I troll russi sono riusciti a “convincere” i media, ma non l’elettorato
6 min letturaSappiamo che negli ultimi anni agenti russi hanno usato i social media per cercare di influenzare la politica di altri paesi, soprattutto negli Stati Uniti, con campagne di propaganda divisiva e radicale.
Molti giornalisti e commentatori politici danno per scontato che questa interferenza sia alla base della vittoria di Donald Trump negli USA, o della Brexit in Gran Bretagna, ma è realmente così? In realtà no, non esiste nessuna prova a sostegno del fatto che la propaganda online, spesso fatta di notizie false e messaggi faziosi, sia la causa di un cambiamento dell’opinione pubblica verso idee più radicali.
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Esistono semmai studi che ci dicono il contrario. Uno di questi è stato recentemente pubblicato dai ricercatori della Duke University (Christopher A. Bail, Brian Guay, Emily Maloney, Aidan Combs, D. Sunshine Hillygus, Friedolin Merhout, Deen Freelon e Alexander Volfovsky): è la prima volta che si misura direttamente come i tweet della propaganda russa abbiano influenzato le posizioni politiche degli americani esposti a questo tipo di propaganda.
La domanda che si fanno i ricercatori è se la disinformazione russa su Twitter sia riuscita a cambiare le idee politiche dei cittadini. La risposta è: no. Coloro che interagiscono con questo tipo di contenuti sono per la maggior parte persone che hanno già interiorizzato quelle idee e quei messaggi.
I ricercatori hanno sottoposto un campione americano di utenti attivi su Twitter, di differente posizionamento partitico, a un’intervista sulle proprie convinzioni politiche nell’ottobre del 2017. Hanno poi fatto loro le stesse domande dopo un mese. Successivamente hanno controllato quali di questi utenti avevano interagito in quel periodo con account controllati dall’agenzia russa Internet Research Agency (IRA), la celebre "troll farm" immortalata per la prima volta nel 2015 da Adrian Chen in un ritratto sul New York Times Magazine. Hanno fatto due scoperte significative: coloro che erano entrati in contatto con quei tweet non avevano cambiato le proprie idee politiche e, in secondo luogo, non c’era stata neanche una variazione significativa nel loro grado di partecipazione, faziosità o rabbia politica.
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Questo studio è stato possibile solamente perché i ricercatori avevano già intervistato queste persone all’epoca, per altre ragioni, e quando Twitter l’anno scorso ha pubblicato un archivio interno che raccoglieva tutte operazioni di propaganda straniera sulla piattaforma è stato possibile incrociare questi dati con le informazioni raccolte durante le interviste.
Perché è importante lo studio della Duke University
Si è scritto tanto sulle dimensioni, il pubblico e le tattiche dei bot e dei troll russi che hanno cercato di interferire nella politica statunitense. Purtroppo però si è sempre dato per scontato, almeno a livello mediatico, l’impatto che questa propaganda avrebbe avuto in termini elettorali, senza che nessuna ricerca sostenesse questa convinzione.
Nello studio della Duke University emergono altri aspetti interessanti. Solo 44 utenti su un campione di 1.106 persone hanno interagito attivamente con gli account russi riconducibili all’IRA. E se 44 su 1106 è di per sé una cifra ridicola, è utile specificare che questo conteggio include anche coloro che hanno interagito solamente una volta e non necessariamente in termini di adesione.
Dovrebbe essere logico comprendere che l’esposizione limitata a delle idee politiche radicali non è di per sé sufficiente a cambiare le convinzioni politiche di una persona. Dovrebbe essere logico, ma evidentemente non lo è. Ecco perché è importante dimostrarlo, ed ecco perché il lavoro dei ricercatori della Duke University acquista valore, specialmente dopo anni di confusione e disinformazione sul reale impatto di troll e bot russi.
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Sui media occidentali si è fatta spazio negli ultimi anni la narrazione di un piano orchestrato dallo Stato russo per destabilizzare le democrazie occidentali e una sorta di chiamata alle armi contro i social network. La vittoria della propaganda russa, per certi versi, sta proprio nell'aver fatto credere di essere in grado di alterare il risultato delle elezioni con una campagna sui social, ma non è così. Chi cerca spiegazioni a quello che è successo in America, o in altri paesi, non dovrebbe cedere alla tentazione di attribuire ai russi un potere che non hanno.
