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Uragani, inondazioni, alluvioni: cosa c’entra il cambiamento climatico e perché dobbiamo occuparcene

14 Settembre 2017 19 min lettura

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Uragani, inondazioni, alluvioni: cosa c’entra il cambiamento climatico e perché dobbiamo occuparcene

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Stazioni di benzina chiuse, alberi fatti a pezzi, strade allagate. Da Miami a Jacksonville, la Florida si è risvegliata lunedì mattina dopo il passaggio dell’uragano Irma come un paesaggio spettrale di città scomparse, racconta il New York Times. Quasi 9 milioni di persone senza elettricità, i 10mila abitanti dell’isole Keys sopravvissuti alla tempesta costretti probabilmente a essere evacuati.

In pochi giorni l’uragano – il più potente ad abbattersi sulla Florida dal 2004 e che sulle Antille ha raggiunto i 295 km/h, facendo pensare a un certo punto anche all’introduzione di una nuova categoria per misurarne la potenza – ha colpito i Caraibi, Haiti, Cuba, prima di arrivare in Florida. Quasi 40 le vittime, ingenti i danni, imprecisati i mesi per ricostruire tutto.

Il 2 settembre, come mostra un’immagine satellitare della BBC, non si era ancora dissolto l’uragano Harvey, che a fine agosto ha devastato il Texas, provocando la morte di 47 persone e danni fino a 160 miliardi di dollari, che già Irma cominciava a muoversi nell’oceano Atlantico.

via BBC

Il 6 settembre erano ben 3 gli uragani attivi nell’Atlantico:

Irma è solo l’ultimo fenomeno atmosferico traumatico. Negli ultimi tre mesi, le comunità di India e Bangladesh sono state inondate dalle alluvioni più intense degli ultimi 15 anni che hanno causato oltre 1200 vittime, la Sierra Leone è stata colpita da frane che hanno portato alla morte di centinaia di persone, in Cina lo straripamento del fiume Yangtze ha distrutto 295mila ettari e causato danni per 5 miliardi di euro.

Si tratta di calamità stagionali dipendenti da fattori locali o sono effetto del riscaldamento globale che ha fatto salire sempre di più le temperature e aumentare le piogge torrenziali? C’è un rapporto di causa-effetto tra cambiamento climatico e le calamità naturali di questi ultimi mesi?

Queste domande hanno animato una discussione tra giornalisti, politici ed esperti della comunità scientifica. Soprattutto negli Stati Uniti, dove il presidente Donald Trump ha più volte definito il cambiamento climatico una bufala e annunciato di volersi sfilare dal trattato di Parigi dello scorso anno e di tagliare i fondi per la ricerca. Una scelta che ha sorpreso diversi ricercatori. «Non dovrebbe essere una questione politica cercare di capire quanto saranno più frequenti eventi come Harvey in futuro», ha affermato al Guardian Tim Palmer, docente della Royal Society dell’Università di Oxford. «Mi sconvolge vedere la scienza di base rischiare di rimanere impantanata perché imbrigliata in politiche come questa».

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Per tre anni di seguito, scrive sempre sul quotidiano britannico Jonathan Watts, giornalista esperto di ambiente, le temperature hanno visto i picchi più alti dalla nascita della meteorologia mentre l’anidride carbonica nell’aria è al suo livello massimo negli ultimi 4 milioni di anni. Negli Stati Uniti, la pioggia in Texas ha superato il record americano di 120 cm del 1978 e i meteorologi hanno dovuto introdurre un nuovo colore per i loro grafici. Harvey è stato descritto come un uragano che si verifica ogni 500 anni ma tra il 2015 e il 2016, evidenzia Sara Lind su Vox.com, il National Weather Service ha registrato negli Usa 8 “inondazioni del tipo ‘ogni 500 anni’”. In India le alte maree si sono aggiunte alle dure piogge monsoniche. Secondo il vice-direttore dell’Environmental Change Institute dell’Università di Oxford, Friederike Otto, negli Usa oltre che dagli uragani il prossimo futuro potrebbe essere caratterizzato da ulteriori record di precipitazioni, mentre l’intero pianeta sarà interessato da forte caldo e caduta di piogge piuttosto copiose.

«Se non è riscaldamento globale, che cos’è?», si è chiesto il sindaco repubblicano di Miami, Tomàs Regalado, a proposito di Irma, mentre parlando dell’uragano Harvey, il politico e ambientalista George Monbiot ha sottolineato come quanto accaduto a Houston offra «uno sguardo di un probabile futuro globale, (...) in cui l’emergenza diventa la norma e nessuno Stato è in grado di rispondere. È un futuro che, per gli abitanti di paesi come il Bangladesh, è già arrivato, quasi nel silenzio dei media dei paesi più ricchi. Non parlarne rende questo incubo prossimo a materializzarsi».

