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Brasile, Bolsonaro ha vinto grazie a ‘fake news’ e WhatsApp? Cosa possiamo imparare sulla disinformazione online

19 Gennaio 2019 15 min lettura

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Brasile, Bolsonaro ha vinto grazie a ‘fake news’ e WhatsApp? Cosa possiamo imparare sulla disinformazione online

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Cominciamo dalla fine. Jair Bolsonaro è diventato presidente del Brasile grazie alle "fake news"? Il più dettagliato studio disponibile sulla modalità di diffusione della disinformazione online considerata – date le conoscenze attuali, più pericolosa – conclude a questo modo:

"Non rientra nello scopo di questo studio stabilire se gli elementi qui identificati siano stati determinanti per il successo delle campagne che vi hanno fatto ricorso. I fattori congiunturali e sociologici hanno una grande influenza sulla performance di un candidato, e sappiamo ancora poco di come quelle diverse variabili si relazionino."

Tradotto: non lo sappiamo.

Eppure ecco cosa si è letto circa l'elezione di Bolsonaro e i social media:

Da qui una prima domanda: quali "fake news" sono più pericolose? Le "fake news", o le "fake news" sulle "fake news"?

La disinformazione online, dallo storytelling alla storia

Quella della disinformazione online come causa unica e necessaria di tutti i mali attuali della politica è una narrazione falsa – oramai lo sappiamo – ma che continua a sedurre i media. Ed è un peccato, perché quando si passa dallo storytelling alla storia – o meglio, al tentativo di scriverla – si scopre invece che il caso delle elezioni presidenziali dell'ottobre 2018 in Brasile racchiude in sé tante piccole e grandi lezioni che ci potrebbero aiutare a comprendere davvero come funziona la disinformazione online, comprese le famigerate "fake news". Che no, non sono le streghe a cui in troppi danno (inutilmente) la caccia, ma operano comunque i loro malefici sulla politica e il dibattito pubblico. Ed è bene studiarli, capirli. Perché ogni sortilegio ha la sua formula, i suoi modi e i suoi effetti. E l'efficacia dei nostri antidoti dipende – qui sì – necessariamente dalla nostra capacità di intercettarli, e sventarli.

Fuori di metafora: il caso brasiliano ci dice qualcosa (poco, ma cose concrete) su che cosa accade quando:

1. La disinformazione di massa circola non su piattaforme come Facebook o Twitter ma su servizi di instant messaging come Whatsapp.

2. Piattaforme e istituzioni provano a regolamentare il settore per tempo, ma lo fanno per le prime (le piattaforme) e non i secondi (i servizi di instant messaging).

3. Fact-checker e manipolatori si confrontano.

Soprattutto, ciò che finora gli studi ci hanno rivelato è che si possono indagare Twitter e Whatsapp, e trovare risultati diametralmente opposti. Il che comporta che non è fuorviante solo il parlare di "fake news" (termine che non significa, in ultima analisi, nulla), ma anche e forse soprattutto il parlare di "social media". In entrambi i casi, non esiste un'unica, immutabile categoria dotata di proprietà, e dunque storture, necessarie, sempre valide a ogni applicazione. Un meme con una mezza notizia, o una notizia e mezzo, è altro da un articolo di una testata rispettabile che strilla un titolo che non ha fondamento empirico.

Allo stesso modo, l'ambiente della disinformazione su Twitter è completamente diverso da quello della disinformazione su Whatsapp. In un caso, scopriamo, domina incontrastata la circolazione di notizie professionali; nell'altro, si scorge tra i dati la possibilità più che concreta che decine di apparentemente innocue chat di gruppo su Whatsapp fossero in realtà un unico strumento coordinato e automatizzato di propaganda, costruito appositamente per manipolare le percezioni politiche dei brasiliani nello stesso luogo in cui sono soliti chiacchierare con amici e amanti, familiari e datori di lavoro, al riparo dalla folla dei social media e dunque al sicuro di una conversazione in chat.

Sentiamo spesso parlare di tecniche di propaganda digitale agitate dai "populisti". Anche questo mito è una fenice sempre capace di risorgere dalle proprie ceneri. Ma anche in questo l'insieme di studi oggi disponibili su quanto accaduto in Brasile offre un'ennesima conferma: a ricorrere a stuoli di profili automatici (bot) per inondare la rete di messaggi a favore della propria politica, attacchi personali e diffamatori sferrati da orde di troll addestrati a provocare per strategia politica, e naturalmente minacce di morte e qualunque altro tipo di sopruso digitale sono entrambe le parti politiche; anzi, l'intero spettro ideologico, dall'estrema destra all'estrema sinistra.

