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Un club privato o una piazza virtuale? Cosa è esattamente Facebook

28 Dicembre 2019 8 min lettura

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Un club privato o una piazza virtuale? Cosa è esattamente Facebook

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di Vitalba Azzollini

Qualche giorno fa, il Tribunale di Roma (ordinanza n. 59264/2019) ha accolto il ricorso presentato da CasaPound per la disattivazione da parte di Facebook della sua pagina ufficiale. Secondo il gestore della piattaforma, l’organizzazione aveva violato delle regole d’uso sul divieto di incitamento all’odio, ma il giudice ha ordinato di riattivare la pagina, reputando che per «il rilievo preminente assunto dal servizio di Facebook (o di altri social network ad esso collegati) con riferimento all’attuazione di principi cardine essenziali dell’ordinamento come quello del pluralismo dei partiti politici (…) il soggetto che non è presente su Facebook è di fatto escluso (o fortemente limitato) dal dibattito politico italiano». Facebook ha deciso di fare ricorso contro questa decisione. Si legge in una nota ufficiale: “Non vogliamo che le persone o i gruppi che diffondono odio o attaccano gli altri sulla base di chi sono utilizzino i nostri servizi, non importa di chi si tratti. Per questo motivo abbiamo una policy sulle persone e sulle organizzazioni pericolose che vieta a coloro che sono impegnati in “odio organizzato" di utilizzare i nostri servizi. Partiti politici e candidati, così come tutti gli individui e le organizzazioni presenti su Facebook e Instagram, devono rispettare queste regole, indipendentemente dalla loro ideologia. Ci sono prove concrete che CasaPound sia stata impegnata in odio organizzato e che abbia ripetutamente violato le nostre regole. Per questo motivo abbiamo presentato reclamo contro l’ordinanza del Tribunale di Roma".

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Non si entrerà nel merito della decisione, che potrebbe essere ribaltata nel corso del giudizio, trattandosi di un provvedimento cautelare. Tuttavia, la vicenda merita di essere affrontata per altri profili, considerato il dibattito che ha sollevato. Alcuni hanno parlato di indebita ingerenza della magistratura in una libera attività economica, arrivando a rappresentare Facebook come un club privato, il cui proprietario può ammettere ed estromettere chi gli pare per i più svariati motivi; o a configurare un diritto del gestore del social di escludere chi ne abbia violato le regole d’uso senza che il giudice possa sindacare. Le cose non stanno esattamente in questo modo, come si proverà a spiegare.

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Serve innanzitutto premettere che il social network è un servizio Internet di rete sociale (social network service), svolto su una piattaforma, finalizzato a consentire ai fruitori la gestione dei rapporti sociali e la condivisione di materiale testuale e multimediale. I servizi di questo tipo permettono agli utenti di creare uno spazio personale, denominato “profilo”, di riempirlo di contenuti memorizzati sul server, di organizzare un elenco di contatti, di realizzare rapporti interattivi, anche grazie ai suggerimenti da parte del social, e molto altro.

Ma i social non servono solo a questo: «Tutti noi possiamo pienamente fruire della “ricchezza della rete” solamente grazie al ruolo di intermediazione svolta da alcune piattaforme, come Google e Facebook. (…) Essi trovano l’informazione e rendono accessibile quella che è ritenuta più utile per il singolo utente», scriveva l'allora presidente dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato, Giovanni Pitruzzella.

Esistono diversi tipi di provider che offrono servizi Internet (Internet service provider, ISP): "Content provider (fornitore di contenuti, autore quindi anche dei contenuti pubblicati sui propri server), network provider (fornitore di accesso alla rete attraverso la dorsale internet), access provider (offre alla clientela l'accesso ad internet attraverso modem o connessioni dedicate), host provider (fornisce ospitalità a siti internet), service provider (fornisce servizi per Internet, come accessi o telefonia mobile) e cache provider (immagazzina dati provenienti dall'esterno in un'area di allocazione temporanea, la cache, al fine di accelerare la navigazione in rete). Qualsiasi attività venga posta in essere sulla Rete, passa sempre attraverso l'intermediazione di un provider".

