Guantánamo: la testimonianza degli psicologi che idearono il programma di tortura della CIA
7 min lettura«Lo rifarei. Il mio dovere morale di proteggere le vite dei miei connazionali prevaleva sulle sofferenze che avrei provocato nei terroristi [ndr, sottoposti a interrogatorio] che ci avevano attaccato volontariamente. Lo percepivo come una mia responsabilità morale». Così, durante la sua udienza, il dottor Mitchell, ex psicologo a contratto della CIA, ha motivato il suo coinvolgimento da parte dell’agenzia di intelligence americana nell’ideazione di una serie di tecniche di interrogatorio da considerarsi a tutti gli effetti torture al fine di individuare i responsabili degli attacchi alle Torri Gemelle nel 2001 e difendere gli Stati Uniti da futuri attentati.
Dal 20 gennaio, James E. Mitchell e John “Bruce” Jessen, i due psicologi che hanno messo a punto le “tecniche avanzate di interrogatorio” della CIA nel centro di detenzione di Guantánamo, stanno testimoniando nella fase istruttoria del processo nei confronti di Khalid Sheikh Mohammed – ritenuto l’ideatore degli attacchi dell’11 settembre 2001 negli Stati Uniti – e altri quattro imputati.
I due psicologi sono responsabili di aver ideato alcune tecniche di interrogatorio che possono essere equiparate a vere e proprie torture, come l’isolamento in celle di dimensioni minuscole (21x30 pollici, pari a 53x76 cm), il ricorso a pestaggi, la privazione del sonno e il waterboarding, cioè una forma di annegamento controllato “in cui il detenuto viene steso su una panca inclinata, con i piedi in alto e un panno a coprire bocca e naso. Gli viene gettata acqua in testa a intervalli regolari. Questa tecnica induce un aumento del diossido di carbonio nel sangue e rende difficile la respirazione”.
Queste tecniche di interrogatorio furono utilizzate in diversi centri di detenzione di tutto il mondo, compresa l’Europa, dal 2001 al 2009, durante l’amministrazione di George W. Bush, nei confronti dei prigionieri catturati dai militari statunitensi in Medio Oriente durante la guerra contro i terroristi di al Qaida e per individuare i responsabili degli attacchi dell’11 settembre 2001, fino a quando non furono vietate dal presidente Obama nel 2010. Nel 2014, un rapporto della commissione di intelligence del Senato elencò una serie di abusi commessi nei confronti dei detenuti interrogati e giunse alla conclusione che gli “interrogatori potenziati”, come li avevano definiti i due ideatori, costituivano una violazione del diritto americano e internazionale e non avevano prodotto informazioni utilizzabili per le operazioni anti-terrorismo. Dopo la pubblicazione del rapporto, l’allora capo della CIA, John Brennan, ammise le responsabilità dell’agenzia di intelligence nel condurre gli interrogatori. Successivamente, anche secondo uno studio interno della CIA, il valore ai fini delle informazioni di intelligence di quegli interrogatori fu gonfiato. Nel 2019 Vice ha prodotto un film dal titolo "The Report" che, attraverso la storia del funzionario Daniel Jones, ricostruisce l'indagine della commissione del Senato sull'uso della tortura da parte della CIA in seguito agli attentati dell'11 settembre 2001.
Le testimonianze dei due psicologi potrebbero avere implicazioni rilevanti sull’andamento del processo nei confronti dei cinque imputati che inizierà tra un anno, nel gennaio 2021: si valuterà se la CIA e l’FBI sono state complici di tortura sui detenuti a Guantánamo e, appurato questo, se le informazioni ottenute in questo modo debbano essere ritenute valide ai fini del processo. Il giudice, il colonnello W. Shane Cohen dell'Aeronautica militare, dovrà decidere se è stato finora impedito agli imputati di ottenere un processo equo: in tal caso potrebbe arrivare a respingere le accuse nei loro confronti o eliminare la pena di morte tra i gradi di condanna.
Secondo gli avvocati difensori, tutti e cinque gli uomini, accusati di cospirazione negli attacchi dell'11 settembre 2001, sono stati torturati usando alcune delle tecniche ideate da Mitchell e Jessen, ora vietate, e le loro confessioni tutte estorte. Il principale imputato del processo, Khalid Sheikh Mohammed, è stato sottoposto al waterboarding 183 volte in 15 giorni.
