudicata più “radicale”), il governo aveva promesso di ritirare l’aumento dell’età pensionabile, sottomettendo la questione a una “conferenza” delle parti sociali che dovrebbero trovare una soluzione per il finanziamento del nuovo sistema. Tuttavia, nella proposta di legge avanzata in Parlamento, l’aumento dell’età pensionabile sembra essere stata reintrodotta, causando non pochi problemi ai sindacati che avevano accettato i negoziati governativi.

via Le Monde

Il nuovo sistema dovrebbe partire dal 2025 e applicarsi solamente ai nati dal 1975. In un primo momento ci sarà un periodo di transizione a sistema misto: i “punti” previsti dalla nuova misura si sommeranno ai contributi versati sotto il vecchio regime. I nati dal 2004 in poi faranno parte del nuovo regime, a partire dal momento della loro entrata nel mondo del lavoro.

Le questioni in sospeso sono numerose: quante vale un punto? Chi ne stabilisce il valore? Come calcolare la variazione dell’età pensionabile? Come prendere in conto la gravosità di alcuni settori, o le discriminazioni di genere, o i periodi di disoccupazione e maternità, nel quadro di un unico sistema universale?

Tutte queste domande, finora, non hanno ricevuto risposte ritenute soddisfacenti. Inoltre, nonostante la volontà di instaurare un regime “universale” uguale per tutti, sono numerose le concessioni che il governo ha introdotto sin dall’inizio di questa battaglia politica. A una settimana dall’inizio degli scioperi del 5 dicembre, il primo ministro Edouard Philippe ha annunciato che le forze dell’ordine sarebbero state risparmiate dalla riforma. Pochi giorni dopo, il 16 dicembre, la ministra dei Trasporti Elizabeth Borne aveva assicurato che anche i camionisti sarebbero stati esentati. Il governo, infine, ha escluso anche i militari dai cambiamenti a venire, così come i piloti di linea, i pescatori e le ballerine dell’Opéra di Parigi assunte prima del 2022. Una serie di pesi e misure differenti che hanno ridicolizzato l’idea che l’obiettivo della riforma fosse un sistema universale. 

Per cercare di dissipare la confusione che persiste sul contenuto reale della riforma, lo scorso 24 gennaio, dopo mesi di resistenze e reticenze, il governo ha finalmente reso pubblico lo “studio d’impatto”  alla vigilia del varo del progetto di legge in Consiglio dei ministri. Lo stesso giorno, il Consiglio di Stato, la più alta corte amministrativa del paese, il cui parere è obbligatorio su questo tipo di riforme, demoliva letteralmente il testo del governo. 

I membri del Consiglio hanno definito lo “studio d’impatto” «insufficiente», ritenendo che esso non risponda «alle esigenze generali di obiettività e di trasparenza», mancando di «precisione» in particolare per quanto riguarda «la verifica della sostenibilità finanziaria di questa riforma», come riporta Libération. Inoltre, il Consiglio di Stato ha individuato una serie di punti che pregiudicano la costituzionalità della riforma, e ha ribadito che, alla luce del testo inviato alla Corte, «questo progetto di legge non crea un “regime universale” delle pensioni», ma piuttosto una grande confusione.

Il contenuto della riforma è stato criticato non solo dai sindacati, ma anche dal Medef, la Confindustria francese, il cui presidente Geoffroy Roux de Bézieux ha tenuto a smarcarsi dall’iniziativa governativa in commissione parlamentare il 29 gennaio: «Noi non siamo per un sistema universale delle pensioni, […] per noi era più saggio un sistema fondato su tre grandi regimi, funzione pubblica, privato e lavoro indipendente».

Infine, anche una figura vicina a Macron, come Pierre Ferracci, presidente di uno dei più grandi gruppi di counseling alle imprese, nonché storica figura di mediazione tra governi e sindacati, ha invitato il presidente della Repubblica a «ritardare l’approvazione della riforma: […] non è andando veloci che si fanno le riforme».

