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Uccisi, picchiati, censurati: fare giornalismo ambientale sta diventando sempre più pericoloso

9 Luglio 2019 13 min lettura

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Uccisi, picchiati, censurati: fare giornalismo ambientale sta diventando sempre più pericoloso

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Il 13 novembre 2008, il giornalista russo Mikhail Beketov, caporedattore del giornale locale Khimkinskaya Pravda, viene fermato da due uomini sull'uscio di casa. Con una sbarra di ferro gli fracassano le mani e le gambe e gli fratturano il cranio. In seguito all'attacco Beketov rimane paralizzato, senza 4 dita, la gamba destra amputata, con danni al cervello che gli impediscono di parlare. Morirà nel 2013 per un attacco cardiaco.

L'8 novembre del 2010, Oleg Kashin, giornalista del Kommersant, viene aggredito da due uomini, armati di una mazza metallica. Gli rompono le gambe, le braccia e la mandibola, infieriscono sulla sua mano destra con la quale il giornalista scriveva. Dopo una settimana in coma, Kashin riesce a riprendersi dalle violenze subite e ora scrive per testate russe e straniere, tra cui il Guardian, e si batte per la libertà della stampa russa.

Pochi giorni prima dell'attacco a Kashin, era toccato ad Anatoly Adamchuk, reporter del giornale locale Zhukovskie Vesti, essere fermato e picchiato anche lui da due uomini. Adamchuk viene addirittura accusato di aver pagato mille rubli i suoi assalitori e di organizzato il proprio pestaggio.

Gli attacchi a Beketov, Kashin e Adamchuck sono legati tutti dallo stesso filo rosso. I tre giornalisti si stavano occupando degli impatti ambientali derivanti dalla costruzione di un'autostrada da Mosca a San Pietroburgo che avrebbe permesso di velocizzare il trasporto di merci da una capitale all'altra.

L'idea di costruire la nuova autostrada era stata discussa la prima volta dal ministero dei Trasporti nel 2004. Il percorso prevedeva di tagliare in due il Khimki Forest Park, una foresta di querce secolari, abitata da alci e tantissime specie diverse di uccelli, ritenuta dagli ecologisti un ecosistema unico vicino Mosca. Se realizzata, spiegavano gli esperti, l'autostrada avrebbe potuto danneggiare irrimediabilmente un sito speciale di interesse scientifico: la palude mesotrofica di mirtilli e l'alveo del fiume Klyazma. Dal 2004, però, spiega la giornalista ambientale Yevgenia Chirikova, il progetto viene portato avanti nella più grande segretezza, fino al 2006, quando l'allora sindaco di Khimki, Victor Strelchenko, svela il percorso definitivo, scelto tra 3 alternative possibile, senza aver coinvolto la cittadinanza: era quello più impattante da un punto di vista ambientale.

Beketov e Kashin iniziano a scrivere articoli che criticano la distruzione della foresta di Khimki, cercano di svelare gli interessi pubblici e privati dietro la realizzazione dell'autostrada e accusano di corruzione i funzionari locali. Adamchuck si occupa delle proteste degli ambientalisti e, contestualmente, inizia ad approfondire anche il caso della foresta di Djukovskiy, un altro bosco nei pressi di Mosca che si pensava di abbattere. Fino a quando la loro voce non viene messa a tacere – nel caso di Kashin e Adamchuk solo temporaneamente – dagli attacchi di ignoti assalitori.

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via CPJ

Si pensa che i giornalisti ambientali si occupino di notizie "leggere" sulla natura, che scrivano di delfini, orsi polari, uccelli, alberi o cerchino al massimo di destare l'attenzione dell'opinione pubblica sull'emergenza del cambiamento climatico. Un lavoro privo di rischi, insomma, e che non mette a repentaglio la propria vita.