«Il perverso “lavoro” di questi psicologi ha fortemente compromesso la lotta globale contro la tortura. I metodi interrogatorio da loro caldeggiati hanno avuto un effetto domino in tutto il mondo», ha dichiarato Julie Hall, avvocata ed esperta del Segretariato Internazionale di Amnesty International in materia di giustizia penale, antiterrorismo e diritti umani, presente alle udienze.
«Invece di doverne rispondere – ha aggiunto Hall – i responsabili del programma di torture della CIA, tra i quali Mitchell e Jessen, sono stati protetti e, in alcuni casi, difesi. Il fatto che essi testimonino in questa importantissima circostanza dimostra che la Cia non ha voluto sradicare le violazioni dei diritti umani su cui si basava il loro programma antiterrorismo. Questa impunità costituisce una macchia nella storia degli Stati Uniti. La tortura non può mai essere giustificata e chiunque ne faccia uso deve risponderne».
Mitchell e Jessen erano psicologi dell'aeronautica militare incaricati dalla CIA nel 2002 di mettere a punto un programma di tecniche di interrogatorio che permettesse di ottenere informazioni utili per individuare i responsabili degli attacchi negli Stati Uniti nel 2001.
I due psicologi sono stati pagati più di 1600 euro al giorno e nel 2005 hanno costituito una società privata che ha fornito alla CIA servizi e personale di sicurezza nella maggior parte degli interrogatori svolti dall’agenzia di intelligence nelle strutture segrete di detenzione. La società è stata pagata più di 70 milioni di euro (81 milioni di dollari) per le sue attività prima che il suo contratto venisse risolto nel 2009. Durante quel periodo, Mitchell e Jessen condussero personalmente interrogatori e formarono personale che ne avrebbe condotto altri.
Nel 2015, l'American Civil Liberties Union ha fatto causa ai due psicologi presso la Corte federale di Spokane, Washington, per conto di due ex detenuti, Suleiman Abdullah Salim e Mohamed Ben Soud, rilasciati senza accuse dopo essere stati sottoposti alle tecniche di interrogatori di Mitchell e Jessen, e della famiglia di Gul Rahman, morto sotto interrogatorio nel 2002, dopo essere rimasto incatenato per una notte nudo dalla vita in giù in una delle strutture di detenzione segrete della CIA in tutto il mondo.
Il caso fu risolto nel 2017 in via stragiudiziale. In una dichiarazione congiunta, i due psicologi riconobbero di aver “lavorato con la CIA per sviluppare un programma (...) che contemplava l'uso di metodi coercitivi specifici per interrogare determinati detenuti”, ma presero le distanze dagli abusi “avvenuti a loro insaputa o senza il loro coinvolgimento” e dei quali, pertanto, a loro dire, non potevano essere considerati responsabili.
Dalle testimonianze di Mitchell e Jessen – raccolte per il New York Times dalla giornalista vincitrice del premio Pulitzer Sheri Fink, che è riuscita a ottenere le riprese video delle loro testimonianze – emerge “l’inquietante ritratto di due uomini che affermano di essere a disagio con ciò che la CIA stava chiedendo loro di fare ma che hanno comunque continuato a fare il loro lavoro”.
«Jim e io non volevamo continuare a fare quello che stavamo facendo. Abbiamo cercato di defilarci più volte ma avevano bisogno di noi, e noi abbiamo continuato a lavorare per loro», testimoniò all’epoca il dottor Jessen.
«Pensavano che quelle tecniche sarebbero state più sicure di altre che la CIA avrebbe potuto prendere in considerazione. Poco dopo, la CIA ci chiese di usare le tecniche che avevamo ideato per interrogare un sospetto terrorista . Ero stato nell'esercito tutta la vita ed ero abituato a obbedire agli ordini. Ed è stato quello che ho fatto anche in quella circostanza».