Lo sciopero più imponente dal 1968

Ad aprire le ostilità dell’attuale sciopero sono stati i lavoratori delle ferrovie e dei trasporti, tradizionalmente tra i più attivi nei movimenti sindacali. Il 5 dicembre, primo giorno di sciopero, è iniziato il blocco pressoché totale di treni e trasporti pubblici, durato più di un mese. Tuttavia, quello stesso giorno ha visto il paese attraversato da "cortei massivi" (Le Monde) che hanno riunito 1,5 milioni di persone in tutto il paese secondo il sindacato CGT, e almeno 800.000 secondo il governo. Cifre sorprendenti quando si pensa che, ancora lo scorso 24 gennaio, cioè quasi due mesi dopo il primo corteo, la forchetta di manifestanti si è attestata tra le 250.000 e 1,3 milioni di persone.

Numeri, soprattutto, che vanno ben al di là delle "normali" contestazioni sindacali, e segno che qualcosa di imponente è in corso.

Al seguito degli cheminots (ferrovieri) si è messo in moto tutto un mondo, in particolare quello del lavoro salariato. E non solo in piazza, giacché le azioni di "disturbo" si sono ben presto moltiplicate. Gli operai delle centrali elettriche e dell’energia hanno sfruttato le loro competenze per tagliare l’elettricità a prefetture e siti simbolici, tra i quali lussuosi meeting di partito. Mentre scrivo, gli operatori degli inceneritori hanno decretato il blocco degli impianti e i marciapiedi di Parigi traboccano di rifiuti. In seguito, anche i lavoratori della scuola hanno preso parte attiva al movimento.

Più sorprendente è l’attivismo degli avvocati: secondo le associazioni professionali, i legali verrebbero pesantemente penalizzati dalla riforma, cosa che li ha spinti a bloccare per vari giorni i tribunali di tutto il paese, gettare le toghe ai piedi dei responsabili del governo in segno di protesta e danzare l’haka dei rugbisti neozelandesi durante i cortei fianco a fianco, entrambi in abiti di lavoro, ai manutentori delle fogne di Parigi.

Questi ultimi, peraltro, hanno fatto molto parlare di sé. Secondo i sindacati, gli operai delle fogne di Parigi hanno un’aspettativa di vita nettamente più bassa del resto della popolazione. Il che spiega la loro rabbia di fronte a una riforma delle pensioni che non tiene in conto della gravosità del loro lavoro, sino ad oggi tutelata da una cassa pensionistica speciale. Lo stesso discorso vale per i lavoratori dell’Opéra di Parigi, finora protetti da un fondo speciale destinato a scomparire, in sciopero sin dal 5 dicembre.

Alla vigilia di Natale, le ballerine dell’Opéra, in tutù e scarpini, hanno inscenato il "Lago dei cigni" di Čajkovskij sul piazzale antistante a uno dei più grandi teatri d’opera della capitale, a L'Opéra Garnier, davanti a una folla immensa. Un’immagine indelebile, incredibilmente potente e che ha fatto il giro del mondo. Un’immagine che più di ogni altra, probabilmente, segnerà il ricordo di questo eccezionale conflitto sociale.

Altre categorie si erano già mobilitate e hanno trovato nello sciopero generale uno strumento per, appunto, inserire in un quadro più generale le loro rivendicazioni. È il caso della sanità pubblica, teatro di un conflitto generale in tutto il comparto da quasi un anno. Già dall’estate scorsa, centinaia di medici e infermieri hanno proclamato una serie di scioperi per denunciare il sottofinanziamento del settore.

Nei mesi scorsi, di fronte alle risposte giudicate insufficienti da parte del governo, più di mille medici del settore pubblico (tra i quali 600 capiservizio) hanno minacciato di dimettersi in massa qualora il governo non proceda a un radicale rifinanziamento della sanità pubblica. Per loro, la riforma delle pensioni è stata la proverbiale goccia in un vaso già strabordante: "I pronto soccorso sono per tutti voi. Le pensioni saranno per tutti noi", ha scritto il collettivo nazionale degli infermieri.

Lo stesso discorso vale per i pompieri, già mobilitati per l’aumento della "quota fuoco" – che corrisponde al 19% del salario – "bloccata dal 1990", secondo i sindacati, per dei maggiori finanziamenti e nuove assunzioni. Anch’essi hanno trovato nella grève [ndr, lo sciopero] un palcoscenico che ha ampliato l’impatto mediatico (e politico) delle loro azioni. Farà storia la manifestazione del 28 gennaio, durante la quale i vigili del fuoco hanno scatenato il panico tra le forze dell’ordine.