Cambiano le "narrazioni", ma non la sostanza. Gli anti-Bolsonaro cercano spietatamente di mettere in giro l'idea che l'attentato subito il 6 settembre 2018 dall'allora candidato presidenziale Bolsonaro sia in realtà una messa in scena, orchestrata per manipolare il consenso elettorale. I fan, invece, provano con altrettanto cinismo a fare dell'attentatore un membro del PT, il partito dei lavoratori del principale sfidante, Fernando Haddad anche se non lo è. Due diversi "storytelling" per la stessa storia. Due modi di intendere la realtà che nulla hanno a che vedere col reale, ma tentano di dividerci, scavare nei solchi aperti della società e approfondirli ancora, mettendoci uno contro l'altro: basso contro alto.

Via DFR Lab

Che lo facciano poi davvero, e quanto, è tutto da capire. Oggi, socraticamente, dovremmo tutti avere l'umiltà di non poterci definire "esperti della comunicazione"; perché, come conclude lo studio menzionato in apertura, e di cui stiamo per dare dettagliatamente conto, ci sono troppe cose che non sappiamo.

Quanto siamo realmente influenzabili da un messaggio su Whatsapp o da un tweet, per quanto ripetuto o ben confezionato per indignarci? È possibile discernere l'impatto di un post Instagram da quello della bugia sentita distrattamente, mentre stavamo allo smartphone, in un talk show serale in tv, o dalla viva bocca di un leader politico? Muove più voti un articolo con una non-notizia o un meme con una non-notizia? E sono davvero oggetti comparabili, misurabili, maneggiabili, o dobbiamo arrenderci al fatto che la democrazia, in fondo, è così, costellata di manipolazioni, mezze verità, fatti distorti per interesse e tutto ciò che possiamo fare è mantenere saldi i principi della ragione che ci aiutano a distinguere esattezza ed errore, e soprattutto errore onesto e disonesto?

Il salotto in ordine, la casa a fuoco

Sapere di non sapere, tuttavia, non significa rinunciare all'impresa di conoscere. Al contrario, significa riscoprirne la gioia, la potenza. Sappiamo, per esempio, che Whatsapp in Brasile conta eccome, nella formazione dell'opinione pubblica. In un paese in cui il 66% dei cittadini si informa tramite social media (dato più alto al mondo, peraltro in discesa), Whatsapp – dice il Digital News Report 2018 del Reuters Institute di Oxford – è il secondo per importanza, e conta ben 120 milioni di utenti (su 123 milioni di cittadini connessi a Internet).

Sappiamo anche che la fiducia nel giornalismo è alta (per gli standard attuali, 59%, terzo paese su 37) e insieme bassa per le notizie reperite sui social media (32%). E che la preoccupazione per le "fake news" è la più elevata del globo.

Non sembrerebbe l'identikit di un popolo che si fa facilmente aggirare dalla manipolazione. E se ci si limita a guardare Twitter, c'è uno studio di Philip Howard e colleghi, del prestigioso centro sulla "propaganda computazionale" di Oxford, che conferma. Analizzando quasi un milione e mezzo di tweet da oltre 200 mila utenti, tra il 19 e il 29 agosto 2018, i ricercatori concludono infatti che solo "meno del 2%" (l'1,2%) dei contenuti condivisi era di natura "cospirazionista o polarizzante". Quella dove ci si aspetta di trovare le "fake news", insomma. Il 50% invece, un contenuto su due, è fatto di notizie da fonti professionali. Per giunta, i peggiori inquinatori dell'infosfera non sono i fan di Bolsonaro, ma quelli dei rivali Lula e Haddad.

Significa che allora le elezioni sono filate lisce?

Nemmeno per sogno. Significa che stavamo guardando al salotto in ordine, mentre il resto della casa va a fuoco. Howard e i suoi scrivono infatti che "l'alta proporzione di notizie politiche professionali dagli utenti brasiliani potrebbe essere attribuita al fatto che solo una cerchia ristretta, politicamente erudita della popolazione brasiliana usa Twitter per cercare notizie". Ricordate? "I social media" non esistono. Esiste la statistica, però, e le regole con cui si ritiene un campione rappresentativo di una popolazione.

Questo, evidentemente, non lo è, nella demografia della disinformazione.

"Un'analisi di altri popolari servizi", come Whatsapp e Messenger, suggeriscono in chiusura gli autori, "avrebbe potuto dare risultati differenti circa la diffusione della disinformazione (letteralmente, misinformation) sui social media in Brasile".

