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Gli effetti delle tecnologie digitali sugli adolescenti: niente panico e più ricerca

25 Gennaio 2020 10 min lettura

Gli effetti delle tecnologie digitali sugli adolescenti: niente panico e più ricerca

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I media sono di fondamentale importanza in settori quali il benessere, la democrazia, la povertà, la violenza, l’istruzione, le azioni per il clima e altro ancora. Tuttavia, nonostante le promesse dei big data, nessuno sa davvero cosa le persone effettivamente vedano e facciano sui loro schermi in un mondo digitale sempre più complesso. Di conseguenza, la ricerca e le politiche sono spesso incomplete, irrilevanti o sbagliate.

Inizia così la descrizione dello Human Screenome Project, uno studio collaborativo guidato da Byron Reeves (Università di Stanford), Nilam Ram (Università dello Stato della Pennsylvania) e Thomas Robinson (Università di Stanford) che si propone di acquisire informazioni sul tipo di uso che viene fatto degli schermi digitali, registrandone direttamente le attività dai dispositivi.

Si intende superare in questo modo il limite della maggior parte degli studi condotti fino ad oggi, che si sono basati solo sui questionari compilati dai genitori o da ragazze e ragazzi coinvolti nelle ricerche che rispondevano a domande sul tempo dedicato ai dispositivi e sulle applicazioni usate. Le risposte potevano riferirsi anche agli anni precedenti, aggiungendo un ulteriore limite alla soggettività delle risposte.

Tuttavia, le risposte ai questionari non permettono di distinguere se bambini e ragazzi tendono a consumare (ad esempio, cercando le notizie, guardando i video, scorrendo gli aggiornamenti sulle reti sociali, ecc.) o produrre contenuti (ad es. usando la messaggistica, aggiornando i propri profili, caricando video, ecc.). Inoltre, l’uso dei dispositivi è complesso e può alternare in una stessa giornata periodi di consumo ad altri di produzione di contenuti.

Gli autori del progetto Screenome hanno creato un software che, all’accensione di un dispositivo, registra, crittografa e trasmette schermate in modo automatico e discreto, ogni cinque secondi, per catalogare tutto quello che le persone fanno sui loro schermi. Finora gli autori hanno raccolto 30 milioni di schermate – gli schermomi (screenoms) – da oltre 600 persone. L’insieme di tutti gli schermomi permette di ricostruire il profilo di una persona attraverso le sue attività e tutte queste informazioni (ricerca di notizie, uso delle reti sociali, controllo del conto in banca, messaggistica, ecc.) passeranno sotto la lente dei ricercatori.

Il progetto è alle fasi iniziali e certamente pone delle questioni su come saranno usati tutti questi dati e su come saranno analizzati. Indipendentemente dal consenso informato sottoscritto dai partecipanti, la trasparenza in tutte le fasi del progetto, la dichiarazione sull’uso che sarà fatto dei dati dopo la fase sperimentale e il rigore nella definizione delle ipotesi di ricerca, nell’applicazione dei metodi di analisi statistica e nell’interpretazione dei risultati saranno essenziali alla riuscita del progetto stesso.

L’esigenza di sviluppare progetti che permettano di ottenere informazioni oggettive sui contenuti e non più sul tempo di esposizione ai dispositivi digitali segna il passaggio a una nuova era della ricerca scientifica in questo ambito e il definitivo superamento degli studi precedenti che sono stati caratterizzati da metodi deboli e dalla tendenza a vedere pubblicati solo i risultati che evocavano danni psicologici, psichiatrici e neurologici pur non confortati dalla solidità dei dati. Si tratta per lo più di studi correlazionali che mostrano come le variabili studiate siano presenti insieme ma non se una causi l’altra.

La tentazione di condurre studi di questo tipo prosegue, in realtà, perché risultano di facile realizzazione, richiedendo la compilazione di questionari ad esempio agli studenti universitari o a gruppi selezionati di adolescenti e famiglie. Arrivare a conclusioni attese è altrettanto facile ma non sempre conforme alla complessità dei dati e al loro approfondimento.

