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Perché “spezzare” i colossi tecnologici non è la soluzione

24 Marzo 2019 8 min lettura

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Perché “spezzare” i colossi tecnologici non è la soluzione

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7 min lettura

È l’ottobre del 2011, quando una piccola società italiana presenta un ricorso antitrust contro la multinazionale Microsoft. Un classico "Davide contro Golia":  Messagenet con un fatturato (all’epoca) di 2,5 milioni di euro, contro Microsoft, un gigante da 70 miliardi di dollari. Eppure Messagenet tiene in sospeso per settimane il gigante americano bloccando (temporaneamente) l'acquisizione di Skype. Un affare da 8,5 miliardi di dollari. Alla fine Microsoft la spunta e riceve il beneplacito dell’antitrust europeo. Quello americano aveva dato subito l’ok.

Rompere i Big Tech

Pochi giorni fa la senatrice americana e candidata per le prossime elezioni, Elizabeth Warren, pubblica un articolo nel quale sostiene la tesi che occorre “spezzare” le piattaforme del web, i Big Tech. Secondo Warren le aziende del web sono ormai troppo grandi, e usano il loro potere per eliminare la concorrenza e le aziende più piccole, e per sostituire i loro interessi finanziari agli interessi del popolo americano. Per ripristinare l’equilibrio occorre promuovere nuove forme di concorrenza, per alimentare l’innovazione occorre “spezzare” le più grandi aziende tecnologiche americane.

L’eco dell’intenzione della Warren si è sentita fin nel cuore dell’Europa, dove parecchi avranno avuto un sussulto all’idea di poter cavalcare l’onda di un movimento che vede nelle grandi aziende del web il “nemico” da abbattere. Un movimento che, in verità, già da tempo ha imbarcato numerosi supporter, dall’industria del copyright, per decenni assolutamente impermeabile alla Rete e incapace di adattarsi alle nuove tecnologie, all’editoria, anch’essa alle prese con una crisi strutturale determinata, tra l'altro, dall’incapacità di trovare un modello di business che sia valido nell’ambiente digitale, preferendo un sistema alimentato dalla pubblicità che sposta necessariamente il focus dalla notizia al modo di presentarla al pubblico, oscillando sempre più spesso tra propaganda e fake news.

L’idea della senatrice non presenta, in realtà, effettive novità, ma ha il pregio di attualizzare un discorso piuttosto risalente nel tempo. Secondo lei le piattaforme, infatti, sarebbero public utility (come l’energia e il gas per capirci), e quindi dovrebbero sottostare a rigide regole antitrust, prima di tutte la separazione tra piattaforma e servizi (appunto, come accade per il gas e l’energia). Dovrebbero, inoltre, impegnarsi a soddisfare degli standard minimi di trattamento equo e non discriminatorio verso gli utenti (qualsiasi cosa questo significhi).

L’idea della separazione tra piattaforma e servizi è, per essere precisi, la medesima alla base delle regole antitrust attuali. Ma la normativa antitrust pretende, per un intervento regolatorio, che vi sia un abuso della posizione dominante. Cosa che, ad esempio, si è avuto con riferimento a Google, multata nel 2017 perché favoriva il proprio prodotto (Google Shopping) sulla propria piattaforma (Google Search). Un intervento in assenza di abuso sarebbe difficile da giustificare.

Tecnologia e monopoli

Se approfondiamo i contenuti della proposta emergono numerosi dubbi. La tecnologia è qualcosa di estremamente dinamico. I monopoli nel settore cambiano piuttosto velocemente. Basti pensare a MySpace, una volta monopolio per i social (era solo il 2007), oggi praticamente scomparso. Le attuali Big Tech si sono di fatto consolidate in un periodo piuttosto breve, dieci o venti anni al massimo, e non è detto che tra altri dieci anni il panorama non possa essere completamente diverso, specialmente con l’ingresso di attori di altri paesi nel mercato (a meno di interventi protezionistici da parte dei governi).