E allora se sappiamo che i brasiliani adorano Whatsapp, piacerà di certo anche ai disinformatori. Ed è proprio così. Confermando una tendenza che secondo le previsioni del Reuters Institute per il 2019 vede la disinformazione su canali come Whatsapp tra i fenomeni caratterizzanti l'anno a venire, è qui che il caso delle presidenziali brasiliane del 2018 ha più da insegnarci. Merito del lavoro, egregio, dell'ITS di Rio, e dei fact-checker di Agencia Lupa insieme a ricercatori dell'Università di Minas Gerais e di San Paolo. Grazie all'ITS abbiamo compreso un primo abbozzo di cosa significhi una rete strutturata e coordinata di propagandisti in canali aperti di Whatsapp; grazie ai secondi, che il prodotto informativo che ne risulta è altamente inquinato.

Stando a quanto condiviso nelle 347 chat di gruppo studiate tra il 16 agosto e il 7 ottobre 2018, delle 50 immagini più "virali":

– 8 erano completamente false.
– 16 erano vere, ma usate fuori dal loro contesto originario o collegate a dati manipolati.
– 4 contenevano affermazioni senza fondamento, provenienti da fonti non affidabili.

Sul totale, solo l'8% si è potuto dire fully truthful, cioè totalmente accurato. Il 56% invece era fuorviante.

Come è stato possibile? Qui viene in soccorso il paper dell'ITS. In Computational Power: Automated Use of Whatsapp in the Elections i gruppi aperti studiati sono 110, per una settimana (dal 17 al 23 ottobre 2018), e l'obiettivo è altrettanto ambizioso: comprendere quanta parte dei contenuti lì condivisi sia dovuta a forma di automazione. Gli autori sono cauti, e corretti, nell'indicare da subito i limiti del loro lavoro, a partire dal fatto che si possono studiare solo i gruppi aperti, appunto.

Ma la loro non è un'iniziativa isolata. Questo non è più il 2016. Lo spazio pubblico connesso non è più il "far west". Ci sono le regole di trasparenza per le campagne digitali adottate dalle piattaforme, le rimozioni in massa di profili fasulli (Whatsapp ne elimina 100 mila in periodo elettorale), i limiti ai contatti a cui si può "inoltrare" una notizia (20; Bolsonaro si era detto disposto a "combattere" contro ogni restrizione alle condivisioni, mentre diversi ricercatori hanno chiesto il limite fosse abbassato a 5, come in India, senza successo).

L'organo giudiziario che vigila sulle elezioni, la TSE, aveva anche emanato una regola che vietava il ricorso a bot politici per le elezioni, insieme alle immancabili "fake news" e alla più volgare diffamazione, come strumento di campagna elettorale.

Orde di fact-checker, in alcuni casi in collaborazione con Facebook, erano schierati da mesi, consci, dopo le cronache degli ultimi due anni, del pericolo di interferenze e manipolazioni digitali organizzate.

Dentro le reti dei mistificatori dell'informazione

Ma organizzate come?

Prima di tutto, su Whatsapp per raggiungere un utente serve conoscerne il numero di telefono. E allora ecco, rivela il quotidiano di San Paolo, Folha, aziende "collegate" a Bolsonaro arruolare – su precisa disposizione del candidato presidente, secondo l'accusa (lui ha negato) – società capaci di condurre operazioni di diffusione in massa di contenuti propagandistici a suo favore. Un'operazione che, se confermata, sarebbe secondo Folha, illegale, configurando un finanziamento illecito di società private a una campagna politica. Non solo: sarebbero queste ultime a procurarsi, a pagamento, database di numeri di telefono di elettori – suddivisi secondo localizzazione e, in alcuni casi, reddito – da raggiungere con "milioni" di messaggi.

Un caso che, per Quartz, avrebbe potuto portare addirittura all'invalidità della candidatura di Bolsonaro, specie se si considera che uno degli obiettivi della rete così creata sarebbe stato sferrare un massiccio attacco a base di disinformazione ai rivali del PT, nell'ultimo giorno di campagna elettorale.

In ogni caso, gli sforzi propagandistici non procedono a tentoni nel buio, ma al contrario secondo un piano strutturato, condotto da una organizzazione in molti casi coordinati. L'ITS di Rio scrive per esempio che i dieci profili più attivi tra quelli studiati sono stati responsabili di una produzione di contenuti di 25 volte superiore a quella dell'utente medio, generando 229 messaggi ciascuno a intervalli compresi tra uno e 20 secondi. Se si aggiunge che otto di quei dieci profili erano senza nome e cognome riconoscibile, corredati da foto facilmente reperibili in rete e senza uno status su Whatsapp diverso da quello impostato di default, si comprende come mai i ricercatori abbiano concluso, con "alta probabilità", che quei contenuti siano stati il prodotto di account automatizzati.

