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Il femminicidio di Elisa Pomarelli: quando i media oltraggiano la vittima

9 Settembre 2019 8 min lettura

Il femminicidio di Elisa Pomarelli: quando i media oltraggiano la vittima

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Una particolare forma di vilipendio di cadavere cui purtroppo tocca periodicamente assistere è quella che alcuni media riservano ai casi di femminicidio. Meglio ancora se accompagnata con l'apologia dell'imputato o del reo confesso, e tutta una serie di aggettivazioni e attribuzioni tese a riconoscergli delle attenuanti che, se inesistenti in fase processuale, di sicuro funzionano sul piano culturale agli occhi dell'opinione pubblica.

È il caso dell'omicidio di Elisa Pomarelli, per il quale è stato arrestato Massimo Sebastiani, 45enne che ha confessato l'omicidio (si ipotizza lo strangolamento) e l'occultamento del cadavere, dopo essersi nascosto per circa 15 giorni, circostanza per cui il padre di una sua ex compagna è stato indagato e arrestato con l'accusa di favoreggiamento - avrebbe aiutato Sebastiani a nascondersi. Un delitto che si inserisce in un quadro di atteggiamenti ossessivi e persecutori, quell'attrito pericoloso tra attenzioni insistenti e incapacità di accettare rifiuti, con l'uomo che continuava a considerare la vittima come propria fidanzata, a dispetto di resistenze e dinieghi, fino alla decisione di uccidere e poi di nascondere il cadavere. Come ricostruito sul Corriere da Martina Pennisi ed Elena Tebano, secondo un'amica la vittima era lesbica, perciò il quadro di pressioni, insistenze e persecuzioni maturato nel femminicidio avrebbe anche una componente omofoba.

Nella giornata di ieri, tuttavia, su Twitter e Facebook in molti hanno lamentato la pessima copertura della vicenda.

A leggere in effetti molti dei resoconti, il quadro che emerge ci consegna una storia diversa, con gli elementi di cronaca che svaniscono in una nube mistificatoria e morbosa, se non peggio. Molte testate hanno deciso di pubblicare una foto della vittima insieme a Sebastiani, rafforzando così l'idea che i due fossero una coppia. Senza contare che forse la vittima, pur non avendo per forza di cose voce in capitolo, difficilmente vorrebbe essere raffigurata insieme a chi l'ha uccisa.

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Venendo poi alla copertura vera e propria, l'Agi, parla esplicitamente di «improvviso scatto d'ira» e «raptus», secondo una tipica stereotipizzazione che entra in ballo nella copertura di questi casi. Stesso refrain per Fanpage e su Open, dove veniamo informati da subito di come Sebastiani sia «pentito e collaborativo fin dai primi momenti della cattura» - e parliamo di un accusato che si è nascosto per due settimane dopo aver occultato il cadavere. Il Messaggero invece titola: «Scomparsi Piacenza, le lacrime di Sebastiani dopo l'arresto: "L'ho uccisa, ma l'amavo"». Il focus è sul dramma che vive l'accusato, che piangente confessa il suo amore, oltre al delitto, come se quel sentimento fosse un'attenuante. L'articolo sposa la teoria del «gesto d'impeto» senza spiegare perché - quando in realtà, come vedremo poi, gli inquirenti non escludono l'ipotesi della premeditazione.

Prendiamo poi Repubblica con l'articolo dell'inviato Valerio Varesi. Già il titolo - «Un'ossessione per Elisa, Sebastiani confessa l'omicidio e piange: "Ho fatto una stupidaggine"» - presenta tre elementi attenuanti. Il primo è "l'ossessione", perché chi è ossessionato non è padrone di sé, e nell'evidenziarlo il titolista prepara il terreno per l'idea di «raptus». Il secondo è - ancora - il particolare delle lacrime, a suggerire pentimento e senso di colpa, e quindi sollecitare empatia nel lettore per chi è sul banco degli imputati. Il terzo è il virgolettato sulla «stupidaggine», come a dire che un omicidio con occultamento di cadavere e due settimane di fuga sia una ragazzata che, insomma, può capitare quando si è troppo presi da una ragazza. Che Sebastiani possa dire e pensare una cosa del genere è un conto; darne rilevanza nella titolazione è invece una precisa scelta editoriale che ci fa entrare nella storia attraverso la prospettiva dell'omicida, il suo sistema di valori e di giustificazioni.