Si trattava di Abu Zubaydah, interrogato nel 2002 in una prigione segreta in Thailandia, all’epoca gestita dall’attuale direttore della CIA, Gina Haspel. Il governo degli Stati Uniti credeva fosse il massimo leader di Al Qaeda, ipotesi rivelatasi infondata. Zubaydah fu inizialmente interrogato secondo i metodi tradizionali dall’FBI. Ma la CIA – convinta che stesse trattenendo informazioni importanti – decise di optare per i metodi ideati dai Mitchell e Jessen.
Abu Zubaydah fu legato a testa in giù su un piano inclinato. Sul suo capo, coperto da un panno, fu versata dell’acqua per simulare un annegamento. Subì questa procedura 83 volte per diversi giorni fino a quando – scrive il rapporto della commissione intelligence del Senato – non diventò completamente insensibile, con bolle che gli uscivano dalla bocca. “In seguito a spasmi corporei involontari, il soggetto fu nuovamente messo a testa in sù per liberare le sue vie aeree, a cui seguirono reazioni isteriche. Il soggetto era angosciato dal fatto di non essere in grado di comunicare efficacemente", si legge in un’informativa inizialmente riservata e poi declassificata.
Quando, di fronte a queste reazioni, Jessen tentò di fermare le sessioni di waterboarding, che si stavano rivelando inutili e pericolose, i rappresentanti della CIA, incluso Jose Rodriguez, allora capo del Centro antiterrorismo dell'agenzia, ordinò di continuare.
«Continuavano a dirmi ogni giorno che una bomba nucleare sarebbe esplosa negli Stati Uniti e che, siccome avevo detto loro di smettere, avrebbero dato a me tutte le responsabilità», proseguì Jessen durante la sua testimonianza. «Ci dissero che eravamo dei pusillanimi, che ci sarebbe stato un altro attacco in America e il sangue di civili morti sarebbe stato tutto sulle nostre mani», aggiunse Mitchell.
Nonostante tutto, i due psicologi non si limitarono a proseguire con gli interrogatori ma raccomandarono le loro tecniche come “modello da utilizzare con prigionieri di alto valore", rivela un’altra informativa declassificata. Il waterboarding fu utilizzato con altri detenuti tra cui Khalid Sheikh Mohammed e i due psicologi non hanno mai rinnegato il loro metodo.
In un libro pubblicato nel 2016, “Enhanced Interrogation”, scritto insieme all’ex portavoce della CIA Bill Harlow, Mitchell si era opposto con veemenza alle conclusioni cui era giunta la commissione di intelligence del Senato e sostenuto che il programma di interrogatori da loro architettato era stato ideato per “ammorbidire” i detenuti e renderli più inclini a parlare e, per questo, era efficace nel contrastare eventuali futuri attacchi di al-Qaida contro gli Stati Uniti. "Sarebbe stato immorale e non etico non mettere a disposizione le mie competenze per difendere i nostri cittadini e la nostra civiltà da quei nemici avevano iniziato il conflitto con l’obiettivo dichiarato di distruggerci", scrive Mitchell nel libro.
Anche durante l’udienza iniziata tre giorni fa, Mitchell ha mantenuto questa posizione. Parlando del primo detenuto sottoposto alle “tecniche avanzate di interrogatorio”, il palestinese Abu Zubaydah, l’ex psicologo ha spiegato di aver ideato il suo programma in un contesto storico in cui si temeva che al-Qaida stesse pianificando un attacco nucleare contro gli Stati Uniti o di far schiantare un altro aereo da qualche parte. «La CIA non era interessata a un procedimento giudiziario, non avrebbe permesso loro di scatenare un altro attacco catastrofico negli Stati Uniti. Si stava spingendo fino al limite di ciò che era legale».
«Se sono qui per testimoniare, l’ho fatto solo per le vittime dell’11 settembre, non per voi che avete detto delle falsità su di me e il dottor Jessen», ha dichiarato Mitchell, rivolto agli imputati che hanno subito i suoi metodi di interrogatorio, prima di iniziare la sua udienza.
Nel 2017 l'American Psychological Association ha preso le distanze dai due psicologi per "aver violato l'etica della loro professione e aver lasciato una macchia sulla disciplina della psicologia".
Immagine in anteprima via middleeastmonitor.com