Non solo: 14 dei gruppi studiati condividono 40 o più utenti, 223 più di 10; 38 utenti erano membri di 10 gruppi o più, con il "più connesso" inserito in addirittura 21 chat di gruppo. Abbastanza, secondo l'ITS, per concludere che

"Ciò significa che i gruppi politici su Whatsapp non sono composti di bolle isolate con uno scarso livello di comunicazione tra loro, quanto piuttosto una rete o insieme di gruppi in cui diversi utenti ricevono e condividono contenuti su più media, in modo tra loro coordinato".

Grafico che mostra le chat di gruppo tra loro maggiormente interconnesse, via ITS Rio.

Con una conseguenza cruciale: un sistema di comunicazione originariamente concepito in maniera "decentrata", per chat individuali o di gruppo ma non di massa, finisce per diventare una emulazione del modello broadcast, scrivono gli autori. Una rete che diventa come una televisione: un sogno per i propagandisti a ogni latitudine.

Che poi vi sia una "strategia" ben precisa dietro a quella che, altrimenti, potrebbe essere scambiata per una normale applicazione della teoria delle reti – non esistono, nella natura sociale, network in cui ogni nodo abbia lo stesso peso di tutti gli altri; le reti, cioè, non sono mai perfettamente paritarie, ma sempre reti di influenza – sarebbe dimostrato dal fatto che gli utenti più "connessi" in questa maglia fitta di propagandisti si dividano i compiti in modo scientifico. In ogni gruppo, per esempio, non c'è quasi mai più di un utente nel ruolo di diffusore della propaganda. Al massimo, sono in due. Questo, scrivono gli autori, "porta a considerare l'esistenza di una allocazione strategica dei profili dei diffusori di informazione, che fungono da fonte del broadcast".

Le contromisure di Whatsapp, il fact-checking e il ruolo dello zero rating

I risultati, occorre ribadirlo, sono solo "preliminari", incompleti. Ma il problema si pone: che fare, di fronte a tutto questo?

Whatsapp ha adottato nel paese, sulla scia di quanto imparato da analoghe polemiche sorte in India, una serie di interventi:

1. Mantenere un più stretto rapporto con le autorità brasiliane.

2. Investire in una campagna di marketing da milioni di dollari dal motto Share Facts, Not Rumors (condividi i fatti, non le voci).

3.
 Eliminare i profili falsi a migliaia.

4.
 Limitare, come detto, il numero di utenti a cui "inoltrare" un messaggio a 20.

In più, l'azienda ha creato collaborazioni strutturate con le principali organizzazioni di fact-checking brasiliane. Anche qui, siamo in presenza di un intervento già visto all'opera in altri paesi, dopo l'elezione di Donald Trump a novembre 2016. E anche qui, si presentano problemi strutturali: il fact-checking elettorale in Brasile, ha scritto il DFR Lab, non è riuscito a scavalcare i fossati ideologici, rimanendo confinato all'interno di una precisa area politica di riferimento (se smentisci una bufala di Bolsonaro, a leggerti saranno solo i detrattori e viceversa) e il fact-checking è stato meno virale delle bufale che fa a pezzi (in ragione di 46 interazioni per la bufala contro 1,8 per la correzione).

Peggio, molti fact-checker hanno dovuto subire a loro volta un attacco coordinato di disinformatori online che avevano preso a diffondere, a un mese dalle elezioni, un PDF di 299 pagine contenente la schedatura di 40 giornalisti brasiliani, compresi i principali fact-checker del paese. L'accusa, condivisa anche da una testata di destra, è quella di operare non a difesa dei fatti, ma contro le opinioni con cui non sono d'accordo, di essere insomma dei "censori" del libero pensiero, tra cui, come da copione, figurano naturalmente la libertà di avanzare minacce di morte o dipingere professionisti indipendenti come pupazzi nelle mani dell'immancabile 'Uomo Nero anti-sovranismo', George Soros, tra diffamazioni e ritratti misogini.

"In due giorni, abbiamo ricevuto 46 mila tweet", spiega Cristina Tardàguila dell'Agencia Lupa a Poynter, restituendo un'immagine netta della gravità del problema. Attacchi provenienti da destra come da sinistra, dice, con lo stesso argomento: "il fact-checking è un modo di censurare le opinioni sui social media". E che sono sempre ad hominem, non contro l'idea ma contro chi la espone.