Allo stesso modo, l’eco delle credenze che sono state alimentate da queste interpretazioni parziali o basate su superficialità statistiche continua a propagarsi di settimana in settimana con gli interventi pubblici di alcuni specialisti, ricercatori o altri opinionisti. Non bisogna dimenticare che alcuni esperti hanno costruito una carriera sul messaggio che le nuove tecnologie provochino danni di massa che richiedono cure specifiche e quindi modificare le proprie tesi in base alle prove può costituire un rischio professionale.

Tuttavia, la ricerca scientifica è chiara: non ci sono studi che dimostrano una relazione di causa-effetto tra uso dei dispositivi e ritardi dello sviluppo cognitivo, disturbi mentali o danni cerebrali. Continuare a cavalcare l’onda drammatica oltre ad allontanare dalla scienza vuol dire assumersi la responsabilità di creare confusione e incertezza, preparando il terreno a rimedi impropri se non addirittura dannosi.

Leggi anche >> Basta disinformazione su uso dei cellulari e salute mentale dei più giovani. Ecco cosa dice la ricerca scientifica

Nelle ultime due settimane sono state pubblicate due ulteriori importanti revisioni sugli effetti dell’uso delle nuove tecnologie negli adolescenti dalle principali e più rigorose ricercatrici in questo settore.

Dal Regno Unito, Amy Orben (Università di Cambridge), fornisce un’importante disamina metodologica di tutti gli studi sul tema e una serie di indicazioni per la ricerca futura. Analizzando l’ampio corpus di revisioni sistematiche, meta-analisi e studi di riferimento finora pubblicati sull’uso delle tecnologie digitali e delle reti sociali digitali da parte degli adolescenti, Orben conferma la mancanza di valide prove di effetti negativi sul benessere psicologico derivanti dall’uso dei dispositivi. In particolare, Orben evidenzia che:

  • I risultati contrastanti (effetti negativi, positivi o misti) che correlano il tempo di esposizione ai dispositivi digitali con la salute psicologica sono troppo deboli per poter essere interpretati in modo univoco.
  • Per arrivare a conclusioni valide sull’uso delle reti sociali digitali negli adolescenti è necessario distinguere gli effetti emotivi dagli effetti sociali perché possono variare in direzioni diverse, in periodi di tempo diversi e nei diversi partecipanti.
  • Lo stile di auto-presentazione sulle reti sociali digitali, oltre al loro uso attivo o passivo, deve essere incluso nelle indagini perché è un fattore che può modulare gli effetti sul benessere psicologico.

Inoltre, gli studi che evidenziano una lieve associazione negativa tra nuove tecnologie e benessere non approfondiscono la presenza di altri fattori in grado di influenzare entrambi, né risolvono la questione della bidirezionalità, secondo la quale potrebbero essere le difficoltà psicologiche preesistenti a determinare un incremento nell’uso dei dispositivi e non viceversa. Per Orben, la bassa qualità e i risultati conflittuali degli studi finora condotti richiedono che la comunità scientifica si conformi ad alcuni criteri metodologici se vuole informare in modo affidabile ed efficace la comunità generale, le istituzioni, le famiglie e gli stessi adolescenti:

  • 1) Aumentare la trasparenza sull’analisi dei dati, dal momento che la selezione degli effetti significativi e l’interpretazione di studi così complessi possono essere condizionate dalle aspettative del ricercatore.
  • 2) Esaminare in modo critico la significatività statistica di un effetto e la sua rilevanza in un determinato complesso di dati, dal momento che potrebbe corrispondere a cambiamenti non rilevabili concretamente nei comportamenti quotidiani dei soggetti studiati.
  • 3) Aggiornare gli strumenti di valutazione, in modo che non si limitino agli attuali questionari compilati dagli adolescenti o dai loro genitori ma includano anche strumenti psicometrici innovativi, tempi diversi di osservazione e il monitoraggio non intrusivo e eticamente corretto delle attività svolte effettivamente sui dispositivi.
  • 4) Includere anche i gruppi di adolescenti finora non rappresentati nelle ricerche perché appartenenti a bassi livelli socioeconomici, a diverse fasce di età e a popolazioni non nord-occidentali e rafforzare in tal modo l’identificazione degli adolescenti vulnerabili e più a rischio di effetti negativi dentro e fuori il mondo digitale.