Ma, come mostrano le storie di Beketov, Kashin e Adamchuck, così non è. Perché, spesso, chi si occupa di giornalismo ambientale fa inchieste sul campo, per raccontare storie che parlano di politiche energetiche, sviluppo industriale e rurale, rendite fondiarie, inquinamento e consumo di suolo, e hanno a che fare con intrecci di potere e di conflitti tra interessi privati e diritti delle comunità locali.

Per capire cosa fanno i giornalisti ambientali e cosa li mette in difficoltà, spiega il giornalista investigativo Marc Shapiro sul Guardian, c'è un termine proveniente dalle scienze naturali: la "cascata trofica". Ad esempio, "l'aumento delle temperature crea le condizioni per la nascita di nuovi insetti, che trasmettono nuove malattie alle colture, che a loro volta provocano un calo dei raccolti, che porta a prezzi alimentari più alti e tutto ciò può provocare tensioni e conflitti sociali". Sul campo, i giornalisti ambientali ripercorrono la cascata al contrario. Partono dalla contaminazione di un fiume da parte di una fabbrica o dalla distruzione di ecosistemi da parte di una miniera e poi vanno a ritroso chiedendosi: Come è successo? Chi sono i responsabili? "Per arrivare spesso a società occidentali quotate in borsa che non rispettano i diritti umani e che cercano di non avere tra i piedi chi può portare alla luce eventuali abusi".

I luoghi dove i giornalisti fanno ricerche e inchieste sul campo sono crocevia di interessi sovra-locali che hanno impatti territoriali. E così, l'avvicinarsi a questi interessi di potere porta loro a esporsi ad aggressioni, violenze, pressioni, minacce. «Un problema non nuovo – ha commentato il direttore esecutivo del Comitato per la Protezione dei Giornalisti (CPJ), Joel Simon – diventato più acuto con l'accelerazione dei cambiamenti climatici e di cui è importante parlare sempre di più».

Secondo il CPJ sono 13 i giornalisti ambientali uccisi negli ultimi 10 anni. Ma almeno altri 16 omicidi potrebbero essere associati a inchieste giornalistiche su tematiche ambientali che vanno dal business dell'agricoltura ai disboscamenti illegali, dagli illeciti nelle concessioni per le estrazioni minerarie ai casi di inquinamento di falde acquifere e fiumi.

Tra i casi raccolti da CPJ, le storie di Desidario Camangyan, anchorman di una stazione radio locale, ucciso dopo aver dedicato 4 puntate di seguito al disboscamento illegale nella provincia di Davao nelle Filippine, e di Ardiansyah Matra’is, giornalista dell'emittente locale Merauke TV, ucciso mentre stava seguendo i progetti per un grande sviluppo dell'agrobusiness a Merauke, in Indonesia.

In India, nel 2015, il giornalista indipendente Jagendra Singh è stato ucciso, assalito da una banda che, dopo essere riuscita a entrare nella sua abitazione, lo ha cosparso di benzina e gli ha dato fuoco. Poche settimane prima di morire il giornalista aveva pubblicato un post sui social in cui raccontava di essere stato minacciato: “Politici, criminali, poliziotti, tutti mi stanno dando la caccia. Scrivere la verità sta condizionando pesantemente la mia vita”.

Singh – che secondo la polizia si è suicidato – stava indagando sull’estrazione illegale di sabbia dal fiume Garra, utilizzata per estrarre minerali e prelevata per realizzare progetti di costruzione di bonifica. Un business multimiliardario vietato in sempre più Stati di tutto il mondo a causa dell’erosione delle coste, delle inondazioni e degli effetti sull’ambiente di tale attività. Dopo la morte di Singh, altri due giornalisti sono stati uccisi mentre indagavano sull'estrazione di sabbia in India: Karun Misra nel 2016 e Sandeep Sharma nel marzo 2018.