Risultato? L'autocensura, per proteggersi, che va ad aggravare una situazione già compromessa dall'esistenza di tariffe zero rating per la connettività: se accedere a Facebook o Whatsapp è gratis, perché il loro traffico è per contratto a costo zero, mentre accedere a un sito di fact-checking costa, perché invece la libera navigazione web si paga (e profumatamente, fino al 15% del reddito familiare, in Brasile), ecco spiegato almeno in parte perché è molto più semplice incontrare una bugia che chi la definisce tale.

In più, la disinformazione ha cercato di colpire la giovane democrazia brasiliana al cuore, orchestrando campagne di falsità su presunte frodi sistematiche che sarebbero state consentite da inesistenti "macchine elettorali" che avrebbero registrato voti fasulli in massa a favore del PT. Dopo il primo turno, che aveva mandato al ballottaggio Bolsonaro e Haddad, per esempio, era diventata virale – nonostante il pronto debunking dei professionisti – una foto che sosteneva che il candidato del Partito dei Lavoratori avrebbe ricevuto ben 10 mila voti da sole 777 persone. Un video, molto popolare a destra, era stato addirittura condiviso dal figlio di Bolsonaro.

Anche qui, il manuale è quello di sempre, e che abbiamo imparato ad associare all'interferenza russa nelle elezioni USA: divide et impera. Se vuoi davvero distruggerla, devi seminare il dubbio metodico sul funzionamento stesso della democrazia.

A fronte di tutto questo appare evidente che le contromisure di Whatsapp non bastano. Per questo gli autori dello studio realizzato dalle Università di San Paolo e Minas Gerais insieme ad Agencia Lupa hanno usato un editoriale sul New York Times per chiedere all'azienda di limitare ulteriormente gli "inoltra" (da 20 a 5 utenti), ridurre il numero di utenti raggiungibili con un unico messaggio (meno dei 256 attuali) e limitare le dimensioni dei nuovi gruppi.

Ma per l'azienda, era troppo tardi per intervenire ulteriormente. E del resto, scrive, "oltre il 90% dei messaggi su Whatsapp in Brasile riguarda comunicazioni uno-a-uno, individuali", la maggior parte dei gruppi è fatta di sei utenti, e per raggiungerne milioni servirebbe infilarsi in circa 4.000 chat di gruppo. "Molto diverso da altre applicazioni che sono costruite per essere piattaforme broadcast", secondo Whatsapp, che cerca dunque di smontare al cuore le critiche ricevute.

Lezioni brasiliane

Cosa ci insegna dunque il caso brasiliano?

a) Che "i social media" non esistono: esistono strumenti diversi, con caratteristiche diverse, usati e abusati in modi diversi.

b) Che "le fake news sui social media" a loro volta non esistono: esistono bugie create e condivise per sfruttare al meglio le precise caratteristiche di ogni mezzo di comunicazione contemporaneo, online e non, che dunque vanno sempre considerati a) individualmente, e b) nel loro interagire (dato che gli utenti consumano informazione su più media contemporaneamente) - un aspetto, quest'ultimo, su cui non siamo ancora in grado di dire sostanzialmente nulla.

c) Che il fact-checking in contesti altamente polarizzati come quello brasiliano ha un profondo costo umano, oltre a incontrare un ostacolo difficilmente superabile nelle barriere ideologiche di chi ne fruisce.

d) Che "regolamentare le campagne elettorali sui social" serve a poco se quelle regole non tengono conto delle specificità dei diversi mezzi su cui viaggia e si moltiplica la disinformazione (e del contesto informativo e sociale complessivo).

e) Che tuttavia quelle regole sono necessarie, perché le piattaforme, abbandonate all'autoregolazione, a) esercitano un indebito arbitrio nella gestione di cosa sia lecito e cosa no in un contesto delicato e sensibile come una campagna elettorale, e b) sono anche e di conseguenza oggetto di aspettative irrealistiche circa le potenzialità salvifiche dei loro interventi (per quanto buoni, con ogni probabilità, non basteranno mai a eliminare del tutto disinformazione e propaganda dalle reti sociali).

f) Che la propaganda, quella sì, è post-ideologica: viene da destra come da sinistra

Ma soprattutto

g) Che quello che non sappiamo sulla disinformazione online è molto di più di quello che sappiamo.

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*L'autore è Responsabile politiche digitali del deputato 5 Stelle Questore della Camera dei Deputati, Federico D'Incà

Foto in anteprima via Ansa

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