Un problema non indifferente, invece, è proprio l’interventismo dei governi che, a fronte di un obiettivo, perseguono, forse per incomprensione delle dinamiche di Rete, un risultato opposto. L’esempio classico lo abbiamo sotto gli occhi proprio in questi giorni, e riguarda la direttiva copyright. L’attuale testo di riforma ha l’obiettivo dichiarato di togliere “potere” alle piattaforme del web e restituirlo all’industria dei contenuti e l’editoria, laddove in realtà l’effetto sarà quasi certamente opposto. A fronte di una (possibile?) ridistribuzione di profitti dai Big Tech verso l’industria del copyright e l’editoria, ci sarà un consolidamento del potere della piattaforme del web che diverranno i veri gatekeeper dell’informazione e del flusso dei contenuti online. Oggi non solo questa piattaforme stringono accordi tra loro, accordi opportunamente “consigliati” dai governi transnazionali (Europa in primis), per regolamentare contenuti pedopornografici, hate speech e contenuti terroristici, ma il “controllo” si estenderà progressivamente al copyright e di qui, una volta saltato il fosso (il passaggio dai diritti fondamentali a diritti economici) sarà un nonnulla estendere il monitoraggio su tutto ciò che passerà sulla Rete. Quindi, ancora più potere, sempre più potere per i Big Tech, e il consolidamento di posizioni di monopolio renderà sempre più difficile per le future Google, YouTube e Apple nascere da un “garage” con investimenti minimi. Le prossime piattaforme, se passerà tutta l’attuale ondata di leggi in materia, potranno nascere solo nelle mani di chi ha già un sacco di soldi da investire. È questa la vera innovazione?

A favore del “spezziamo le Big Tech” risale alla memoria il ricordo delle sanzioni a Microsoft, beccata con le mani nella marmellata delle pratiche anticoncorrenziali, con il suo browser. Un successone, infatti le sanzioni hanno favorito l’ascesa di altri monopoli nel settore dei browser, oggi Google Chrome. E Microsoft? Attualmente è l’azienda con la maggiore capitalizzazione al mondo, anche prima di Apple. Se però andiamo a dare un occhiata più profonda possiamo notare che la perdita di posizioni di Microsoft nell’ambiente Internet fu dovuto anche al fatto che Micrososft non credeva molto nella Rete, focalizzandosi nei servizi per i desktop.

Ma, esattamente cosa vuol dire “spezzare” i Big Tech. Beh, per Facebook potrebbe essere un problema l’acquisizione di Whatsapp e Instagram. In particolare la fusione tra il Messenger di Facebook e Whatsapp, già annunciata, creerebbe un vero e proprio monopolio di settore. Non che adesso Facebook non lo sia già una sorta di monopolio, almeno per quanto riguarda i profili dei cittadini che utilizzano quei servizi. Certo forse ci potevano pensare prima, quando le autorità antitrust non hanno avuto nulla da dire in merito a tali fusioni (il garante europeo sostenne che non esiste problema di concorrenza poiché vi sono numerosi sistemi di messaggistica alternativi a Whatsapp e Facebook Messenger).

Ma Facebook comunque rimarrebbe sempre un quasi monopolio, non è che la sua posizione subirebbe un grande colpo. E sinceramente sembrerebbe impossibile addivenire ad un “break-up” del social network vero e proprio. Che facciamo, tante piccole Facebook nazionali, che non si parlano tra loro? Anche se, immagino, a qualcuno stuzzichi un'idea simile, in genere a coloro che non sopportano che la libertà di espressione consenta a tutti, ma davvero tutti, di esprimere la propria opinione sui social network.

Insomma, l’impressione è che l’idea della Warren sia più che altro una trovata pubblicitaria in cerca di consenso, in considerazione del fatto che tanti (specialmente gli esponenti della vecchia industria) odiano le piattaforme del web per partito preso. Del resto Warren non tocca, con i suoi esempi, il core business delle piattaforme, ed è sintomatico.