Poi ci sono i giornalisti rimasti uccisi mentre stavano documentando sul campo manifestazioni e scontri tra forze dell'ordine e nativi indigeni. Come la giornalista della radio Renacer Kokonuko, María Efigenia Vásquez Astudillo, colpita nel 2017 mentre stava documentando gli scontri tra la polizia antisommossa e i membri della comunità indigena Kokonuko contro la presenza di una compagnia privata su un territorio visto come ancestrale, nel dipartimento di Cauca nel sud-ovest della Colombia. L’indagine è ancora aperta e sta cercando di stabilire se il colpo di arma da fuoco che poi ha ucciso la giornalista sia partito dagli agenti o dai manifestanti. Secondo la Fundación para la Libertad de Prensa (FLIP), Vásquez stava partecipando alla protesta come membro della comunità, ma stava anche documentando l'evento, pratica comune nei territori indigeni. «Aveva la stessa missione di tutti noi: documentare [cosa stava succedendo]», ha detto a FLIP Emildre Avirama, una collega di Renacer Kokonuko, unico mezzo di informazione ufficiale nel comune di Puracé.

In Brasile, nel 2017, sono state uccise 57 persone tra giornalisti e attivisti. L’allora presidente Michel Temer – scrive Global Witness – ha indebolito le misure di protezione nei confronti di reporter e attivisti ambientali, rendendo più facile a società impegnate nell'agrobusiness - associate ad almeno 12 degli omicidi del 2017 - di imporre i loro progetti alle comunità senza che sia richiesto il loro consenso. In totale, si legge in un altro rapporto di Global Witness, sono stati uccisi 207 attivisti solo nel 2017, a testimonianza, commenta ancora Marc Shapiro sul Guardian, di quanto sia rischioso occuparsi di ambiente e di come il rispetto dei diritti umani e della libertà di informazione non possano essere separati.

"L'omicidio – scrive CPJ – è la forma massima di censura", che viene esercitata in tanti modi, attraverso pressioni e altre forme di condizionamento. Di recente, un rapporto del relatore delle Nazioni Unite sulla povertà estrema e i diritti umani, Philip Alston, ha duramente condannato il presidente degli Stati Uniti Donald Trump per aver "messo a tacere" la scienza del clima e ha criticato il presidente del Brasile, Jair Bolsonaro, per aver promesso di realizzare delle miniere nella foresta pluviale amazzonica.

In particolare, negli Stati Uniti, il Sabin Center for Climate Change Law e il Climate Science Legal Defense Fund hanno avviato subito dopo le elezioni del 2016 un progetto dal titolo “Silencing Science Tracker” per tenere traccia dei tentativi del governo di limitare o proibire la ricerca scientifica, la formazione, la discussione, la pubblicazione o l'uso di informazioni scientifiche.

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Nel 2013 Rodney Sieh, giornalista indipendente della Liberia, ha rivelato il coinvolgimento di un ex ministro dell'Agricoltura in un caso di corruzione nell'utilizzo di fondi stanziati per combattere la malattia parassitaria e infettiva del verme della Guinea. Sieh è stato condannato a 5mila anni di carcere e multato per quasi 1,5 milioni di euro per diffamazione, ha scontato tre mesi nel carcere più famoso della Liberia, prima di essere scarcerato dopo una enorme protesta internazionale.

Sempre nel 2013, il reporter canadese Miles Howe è stato arrestato più volte mentre seguiva le proteste della Elsipotog First Class a New Brunswick contro il fracking. «Molte volte ero l'unico giornalista presente a documentare arresti violenti. Durante una manifestazione, un membro della Royal Canadian Mounted Police mi indicò come uno dei manifestanti», racconta Howe. La sua attrezzatura fu sequestrata e la polizia perquisì la sua abitazione oltre a proporgli di spiare i manifestanti in cambio di un lauto pagamento.

Nel caso del giornalismo ambientale – nota Eric Freedman, professore di Giornalismo al Knight Center for Environmental Journalism della Michigan State University – le linee di demarcazione tra giornalismo e attivismo sono più sfumate e questo porta molto spesso le società oggetto di inchieste giornalistiche ad accusare i reporter di solidarizzare o impegnarsi in prima persona con le istanze dei manifestanti.