La direttiva europea sul commercio elettronico 2000/31/CE (recepita in Italia con d.lgs. n. 70/2003) prende in considerazione tre categorie di Internet Service Provider e ne definisce la responsabilità, qualora per il loro tramite sia commesso un illecito: i prestatori di servizi di semplice trasporto (attività di mere conduit); i prestatori di servizi di memorizzazione temporanea (attività di caching); i prestatori di servizi che memorizzano durevolmente le informazioni fornite dagli utenti (attività di hosting).

La citata direttiva, «garantendo la libera circolazione dei servizi della società dell'informazione» esenta questi ISP da responsabilità per le informazioni trattate e le operazioni compiute da parte di chi fruisce del servizio, a condizione che essi non intervengano sul contenuto o sullo svolgimento delle stesse operazioni. Dunque, il presupposto per l’esenzione da responsabilità dei tre tipi di intermediari è che essi «mantengano una posizione neutrale e passiva rispetto ai contenuti caricati online dagli utenti (…). In virtù di questa posizione di neutralità, per (…) contenuti user-generated, essi non sono gravati da responsabilità derivanti da questi ultimi». Conseguentemente, ai sensi della direttiva, gli ISP non hanno obblighi di sorveglianza sulle informazioni trasmesse o memorizzate, né di ricerca di attività illecite: questa neutralità, evitando che essi siano gravati dai costi derivanti da una onerosa vigilanza sui contenuti veicolati, garantisce la loro libertà di impresa ex art.16 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea.

L’ISP, tuttavia, ha l’obbligo di informare senza indugio l’autorità giudiziaria o quella amministrativa qualora venga a conoscenza di presunte attività o informazioni illecite riguardanti un utente; nonché di fornire senza indugio, a richiesta delle autorità, informazioni in suo possesso che consentano l’identificazione dell’utente stesso; ed è responsabile dei contenuti pubblicati solo nel caso in cui, richiesto dall’autorità, non abbia agito prontamente per impedire l’accesso a tali contenuti ovvero se, avendo avuto conoscenza del loro carattere illecito o pregiudizievole per un terzo, non abbia informato l’autorità competente.

Detto questo, occorre chiarire meglio come un social network qual è Facebook possa definirsi “prestatore di servizi della società dell’informazione”, ai sensi della menzionata direttiva. Al riguardo, sono state formulate diverse opinioni, prendendo in considerazione soprattutto la relazione fra lo stesso social network e l’utente: quella prevalente in dottrina e giurisprudenza (anche da ultimo) è che Facebook, ospitando e memorizzando in modo duraturo le informazioni degli utenti, sia un ISP che svolge un’attività di hosting con una connotazione particolare.

Infatti, l’Internet service di questo tipo di provider – come detto, consentire la fruizione della piattaforma mediante la creazione di un proprio profilo, la pubblicazione di sequenze di aggiornamenti, la visione di quelli altrui ecc. – viene reso all’utente in cambio dell’utilizzo da parte del provider, per i fini commerciali, delle informazioni che l’utente stesso gli fornisce (previa autorizzazione, talora data senza la debita attenzione). Ciò si evince dalla Dichiarazione dei diritti e delle responsabilità di Facebook: l’art. 10 (“Informazioni sulla pubblicità e altri contenuti commerciali pubblicati o supportati da Facebook”) chiarisce che l’obiettivo del social consiste nel fornire agli utenti pubblicità, nonché altri contenuti commerciali, e che ciò avviene previa autorizzazione da parte di questi ultimi al gestore circa l’utilizzo del proprio nome, della propria immagine del profilo e di altre informazioni per scopi commerciali, senza alcun compenso.

In altri termini, il “prezzo” del servizio offerto da Facebook ai suoi fruitori è rappresentato dai dati del loro profilo, utilizzabili dal gestore del social ai fini del cosiddetto user data profiting. Pertanto, non è corretto parlare né di gratuità dell’Internet service di Facebook né di gratuità della cessione delle informazioni da parte dell’utente del social network.

Anche la neutralità dell’ISP Facebook rispetto a quanto pubblicato sui profili risulta dalla menzionata Dichiarazione dei diritti (art. 16, c. 3): Facebook si solleva espressamente dall’addebito di ogni tipo di responsabilità per le azioni, i contenuti, le informazioni ecc. di terze parti e «da qualsiasi reclamo o danno, noto o sconosciuto» derivante dall’utilizzo del social, nonché da «eventuali lamentele indirizzate contro le suddette terze parti».