Le questioni in campo sono tante: scientifiche (come riuscire a capire e dimostrare un nesso tra cambiamento climatico e fenomeni atmosferici traumatici e saper individuare delle soluzioni?), politiche (quali strategie adottare per mitigare gli effetti del riscaldamento globale e adattarsi alle nuove condizioni climatiche?) e giornalistiche (come coprire eventi del genere, saper attirare l’attenzione dei cittadini e raccontare la complessità senza disinformare?). L’uragano Harvey si è rivelato un momento per affrontare ognuno di questi argomenti.

La questione scientifica. Il cambiamento climatico causa gli uragani?

Il Memorial Park di Jacksonville sommerso dall'alluvione – via The New York Times

Non si può dire che il cambiamento climatico sia stata la causa dell’uragano e delle inondazioni, ma potrebbe essere stato uno dei fattori che li ha resi più intensi e potenti. La pericolosità dell’uragano Harvey è stata determinata da una combinazione di elementi climatici.

L'uragano Harvey. Cosa è successo in Texas

Nel momento in cui l’uragano Harvey ha colpito il Texas, la costa orientale degli Stati Uniti si trovava nel pieno della stagione degli uragani (da giugno a novembre). “Un uragano è un motore atmosferico alimentato dall’umidità dell’aria e dalle calde acque oceaniche sottostanti”, spiega Focus. Nasce in zone di bassa pressione dove la temperatura dell’acqua è di 26 gradi. Le correnti si avvitano a spirale e creano un vortice con un imbuto al centro. Man mano che il vortice si ingrossa, l’aria umida si trasforma in pioggia, cedendo calore che alimenta ancora di più il fenomeno atmosferico.

Nel caso di Harvey, una delle concause potrebbe essere stata la temperatura delle acque del Golfo del Messico, tra 1,5 e 4 gradi oltre la media stagionale. Per questo motivo, carico di calore in eccesso, è passato in meno di due giorni da tempesta tropicale a uragano di categoria 4, “intensificandosi nell’arco di 12 ore prima di scagliarsi sulla terraferma”. Un fenomeno che non si verificava dal 1985, come ha notato su Twitter Stephanie E. Zick, studiosa dei cicloni tropicali alla Virginia Tech.

Sempre per il calore assorbito, Harvey non si è indebolito: di solito, i forti venti di un uragano, raccogliendo gli strati superficiali degli oceani, spingono l’acqua calda in profondità e attingono acqua fredda dal mare, indebolendo la tempesta. In questo caso, invece, l’acqua attinta dagli oceani era ancora calda e i venti non solo non hanno tolto energia all’uragano ma lo hanno reso più duraturo. «È stata questa la principale fonte di energia della tempesta», ha detto a The Atlantic Kevin Trenberth, uno scienziato del Centro Nazionale per la Ricerca Atmosferica degli Usa. «Anche se queste tempeste si verificano naturalmente, Harvey è stato più intenso, più duraturo e con precipitazioni più forti a causa delle temperature alte del mare».


Il Texas è stato più volte colpito nel corso del tempo da questi fenomeni meteorologici e anche altri fattori sono intervenuti nel rendere gli effetti devastanti, come lo sviluppo scorretto delle coste, il sottosuolo sabbioso, l’insufficiente drenaggio del terreno. Tutte criticità indipendenti dal cambiamento climatico, scrive David Roberts nella sua ricostruzione su Vox.com. L’area di Houston era già vulnerabile e si è trovata impreparata ad affrontare l’uragano perché negli ultimi anni non è stato fatto nulla nonostante ci fossero state altre due gravi inondazioni nel 2015 e nel 2016, come ha ricordato il meteorologo Eric Holtaus. Solo un sesto della popolazione era coperto da un’assicurazione federale sulle inondazioni e il fondo creato per risarcire i danni della calamità naturali ha accumulato debiti e rischia di diventare insolvente.

Inoltre, non è ancora possibile quantificare con certezza l’impatto del cambiamento climatico sull’intensificazione degli uragani. Come ha spiegato Tim Palmer, della Royal Society dell’Università di Oxford, per potenza e caratteristiche, Harvey ha costituito una novità e ha posto domande nuove agli studi sul clima. Per riuscire a capire come sia stato possibile la persistenza dell’uragano, c’è bisogno di strumenti analitici più potenti, tra cui l’utilizzo di “supercomputer”, per elaborare modelli analitici più complessi.