Questa situazione, aggiunge Freedman, autore anche di una ricerca sulle condizioni professionali dei giornalisti ambientali, è ancora più frequente quando il tema dell’ambiente incrocia la questione dei diritti dei nativi e sono i giornalisti indigeni a far scoprire lo sfruttamento legale e illegale delle risorse naturali, delle foreste e della terra, come abbiamo visto nel caso di María Efigenia Vásquez Astudillo, in Colombia, o della battaglia dei nativi americani di Standing Rock contro la costruzione di un oleodotto sulle loro terre. In questi casi, si legge nella ricerca, sembra esserci meno consapevolezza da parte dei giornalisti ambientali dei rischi che corrono nella loro attività, percepita come meno pericolosa rispetto a chi si occupa di criminalità organizzata, droga, guerra e corruzione, rendendoli così ancora più vulnerabili alle violenze, alle pressioni, agli abusi di potere che spesso restano impuniti.

Infine, ci sono le conseguenze sulla salute psico-fisica. I pochi studi al riguardo evidenziano effetti persistenti, tra cui disturbi da stress post-traumatico, depressione e ricorso a sostanze stupefacenti. Se ci sono giornalisti in grado di riprendersi e trarre anche forza dalle sofferenze subite, altri vivono nella paura di ritorsioni o provano senso di colpa se sono sopravvissuti mentre altri colleghi sono morti sul campo.

«In generale, i giornalisti sono una tribù piuttosto resiliente», spiega Bruce Shapiro, direttore esecutivo del Dart Center for Journalism and Trauma della Columbia University. «I loro tassi di stress post-traumatico e depressione sono di circa il 13-15%, simile a quelli di chi si occupa di pronto soccorso. I giornalisti ambientali hanno spesso un senso della missione superiore alla media». Questo atteggiamento, però, spiega Freedman, a volte si traduce in riluttanza a cercare aiuto o nel sottovalutare gli effetti delle pressioni cui devono far fronte. Miles Howe, ad esempio, ha ammesso di aver sofferto di gravi problemi psicologici in seguito ai suoi ripetuti arresti, ma di essersi rivolto a uno psicologo solo due anni dopo aver lasciato il giornalismo e di essersi pentito di non averlo fatto.

Il Green Blood Project

"Forbidden Stories" – un gruppo di 15 media partner, tra cui il Guardian, El País e Le Monde, che lo scorso anno ha pubblicato un'indagine sull'omicidio di Daphne Caruana Galiziaha lanciato il progetto Green Blood che ha l’obiettivo di proseguire le indagini avviate da giornalisti ambientali che sono stati costretti ad abbandonare il loro lavoro per le pressioni, minacce e ritorsioni ricevute.

In 8 mesi, i partner di Green Blood hanno collaborato con i giornalisti locali per raccogliere documenti e testimonianze e condurre ricerche scientifiche per monitorare i danni ambientali di tre contesti: una miniera d'oro in Tanzania, una di nichel in Guatemala e l'estrazione di sabbia nel sud dell'India.

In Tanzania, Green Blood ha ripreso l’inchiesta che giornalisti stranieri e locali non hanno potuto portare avanti in seguito alle pressioni di polizia e autorità statali sull’impatto di una miniera d’oro, di proprietà di Acacia Mining, il cui azionista di maggioranza è il colosso canadese Barrick, nella regione del North Mara. Sono almeno una decina i reporter che sono stati arrestati, minacciati o censurati dalle autorità tanzaniane per aver tentato di indagare e documentare sulla miniera. Due giornali sono stati chiusi e parecchi giornalisti hanno perso il lavoro.

Anche solo avvicinarsi alla miniera, a più di mille chilometri da Dar er Salaam, la più grande città della Tanzania, era diventato rischioso, scrive Marion Guégan e Cécile Schilis-Gallego su Green Blood. Nel 2011, quattro giornalisti furono arrestati mentre erano in viaggio per denunciare la morte di diverse persone nei pressi della miniera d’oro.