Questa cornice è rafforzata dai dettagli nell'articolo: l'insistenza sulle parole che non vengono, strozzate in gola, come per una tragedia da «uomo semplice», che persino si «impappina». Addirittura quando leggiamo «un uomo che tutti descrivono molto istintivo, uno un po’ selvaggio, capace di arrampicarsi sugli alberi e di correre a piedi nudi nella ghiaia» l'impressione è che si stia parlando del buon selvaggio privo di un'adeguata educazione sentimentale. Scrive poi Varesi:

Tra i due forse un equivoco e un gioco alla fine pericoloso. Lui diceva che era la sua fidanzata, ma lei precisava sempre che il legame era solo di amicizia E forse è proprio in questo scarto d’intenti che è maturato il delitto. (...) Lui insisteva, la incalzava e ogni volta lei precisava il confine entro il quale doveva stare la relazione. Un confine che forse alla lunga è risultato frustrante per Sebastiani, un uomo che tutti descrivono molto istintivo, uno un po’ selvaggio, capace di arrampicarsi sugli alberi e di correre a piedi nudi nella ghiaia. Una persona di animo semplice che forse non ha saputo elaborare un legame che avrebbe voluto essere molto diverso da quella amicizia che prescindeva da un rapporto più intimo.

Non si capisce quale sarebbe il gioco (a meno che non si sia applicato lo stereotipo dell'amore che non è bello se non è litigarello!), ma quello che è soltanto ipotizzato («forse... forse»), senza che si esplicitino i presupposti, implica una situazione paritaria, dove «l'amore morboso» è legittimato dai comportamenti della vittima, finché il legame non è spezzato dall'uccisione per eccesso di frustrazione. Ma quando in un articolo di cronaca le affermazioni sono puntellate da forme dubitative, l'elemento certo è che chi scrive non ha davvero idea di cosa sia successo, e quindi preferisce retrocedere da un piano assertivo o descrittivo a uno allusivo. E naturalmente il movente del femminicidio è quello «passionale»: sconfessando così tutto il lavoro fatto in questi anni nel divulgare un concetto basilare, ossia che si tratta di crimini d'odio, non di eccessivo amore. Da notare, infine, che non è minimamente menzionata la modalità d'uccisione, nemmeno come ipotesi.

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Anche Il Giornale sceglie di inquadrare il delitto attraverso l'empatia per l'accusato, titolando «Quel gigante buono e quell'amore non corrisposto». Non è doloroso amare e non essere corrisposti? Non è successo almeno una volta nella vita anche a voi, a prescindere dalla vostra statura e dal vostro animo? Qui però stiamo parlando di un omicidio: perché è necessario creare immedesimazione con l'omicida ancora prima di sapere cos'è successo? Inoltre dare l'immagine di un gigante buono neutralizza gli aspetti contestuali di sopraffazione fisica, sia nella dinamica del delitto sia nello storico di paura che può provare una ragazza che riceve attenzioni morbose da un uomo più grande d'età e molto più forte fisicamente. Anche il legame tra i due è descritto in modo favolistico, contraddicendo il virgolettato attribuito alla criminologa Roberta Buzzone («Fa specie pensare che un essere umano potesse vivere in condizioni così indicibili. È la casa di uno schizofrenico, di uno che può fare qualunque cosa»), e lo stesso occhiello («Il sospetto del pm: "Non un delitto d'impeto, ma un piano criminale organizzato"»):

Ma a lei, a Elisa, Massimo aveva fatto vedere solo la sua faccia illuminata dal sole. Lei si era affezionata a quell'uomo con 18 anni più di lei, le mani come badili e il sorriso sempre pronto. Ne era nata una storia al confine dei sentimenti, dove era chiaro a tutti che lui era innamorato di lei, ma altrettanto chiaro che lei non ricambiava. Chiaro a tutti, tranne che a lui.