Tuttavia, gli ISP hanno regole d’uso che gli utenti si impegnano a rispettare, rafforzate a seguito dell’adesione di alcuni gestori di piattaforme – tra cui Facebook - a codici di autoregolamentazione, al fine di arginare fenomeni di hate speech e fake news. Al riguardo, essi hanno pure predisposto meccanismi di segnalazione di messaggi lesivi, in relazione a cui possono arrivare alla rimozione di contenuti e di account - così come avvenuto nel caso da cui si sono prese le mosse, e anche già in passato - con possibilità degli utenti di fareappello”.

Tuttavia, come spiegato, poiché Facebook non è un club privato, ma un provider neutrale di un servizio di hosting, qualora elimini contenuti reputando che violino le condizioni d’uso, potrà essere chiamato a risponderne per aver limitato indebitamente la libertà di espressione di chi, invece, ritenga di non aver violato alcuna regola.

È la stessa direttiva e-commerce, più volte citata, a porre in rilievo la necessità di valorizzare la libertà di espressione, là dove afferma (considerando 46) che «la rimozione delle informazioni o la disabilitazione dell'accesso alle medesime» da parte del prestatore di un servizio della società dell'informazione deve essere effettuata «nel rispetto del principio della libertà di espressione e delle procedure all'uopo previste a livello nazionale». Nello stesso senso si esprime la Raccomandazione CM/Rec (2014)6 del Comitato dei Ministri (Guida dei diritti umani per gli utenti di Internet) - la quale rileva che i social network possono decidere «di eliminare dei contenuti creati e messi a disposizione da parte degli utenti del web» o di «disattivare i conti dell’utente (ad esempio, il suo profilo o la sua presenza nei social network) giustificando la loro decisione con il mancato rispetto dei termini e condizioni generali di utilizzo dei loro servizi»: tuttavia, tali misure potrebbero «costituire un’ingerenza nel diritto alla libertà di espressione e nel diritto di ricevere e di comunicare delle informazioni».

Inoltre, la circostanza che Facebook sia una piazza virtuale messa a disposizione degli utenti è stata sostenuta dalla Suprema Corte americana (v. Packingham v. North Carolina), la quale ha affermato che i social media oggi consentono agli utenti di accedere alle informazioni e di comunicare tra loro su qualsiasi argomento, rappresentando le fonti mediante cui molti hanno conoscenza dell’attualità, controllano annunci di lavoro, parlano e ascoltano in una «moderna piazza pubblica».

Sempre rispetto alla rimozione di pagine online di hate speech, David Kaye, Special Rapporteur ONU per la libertà di espressione, ha affermato che non deve essere rimosso ciò che non piace, bensì ciò che può danneggiare i diritti umani, la democrazia o l’incolumità dei cittadini, sia online che offline, in modo tale da attuare leggi che mirino a proteggere la libertà di parola e non a limitarla.

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A quanto fin qui detto si aggiunga che reputare che il gestore di una piattaforma social come Facebook possa decidere "cosa dobbiamo leggere", plasmando così la nostra visione del mondo, pare una pessima idea, e non solo perché la verifica dei contenuti da rimuovere è spesso svolta in modo automatico o approssimativa, quindi poco affidabile; ma anche perché ciò rappresenterebbe «una vera e propria delega di funzioni statali» alle aziende tecnologiche. E, in mancanza di definizioni certe delle categorie di contenuti da cancellare, ne potrebbe derivare una compressione dei diritti degli utenti.

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In conclusione, dal dibattito sorto a seguito dell’ordinanza del Tribunale di Roma su Facebook - e in attesa di una pronuncia nel merito, nonché di una qualche attenzione del legislatore verso la nuova fisionomia che gli hosting provider hanno ormai assunto – può trarsi una morale: scarsa è la generale conoscenza della configurazione giuridica di piattaforme di social network, nonostante molte persone le usino ogni giorno e, al contempo, inadeguato è ricorrere a categorie classiche del diritto per inquadrare realtà nuove e in continua evoluzione.

Immagine Gerd Altmann via Pixabay

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