Secondo Kerry Emanuel, professore di scienze atmosferiche al Massachusetts Institute of Technology, tre differenti innovazioni tecnologiche hanno consentito di migliorare i modelli che tracciano le forme e le evoluzioni delle tempeste. In primo luogo, gli scienziati possono analizzare molti più aspetti di una tempesta e acquisire più dati che in passato, grazie a osservazioni satellitari costanti e voli aerei attraverso le singole tempeste. Poi, i meteorologi hanno migliorato le loro simulazioni dei processi atmosferici e hanno computer migliori per fare le analisi necessarie per capire. Infine, gli scienziati sono in grado di fare previsioni molto più vicine alla realtà e in meno tempo.

La “scienza delle attribuzioni” (una nascente scienza climatica chiamata “attribuzione dell’ evento estremo”, che combina le analisi statistiche delle osservazioni climatiche con modelli climatici costruiti al computer sempre più potenti per studiare l’influenza dei cambiamenti climatici sui singoli eventi meteorologici estremi) sta facendo sempre più progressi nel saper individuare quando (e in che misura) il riscaldamento globale contribuisce a innescare determinati eventi atmosferici, come suggerisce la bozza di uno studio globale sul cambiamento climatico a cura del National Climate Assessment pubblicata lo scorso 28 giugno.

“Il cambiamento climatico esaspera i rischi naturali e i pericoli che già affrontiamo”

Il cambiamento climatico non genera uragani, ma potrebbe creare le condizioni per renderli più devastanti. «Ci interessa il cambiamento climatico perché esaspera i rischi naturali e i pericoli che già affrontiamo», dice al New York Times Katharine Hayhoe, climatologa della Texas Tech University.

Anche su questo punto, però, le posizioni sono sfumate: per alcuni il riscaldamento globale ha avuto un ruolo fondamentale nell’esacerbare l’intensità dell’uragano Harvey e i danni provocati, per altri gli effetti sono stati risibili. «Gli uragani ci sono sempre stati. La relazione tra il riscaldamento del pianeta e la frequenza dei cicloni tropicali non è chiara e c’è ancora tanta ricerca da fare», ha dichiarato Clare Nullis, portavoce dell’Organizzazione Mondiale della Meteorologia. Parlare di impatti del cambiamento climatico sulla formazione degli uragani significa dire che «quando abbiamo un fenomeno come Harvey, la quantità di pioggia è probabilmente maggiore di come sarebbe stata altrimenti». La domanda giusta da fare, dunque, non è “il riscaldamento globale ha causato la formazione di Harvey?”, ma “perché di solito gli uragani si indeboliscono e Harvey non l’ha fatto?”.

Secondo Michael Mann, docente di meteorologia alla Pennsylvania State University, gli effetti sono tangibili. In un post su Facebook, il professore ha scritto che il cambiamento climatico ha contribuito a rendere Harvey più devastante in tre modi:

  • Ha portato a un innalzamento dei mari di circa 15 cm negli ultimi decenni. E questo significa più inondazioni e distruzioni perché le coste sono più esposte a eventi atmosferici estremi.
  • Ha provocato un innalzamento delle temperature dei mari nella regione colpita dall’uragano, il che ha implicato una maggiore evaporazione e, quindi, più acqua nell’aria. Più umidità ha significato maggiori precipitazioni. “Le temperature della superficie marina, dove Harvey ha intensificato la sua azione”, scrive Mann nel post su Facebook, “erano di 0,5-1 grado centigrado più calde rispetto alle temperature medie odierne, che si traduce in 1-1,5 gradi in più rispetto alle temperature medie di qualche decennio fa. Ciò significa un aumento del 3-5% dell’umidità nell’atmosfera”.

  • Ha reso la tempesta più intensa, potente e duratura di quanto sarebbe stato altrimenti. Di solito gli uragani si muovono verso l’entroterra e perdono intensità man mano che si allontanano dal mare. Come si può vedere nella gif animata, l’uragano Harvey invece si è mantenuto potente per diversi giorni sempre sulla stessa area. È stata questa la caratteristica più dannosa di Harvey, il suo particolare modo di spostarsi e di stazionare sui luoghi. I venti prevalenti, molto deboli, non sono riusciti a dirigere la tempesta verso il mare: così l’uragano ha stazionato sulle stesse aree invece di roteare e ondeggiare avanti e indietro come un turbine senza direzione. Secondo Tim Palmer, questa minore circolazione dei venti è associata a un forte riscaldamento dell’Artico.