Si dà poi spazio, attraverso le anonime voci degli amici dell'accusato, all'esplicita colpevolizzazione della vittima:

Dall'altro fronte, dai pochi amici e familiari di Massimo, si ribatte: se Elisa non lo amava perché continuava a uscire con lui, ad andarci in vacanza, insomma a illuderlo? Come se fosse un crimine avere solidarietà e affetto per un uomo senza pensare di volerci fare una famiglia e neppure avere una storia. «Fisicamente gli faceva senso», dice la sorella. Ma Elisa è andata oltre la repulsione fisica, ha voluto stare accanto a quell'uomo brutto ma buono, con la passione come lei per i boschi e per la natura.

L'ultimo passaggio è davvero odioso perché inquadra il fatto di cronaca nera in una strana versione di La bella e la bestia, con la bella che rifiuta di redimere la bestia, trasformandola in un principe. Ma in una storia, quando un eroe rifiuta la chiamata all'impresa, noi sappiamo che conoscerà una punizione, un peggioramento della sua situazione di partenza. Quindi questo modello, applicato al caso specifico, ha l'effetto di farci apparire l'uccisione di Elisa Pomarelli come la naturale e ineluttabile conseguenza del suo rifiuto: non più eventi, ma archetipi. Con un simile lavoro di mistificazione, appare una totale incongruenza - o un tratto dissociativo - che in chiusura si riprenda l'ipotesi della premeditazione.

Nel dare conto del ritrovamento del corpo e dell'arresto di Sebastiani, SkyTg relativizza la situazione tra vittima e assassino («Questa coppia di amici, o almeno amici per Elisa Pomarelli, perché Massimo Sebastiani era molto innamorato della ragazza»), dandoci l'idea di uno che si era stancato di stare nella friendzone. «Ha pianto?»: nel servizio del Tg2 è questa la prima domanda che l'inviato rivolge al colonnello dei carabinieri Michele Piras, dopo che questi ci ha parlato di un reo confesso «molto scosso, per un gesto che lui riconduce a un raptus, per l'amore che comunque lui aveva nei confronti di questa ragazza». Va sottolineata la superficialità nel parlare di «amore» in casi del genere, mescolando dietro una parola di per sé positiva, nobile, dinamiche relazionali che vedono in primo piano - casomai - desiderio di possesso, oggettificazione della vittima, bisogno di controllo, sopraffazione. Si propugna così l'idea che lo spettro di emozioni e comportamenti attorno al concetto di amore copra anche i risvolti più psicopatologici o violenti.

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Come scritto su Facebook dalla giornalista Alessandra Pigliaru, Elisa Pomarelli «è stata uccisa da un uomo che non accettava di essere rifiutato sessualmente»: di fronte a questa verità, sapere di Sebastiani «che lavoro facesse o quanto tremasse durante l'interrogatorio o quanto fosse alto e assimilabile a un gigante è del tutto irrilevante insieme alle pseudogiustificazioni tra Libro cuore e Incompreso». Ma ogni volta che accadono casi del genere, e purtroppo le statistiche ci dicono che non dovremmo attendere molto, un certo tipo di morbosa copertura giornalistica, lo scoramento, la rabbia che producono, fanno ormai pensare che il problema non sia tanto in un deficit di competenze professionali. Più dei corsi di aggiornamento, delle linee guida e dei workshop sulla copertura giornalistica, viene da chiedersi se non sia il caso di lavorare direttamente su una pedagogia delle relazioni, sul sincerarsi che chi deve trattare i femminicidi sappia dare una definizione chiara di amore, odio, possessività, gelosia, violenza; perché è macrocoscopica l'impressione che manchi una grammatica emotiva di fondo.

Immagine via gaypost.it

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