Intervistato da Valigia Blu nel 2017, il giornalista investigativo russo Andrei Soldatov, autore del libro "The Red Web: The Kremlin's Wars on the Internet" e cofondatore e direttore di Agentura.ru, sito che monitora le attività dei servizi segreti russi, commentava la situazione in questo modo: «Sai, è sempre meglio avere un nemico comune, che sia un paese (la Russia in questi giorni) o una tecnologia (i social media con i loro meccanismi non trasparenti di promozione e distribuzione delle notizie e dei post). Credo che ogni caso dovrebbe essere studiato con molta attenzione e bisognerebbe distinguere tra i tentativi documentati di influenzare i risultati elettorali e l'impatto che questi hanno realmente avuto».
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Le persone che sono più propense a interagire con queste campagne di propaganda politica online sono anche le persone che meno sono soggette a farsi influenzare da tali contenuti, per una semplice ragione: condividono già quelle stesse idee radicali. Il meccanismo che più spesso è stato rilevato, infatti, è quello dell'adesione all’interno di una bolla di filtraggio.
Dalla ricerca emerge che le persone che hanno interagito con questi account sono quelle che già seguivano quasi solamente account allineati con la propria visione politica, per cui appartenevano già anteriormente a una bolla di filtraggio. La forza di queste campagne di disinformazione risiede dunque in un target che è già allineato con quelle convinzioni, idee e valori. Tutto questo fa pensare che l’impatto di queste operazioni di disinformazione e interferenza politica sia limitato al numero di like, retweet e commenti, ma che non si traduca in una reale “influenza” politica.
I media e la narrazione falsata sull'influenza elettorale dei russi
Questo non vuol dire che queste campagne non abbiano nessun effetto: come abbiamo scritto sopra, il semplice fatto che sui media occidentali si sia diffusa la narrazione distorta su un’interferenza russa capace di decidere le sorti di intere nazioni è una vittoria per la Russia. Ma se guardiamo agli effetti elettorali, che preoccupano media e opinione pubblica, questo studio ci fa capire che la campagna di propaganda su Twitter dell’IRA non è stata capace in alcun modo di influenzare l’ago della bilancia elettorale.
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Dobbiamo anche ricordarci che gli utenti attivi sui social network non corrispondono all’intero elettorato americano: è un target ristretto. E la televisione, negli Stati Uniti come in Italia, continua ad essere il canale più efficace sia per la propaganda politica che per l’agenda setting delle conversazioni online.
In un articolo sui risultati della ricerca, Will Oremus ha intervistato anche Andy Guess, assistant professor della Princeton University, studioso di disinformazione e social media. Guess considera molto importante il lavoro dei colleghi della Duke University: “Questa è la migliore evidenza finora sull’impatto delle interazioni con gli account dell’IRA su Twitter. Dato che le persone che sono più propense a interagire con questi account erano già parte di una rete di account politicamente omogenea ed erano già interessanti principalmente alla politica, è normale che i ricercatori non siano riusciti a documentare effetti significativi sul loro comportamento politico”.
Guess fa notare anche che uno studio che lui stesso ha condotto assieme ad altri colleghi (Andrew Guess della Princeton University, Brendan Nyhan del Dartmouth College e Jason Reifler della University of Exeter) ha tratto simili conclusioni riguardo l’impatto delle “fake news” su Facebook.
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Tutti gli studi condotti fino a oggi dimostrano infatti che le persone, quando viene data loro la possibilità, hanno la tendenza a preferire informazioni che confermino le proprie convinzioni e aderiscano ai propri valori. Questa tendenza è stata riscontrata anche nel consumo di notizie false e la ricerca di Guess, Nyhan e Reifler conferma che l’esposizione alle notizie false è in larga misura selettiva.
Lo studio della Duke University è certamente ristretto a un solo social network (Twitter), uno specifico gruppo di account russi, un paese in particolare (gli Stati Uniti). Ci auguriamo che la ricerca su questi fenomeni continui e che trovi sempre più spazio sui media.