Le simulazioni condotte da diversi ricercatori, spiega ancora Mann in un saggio pubblicato su Nature, sembrano evidenziare una connessione tra l’incremento di questi eventi atmosferici anomali e il cambiamento climatico. In altre parole, conclude il professore della Pennsylvania State University, gli effetti dell’azione umana sul clima “hanno esasperato diverse caratteristiche della tempesta al punto da incrementare notevolmente il rischio di danni e perdite di vite umane". E, più in generale, scrive Robinson Meyer su The Atlantic, la storia recente dei cicloni tropicali in tutto il mondo suggerisce che il riscaldamento globale sta peggiorando una situazione già cattiva.

Tuttavia, come ricostruisce il giornalista scientifico Scott Johnson sul sito Climatefeedback.org, non tutti gli scienziati convergono sulle conclusioni cui giunge Michael Mann. «È probabile che il cambiamento climatico abbia peggiorato le condizioni in cui si verificano gli uragani, ma è difficile ricavare numeri esatti sul suo impatto», scrive il ricercatore dell’Università di Melbourne, Andrew King, su The Conversation, e dire con certezza che ha portato a un incremento di danni e vittime, aggiungono Suzana Camargo e Adam Sobel della Columbia University su Fortune. Una discussione corretta dovrebbe vertere sull’aumento delle precipitazioni e della loro intensità, non sul numero di morti provocati, spiegano i due docenti universitari, perché sono tanti i fattori che trasformano un uragano in tragedia: il taglio dei venti, la presenza o meno di blocchi atmosferici che deviano il percorso del vortice di pioggia, la pianificazione urbana e l’attenzione al consumo di suolo («Non è stato il cambiamento climatico a far costruire abitazioni lungo le coste», ha sottolineato alla BBC Ilan Kelman dell’University College di Londra).

«Porre la questione dal punto di vista dei danni materiali è fuorviante», ha scritto sul suo blog Cliff Mass, professore di meteorologia all’Università di Washington e studioso del cambiamento climatico. Così facendo si corre il rischio di associare la potenza degli uragani solo alle emissioni di gas serra e all’aumento delle temperature, di sottovalutare altri aspetti molto importanti e non individuare soluzioni efficaci per ridurre l’impatto delle tempeste. Il rischio concreto è quello di spostare l’attenzione dai cicloni al cambiamento climatico e di pensare che è sufficiente ridurre le emissioni di gas serra per depotenziare gli uragani. È necessario, sottolinea Mass, trovare un equilibrio tra ritenere il cambiamento climatico qualcosa dalle conseguenze probabilmente superiori a quelle reali o una questione di cui non preoccuparsi. In un caso o nell’altro, si correrebbe il pericolo di prestare il fianco a opportunismi di carattere politico e semplificare eccessivamente un fenomeno complesso.

La questione politica. “Se non neghiamo Harvey, perché negare il cambiamento climatico?”

Jacksonville – via The New York Times

Nel nutrito dibattito tra studiosi del clima e giornalisti scientifici e ambientali che è scaturito subito dopo le tempeste che hanno colpito il Texas, c’è stato chi ha accusato gli altri di amplificare gli effetti del cambiamento climatico per tentare di dettare l’agenda mediatica e politica e chi ha parlato di “reticenza scientifica” di parte del mondo accademico, ritenuto esageratamente prudente nel descrivere la relazione tra effetti del riscaldamento globale e cicloni tropicali. Un eccesso di cautela che, ha spiegato l’astrofisico e climatologo statunitense James Hansen, può oscurare le conseguenze reali del cambiamento climatico, in procinto di diventare una crisi di salute pubblica mondiale, molto peggiore di altre.

Anche se gli scienziati non sono ancora sicuri dei diversi modi in cui il cambiamento climatico riesce a incidere sui cicloni né sono in grado di prevedere se influisca sul numero delle tempeste che si verificano ogni anno, è indubitabile che ci sia una relazione tra cambiamento climatico e fenomeni atmosferici traumatici come quelli delle ultime settimane negli Stati Uniti, scrive Bob Ward, direttore della comunicazione del Grantham Research Institute on Climate Change and the Environment della London School of Economics.

È sconcertante che ci sia ancora tanta resistenza tra i politici repubblicani (e anche democratici) nel riconoscere gli effetti del cambiamento climatico, provocato dall’uomo, e capire che occorre pensare forme di adattamento alle nuove condizioni in cui l’umanità è costretta a vivere, commenta l’editorialista del New York Times, Nicholas Kristof. “Se non neghiamo Harvey, perché continuiamo a negare il cambiamento climatico?”, si chiede il giornalista. “Le vite di milioni di americani – prosegue Ward – saranno a rischio se il presidente Donald Trump e la sua amministrazione continueranno a negare l’esistenza del cambiamento climatico e il suo impatto sulle minacce poste dagli uragani”.