Per poter contribuire in modo imparziale al dibattito pubblico, allo sviluppo di interventi educativi e alle politiche sociali occorrono, quindi, alla ricerca scientifica maggiore trasparenza, coerenza ed efficienza.

Dagli Stati Uniti, Candice Odgers (Università della California-Irvine) e Michaeline Jensen (Università della Carolina del Nord) hanno concentrato la loro revisione sulle meta-analisi, le indagini a larga scala e gli studi di monitoraggio dell’uso quotidiano dei dispositivi per trarre conclusioni sui rapporti tra esposizione alle nuove tecnologie e salute mentale. Le due revisioni sono complementari e ci forniscono la sintesi più esaustiva del panorama di evidenze scientifiche relative agli effetti delle tecnologie digitali sulla salute psicologica degli adolescenti.

Odgers e Jensen evidenziano come le paure legate alle nuove tecnologie siano state scatenate dalla co-occorrenza di due fattori: l’incremento di depressione, ansia e suicidi negli adolescenti e l’incremento nell’uso delle reti sociali digitali. Ma, proseguono le due ricercatrici, tra queste due tendenze – che hanno generato floride narrazioni di facile presa sulle incertezze del pubblico – non c'è alcun rapporto dimostrato e in tal modo si è fatto un cattivo servizio per la comprensione della complessità delle cause e per la prevenzione e sono state alimentate paure e allarmi solo in una direzione.

«Esiste una paura sostanzialmente esagerata delle tecnologie digitali, ma per ora non abbiamo prove che il tempo trascorso davanti a uno schermo - in totale - abbia un impatto negativo sulla maggior parte della popolazione infantile. Questa storia si adatta alle nostre paure, è una storia a cui la gente vuole credere, ma i fatti non lo supportano. Dobbiamo parlare con gli adolescenti sulla base di fatti non su paure», spiega Amy Orben a El Paìs. «I problemi d'ansia e depressione hanno iniziato ad aumentare prima dell'irruzione dei telefoni cellulari – aggiunge sempre a El Paìs Candice Odgers –  la perdita di occupazione, la crisi economica, la crisi degli oppiacei, la pressione accademica, la violenza sulle donne: tutto può contribuire a questo aumento».

Se sono stati trovati degli effetti conseguenti all’uso delle nuove tecnologie, spiegano nella loro revisione Odgers e Jensen, bisogna considerare che: a) si tratta di effetti positivi, negativi e neutri, b) gli effetti negativi osservati sono risultati lievi e tali da non tradursi in disturbi clinicamente rilevanti e non è stato indagato il ruolo di altri fattori confondenti, c) tipicamente non permettono di dimostrare un rapporto di causa-effetto, perché mostrano soltanto la coesistenza di due variabili e non il loro collegamento.

I risultati della loro revisione dimostrano che:

  • Finora sono state condotte prevalentemente indagini trasversali nelle quali i partecipanti erano informati sugli scopi della ricerca.
  • La maggior parte degli studi ha utilizzato come unica variabile il tempo di esposizione che si è ormai rivelato di scarsa utilità.
  • La maggior parte degli studi ha incluso gruppi piccoli, di alto livello socioeconomico e non rappresentativi della popolazione generale.
  • Nonostante il dibattito pubblico si concentri sugli effetti delle tecnologie digitali negli adolescenti, in realtà finora sono stati studiati per lo più bambini e adulti mentre un gruppo del tutto trascurato è quello della prima adolescenza.