Forbidden Stories ha tracciato la filiera dell’oro che parte dalla miniera di North Mara fino alla raffineria MMTC-PAMP in India per poi essere distribuito a diverse società tecnologiche come Apple, Canon e Nokia che pure, scrivono le due giornaliste, si promuovono come etiche e rispettose dell’ambiente. Gli abitanti dei villaggi intorno alla miniera hanno dovuto convivere per decenni con le conseguenze ambientali dell’estrazione dell’oro. Tra i sottoprodotti, alti livelli di metalli pesanti sono stati rinvenuti nelle acque del fiume Mara che dà il nome alla regione. Le autorità locali hanno multato la Acacia Mining per 5,6 miliardi di scellini tanzaniani (pari a poco più di 2 milioni di euro) per l’inquinamento di una diga di contenimento. La società ha dichiarato a Forbidden Stories di «aver iniziato la pianificazione e la progettazione di un nuovo magazzino di stoccaggio».

I reati ambientali non sono gli unici di cui la società mineraria è stata accusata. Organizzazioni non governative hanno documentato 22 presunti omicidi da parte della polizia o dei responsabili della sicurezza della miniera dal 2014, oltre a numerosi casi di violenze e stupri nei confronti di abitanti dei villaggi che tentavano di avvicinarsi alla miniera per estrarre da soli l’oro. Con la privatizzazione dell'industria mineraria tanzaniana, gli abitanti del villaggio di North Mara hanno perso infatti la loro fonte primaria di reddito: l'estrazione artigianale.

Carlos Choc, Guatemala, nichel, miniera, giornalismo, minacce
Il fotografo Carlos Choc via Guardian

In Guatemala, il giornalista Carlos Choc, membro di una comunità Maya di Q'eqchi in El Estor, ha subito dal 2017 minacce e ritorsioni da parte degli agenti di polizia locali per aver documentato gli scontri tra forze dell’ordine e pescatori nei pressi di una miniera di nichel. Un gruppo di pescatori stava protestando contro le autorità locali e la Solway, proprietaria della miniera, accusata di aver contaminato il lago Izabal, la loro principale fonte di mezzi di sussistenza.

Choc, che aveva ripreso l’uccisione di un pescatore, colpito al petto da un poliziotto, è stato presto accusato di aver fomentato i pescatori contro i lavoratori della miniera: «La Solway mi ha accusato di aver portato armi da fuoco, un machete, un bastone e di essermi messo alla guida del gruppo. Le uniche mie armi erano una macchina fotografica, un registratore, il mio cellulare e il mio portatile».

Choc ha dovuto vivere clandestinamente per oltre un anno, lontano dai suoi figli, per evitare la detenzione preventiva (come accaduto a un suo collega, arrestato con le stesse accuse) in attesa di un’udienza.

In India, la giornalista Sandhya Ravishankar ha subito minacce dopo aver iniziato a scrivere articoli sull’estrazione illegale di sabbia (e su cui stava indagando Jagendra Singh nel 2015) da parte della V. V. Mineral nello Stato del Tamil Nadu, nel sud del paese.

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La compagnia di estrazione mineraria estrae più sabbia di quella ufficialmente consentita in luoghi in cui l’attività estrattiva è proibita. In un rapporto pubblicato a maggio, il Programma ambientale delle Nazioni Unite ha sottolineato gli impatti ambientali e sociali dell'estrazione della sabbia - sia da fiumi che da spiagge - affermando che si tratta di una questione di importanza globale.

Da quando ha iniziato a coprire giornalisticamente la questione, Ravishankar ha cominciato a essere pedinata, video-sorvegliata, minacciata telefonicamente e via Internet. «Sandhya Ravishankar ha un'antipatia personale verso la nostra compagnia", ha affermato il portavoce della società d’estrazione mineraria in una dichiarazione ufficiale insinuando anche che la giornalista lavorasse per compagnie concorrenti. Ravishankar non torna nella sua regione dal 2015 perché teme per la sua incolumità.

Immagine in anteprima via greenubuntu.com

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