Il governo ha ceduto mentre gli scontri erano ancora in corso, causando la prima frattura sindacale: alcune organizzazioni dei pompieri hanno annunciato il ritiro dal movimento contro la riforma delle pensioni, mentre altre hanno deciso di continuare lo sciopero.

Anche i giornalisti hanno visto nella più ampia mobilitazione dal 1968 un’opportunità, o forse più semplicemente, un modo per fare il punto sullo stato della professione.

Nel 2018, la presidenza Macron ha introdotto una legge particolarmente inquietante per la libertà di stampa, la "loi sur le secret des affaires" (legge sul segreto degli affari), che mira a "interdire la divulgazione di informazioni che non costituiscono un’infrazione o un crimine", con la volontà teorica di proteggere i "segreti industriali" delle aziende, come riportato da Libération. Un pericoloso ostacolo alla libertà d’informazione, in particolare per il giornalismo d’inchiesta, che ha già causato problemi a Le Monde nel quadro dell’inchiesta "Implant Files" condotta assieme all’International consortium of investigative journalists.

L’attitudine di Macron nei confronti della stampa, al di là del quadro legislativo, ha suscitato serie preoccupazioni. Sarà difficile dimenticare il tentativo di perquisizione alla redazione di Mediapart, attivamente incoraggiato dall’Eliseo, dopo le rivelazioni in merito allo scandalo che ha coinvolto il collaboratore del presidente Alexandre Benalla. O la serie di convocazioni alla sede della DGSI, i servizi "interni", di alcuni dei più noti giornalisti del paese dopo l’inchiesta condotta da una serie di media (tra i quali Le Monde e Radio France, che pure è la radio pubblica) sulla vendita di armi francesi in Arabia Saudita, nel quadro del conflitto in Yemen.

La violenza della polizia, inoltre, non cessa di preoccupare le redazioni francesi. Ormai, dalla crisi dei gilet gialli, non si contano più i giornalisti feriti nel corso del loro lavoro, colpiti dalle famigerate LBD (ne avevamo parlato qui) o dalle altre armi utilizzate con nonchalance dall’antisommossa francese. A ogni manifestazione, un bollettino viene steso dal collettivo "Reporters en colère", tra foto di ferite, contusioni e mascelle spaccate.

Il filo rosso che lega tutte queste mobilitazioni, in fondo, è la fatica, la gravosità del lavoro. Ognuna di queste categorie sopra citate, rivendica non solo la protezione sociale alla quale avevano diritto sinora, ma anche una forma di riconoscimento, di tutela legata alle sofferenze particolari che ciascuno prova nel corso dell’attività professionale. Alle manifestazioni hanno partecipato anche gli impiegati della Banca di Francia, i quadri delle aziende, o ancora i geografi dell’Istituto Nazionale di Geografia e i ricercatori universitari.

Il fatto che tutto ciò avvenga ad appena un anno e mezzo di distanza dalle elezioni del 2017, fa riflettere sul "riformismo" rivendicato da Emmanuel Macron, e spiega anche perché, nel sondaggio che abbiamo citato più in alto, il pubblico percepisca un sapore autoritario nel suo modo di governare le istituzioni.

Come ha scritto Dan Israel, giornalista d’inchiesta e d’economia a Mediapart, questa riforma – al di là dell’esito della battaglia – "è stata una sconfitta intellettuale totale per l’esecutivo". "In nessun momento il governo è stato in grado di imporre la propria narrazione, […] e la popolazione rimane ostile alla riforma", scrive Mediapart. "Il governo non ha convinto nessuno, anzi. […] La realtà è che il neoliberismo non sembra più avere il monopolio delle idee economiche e sociali. Da questo punto di vista, il movimento sociale [iniziato il 5 dicembre] è una vera e propria svolta".

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Aggiornamento 6 febbraio 2020: Rispetto a una prima versione dell'articolo abbiamo inserito il capitolo "Cosa prevede la riforma e le principali differenze con l'attuale sistema pensionistico francese"

Immagine in anteprima via Il Manifesto

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