Interoperabilità

E allora? Un’altra idea, che pure gira da tempo, e che fu discussa anche nel corso del dialogo sulla riforma della normativa in materia di protezione dei dati personali in Europa, riguarda l’interoperabilità dei servizi. Non ha niente a che vedere con la “portabilità” dei dati, tra l'altro vorrei proprio sapere quanti servizi online ad oggi assicurano una effettiva portabilità!. Un obbligo di assicurare l’interoperabilità dei servizi renderebbe del tutto inutile la portabilità dei dati. L'interoperabilità, come dicevamo già nel 2017, riguarda la possibilità di far dialogare piattaforme diverse di servizi analoghi. Provate a pensare di poter messaggiare tra Whatsapp e Telegram o Signal.

Considerato che oggi l'interoperabilità è un obbligo per i servizi di telefonia e di messaggistica telefonica (SMS), non dovrebbe essere complicato imporla anche tra i servizi di messaggistica online e, eventualmente, anche per altri tipi di servizi, come i social network. In questo modo si garantirebbe una vera innovazione. Oggi fondare un nuovo servizio di messaggistica è praticamente impossibile perché partirebbe con zero utenti. Chi si iscriverebbe ad un servizio con zero utenti? Nessuno. Dovrebbe prima acquisire una massa di utenti, per essere appetibile, ma ciò è virtualmente impossibile. Se invece non fosse necessario avere una massa critica di utenti, grazie all’interoperabilità, avremmo davvero una concorrenza basata non sul numero di utenti ma sulla qualità del servizio.

Oggi, invece, un utente rimane in un determinato servizio anche se non lo considera migliore degli altri solo perché i suoi amici, o comunque una quantità notevole di utenti usufruiscono di quel servizio. Si chiama effetto lock-in. L’introduzione di standard di comunicazione tra piattaforme sarebbe la vera novità che potrebbe contribuire a spezzare gli attuali monopoli e alimentare concorrenza e innovazione. Anche uno studente in un garage potrebbe inventare un nuovo servizio e fare concorrenza ai Big Tech.

E tanto per partire si potrebbe chiarire una volta per tutte che la normativa in materia di copyright non si applica alle API. Le API (Application Programming Interface), per intenderci, sono un insieme di procedure messe a disposizioni direttamente dai programmatori al fine di realizzare software compatibili e permettere l'interoperabilità, appunto. Generalmente sono la chiave di successo di un software. Purtroppo alcune aziende preferiscono realizzare i cosiddetti walled garden, cioè recinti chiusi nei quali tenere a forza i propri utenti, impedendo che servizi di terzi possano raggiungerli. Così negli anni si sono viste vere e proprie battaglie sulle API, con aziende che ne impediscono l’utilizzo ad altri (vedi caso Oracle vs Google). Altre aziende, che riconoscono l'importanza dell'interconnessione tra servizi, come Automattic (quella di WordPress), invece, hanno precisato fin da subito di non voler rivendicare alcun copyright sulle API. Sono quelle che hanno capito che il segreto del successo nel web è l'interconnessione.

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Ma qui ci scontriamo con alcuni dei dogmi principali dell’economia attuale, quella sulla quale dominano le grandi aziende, non solo quelle tecnologiche. E cioè il copyright che deve coprire sostanzialmente tutto, e l’importanza di tenersi gli utenti tutti per sé, insomma servizi non interconnessi, centralizzazione, monopoli, sistemi di controllo continuo dei contenuti. In questo modo chi ha già acquisito una posizione dominante riesce più facilmente a mantenerla.

Ma nemmeno queste sono cose nuove, se ne parla da decenni, ma non pare che i politici siano particolarmente interessati al problema. Il ricorso di Messagenet contro Microsoft riguardava proprio l'interoperabilità, riguardava l’innovazione e la concorrenza. Siccome Messagenet opera nel medesimo settore di Skype offrendo messaggistica e servizi di telefonia e VOIP, chiedeva all’antitrust di valutare il rischio dell’integrazione tra Microsoft e Skype, cioè la realizzazione di un walled garden, un monopolio di fatto, un mercato chiuso nel quale i concorrenti non possono entrare. Messagenet pose il problema nel 2011, oggi nel 2019 stiamo ancora a discutere di “spezzare” le piattaforme. È una cosa generalmente non fattibile, probabilmente inutile. Invece un qualcosa di utile, imporre l'interoperabilità, non si è mai vista nell'agenda dei politici. Chissà perché.

Immagine in anteprima via stevetobak.com

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