Odgers e Jensen ipotizzano che il legame che è stato stabilito repentinamente tra rischio di depressione e uso dei dispositivi digitali possa essere spiegato dal fatto che il panico morale è una reazione attesa al progresso tecnologico, oppure dal giudizio negativo che ogni generazione tende a emettere su quelle successive, o infine dai limiti della comunità scientifica che non ha ancora applicato gli strumenti efficaci per misurare in modo affidabile l’impatto delle tecnologie digitali.

Per garantire che la comunità scientifica sia in grado di stare al passo con la rapida evoluzione delle nuove tecnologie digitali e dei loro potenziali collegamenti con il benessere degli adolescenti, per le autrici, è necessario considerare e approfondire i seguenti quattro aspetti:

  • Il rischio online per gli adolescenti spesso rispecchia le vulnerabilità offline. Sono necessarie ricerche future per capire a quali condizioni e per chi le tecnologie digitali creano opportunità, amplificano il rischio o né l’una né l’altro.
  • Il tempo sullo schermo non è più un costrutto utile, nonostante sia ancora dominante nella ricerca e nel dibattito pubblico. È necessario spostare l’attenzione sui modi in cui gli adolescenti interagiscono con le tecnologie digitali nella loro vita quotidiana.
  • Le tecnologie digitali offrono nuove opportunità di supporto, soprattutto agli adolescenti più vulnerabili. Un tema trascurato dalla ricerca riguarda le modalità attraverso le quali le nuove tecnologie possono promuovere le interazioni sociali e supportare la salute mentale degli adolescenti.
  • La rapida adozione delle nuove tecnologie digitali può amplificare le disparità esistenti nella salute e nel benessere degli adolescenti. Sono necessarie ricerche, politiche e interventi orientati a equità e inclusione affinché si riduca il "nuovo" divario digitale manifestato dalle diverse opportunità di accesso alle esperienze sia online che offline: la preoccupazione è che la segregazione sociale sia replicata online se non si forniscono adeguati supporti e interventi educativi.

Le domande a cui deve rispondere la ricerca scientifica sono molte e complesse prima di avere una visione completa dell’impatto delle nuove tecnologie nell’immediato e nel lungo termine.

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Allo stato attuale, per Odgers, una volta separati i fatti dalle paure, ci sono pochi collegamenti convincenti tra l'uso della tecnologia digitale e la salute mentale degli adolescenti. È necessario davvero un grande sforzo collettivo per cambiare la modalità di comunicazione dei risultati scientifici se si vuole che l’informazione alle famiglie, la formazione degli insegnanti, le politiche educative e sociali, la destinazione di risorse sanitarie pubbliche siano fondate sui fatti e non sulle paure irrazionali relative all’impatto delle tecnologie digitali sulla vita degli adolescenti.

Nel frattempo, è importante tralasciare la via infruttuosa dei divieti e della sorveglianza intrusiva e prendere parte alle attività online di ragazze e ragazzi, informandosi, condividendone alcune, fornendo indicazioni e supervisione quando necessarie, seguendo, in fondo quei principi alla base della crescita sana dei propri figli/alunni/studenti/assistiti che sono gli stessi sia online che offline. «Dobbiamo reagire al panico dei media su tecnologie come le reti sociali digitali sottolineando quanto sia diverso e vario l'uso del digitale. Utilizziamo le nuove tecnologie quotidianamente per molte cose diverse e in molte situazioni diverse», dice a Valigia Blu Amy Orben. «Trattando l'uso dei dispositivi digitali come concetto generale - una cosa che può essere misurata e ha conseguenze misurabili - stiamo semplificando eccessivamente questa diversità. Per capire davvero gli effetti della tecnologia digitale, dovremo concentrarci sulle specificità degli usi e degli utenti nella vita quotidiana».

Immagine in anteprima via pixabay.com

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