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Kristof e Ward chiamano in causa le controverse decisioni di Donald Trump in tema di politiche ambientali. Dieci giorni prima che l’uragano Harvey si abbattesse su Houston, il presidente degli Stati Uniti aveva ridotto il Federal Flood Risk Mitigation Standard (una misura mai entrata pienamente in vigore, voluta dall’ex presidente Barack Obama per sostenere progetti di pianificazione contro futuri rischi di inondazioni finanziati dalle tasse dei cittadini americani) perché ritenuta onerosa e inefficiente. Obama aveva firmato l'ordine esecutivo nel 2015 in risposta all’aumento dei livelli del mare e delle temperature superiori e alla maggiore frequenza delle tempeste e dei cicloni tropicali. «Quell'ordine esecutivo era stato pensato per aiutare le comunità a fare pressione sull’Agenzia Federale di Gestione delle Emergenze (FEMA) per ricostruire in modo più intelligente e resiliente», ha dichiarato Steve Ellis, vice presidente di Taxpayers for Common Sense, un’organizzazione non partitica e indipendente che verifica come i governi federali spendono i soldi dei contribuenti americani.

Secondo il Washington Post, già a marzo, John Konkus, a capo della campagna elettorale di Donald Trump in Florida e ora all’interno dell’Environmental Protection Agency (EPA), aveva annunciato allo staff dell’agenzia, tagli di fondi destinati al contrasto del cambiamento climatico. Come ricostruisce in una serie di tweet Talia Lavin, fact-checker del New Yorker che ha seguito le decisioni dell’EPA nell’ultimo anno, subito dopo le elezioni presidenziali l’agenzia ha invertito le sue politiche.

L’amministrazione Trump ha delineato un piano di tagli per 2,4 miliardi di dollari dal bilancio dell’Environmental Protection Agency, privilegiando il settore industriale. I comunicati stampa, sottolinea Lavin, mostrano che l’EPA “ha quasi completamente abdicato al suo compito di regolamentazione” del settore. Inoltre, Konkus ha annullato quasi 2 milioni di dollari destinati a progetti di organizzazioni universitarie e non profit.

Le scelte di Trump e la sua ostinazione a negare il cambiamento climatico porteranno solo maggiori sofferenze perché siamo giunti a un punto tale che prevenire non è più un’opzione, ma una necessità, commenta l’esperto di ambiente e clima Dana Nuccitelli sul Guardian. “Più saremo in grado di attenuare il riscaldamento globale, meno dovremo adattarci alle conseguenze del cambiamento climatico e minori saranno le sofferenze”, è il ragionamento di Nuccitelli. Negare il problema indebolendo le normative esistenti “ci sposta verso la parte sofferente dell’equazione”.

Sotto quest’aspetto, nell’aprile 2013, l’Unione europea ha formalmente adottato la Strategia di adattamento ai cambiamenti climatici, che “definisce i principi, le linee-guida e gli obiettivi della politica comunitaria in materia”. L’obiettivo principale è di promuovere visioni nazionali coordinate e coerenti con i piani nazionali per la gestione dei rischi naturali e antropici. In base ai dati aggiornati dall’agenzia ambientale europea, 23 paesi membri dell’Ue hanno già adottato una strategia nazionale di adattamento. Si tratta di un processo che si sviluppa in 5 passaggi fino all’adozione del testo definitivo. L’Italia ha adottato la strategia nazionale nel giugno 2015 e ad agosto di quest’anno ha avviato la fase di “consultazione pubblica con cittadini e istituzioni, mondo della ricerca, associazioni e in generale tutti i portatori d’interesse per arrivare all’elaborazione della versione finale del documento”.

Tuttavia, scrive il giornalista scientifico David Roberts, l’adattamento e la prevenzione non sono economicamente e politicamente equivalenti. Prevenire e, quindi, mitigare gli effetti del cambiamento climatico ha costi locali e benefici globali uguali per tutti, adattarsi ha costi e benefici locali ingiusti. La mitigazione del clima genera vantaggi distribuiti in tutto il mondo a tutti quelli che vivono nell’atmosfera (impedire l’emissione di una tonnellata di gas serra in una particolare area del mondo offre vantaggi globali), poveri e ricchi. I vantaggi dell’adattamento (le pareti marittime più alte, i sistemi di drenaggio più efficaci, la risposta alle emergenze più rapida e puntuale) sono locali e favoriscono, almeno inizialmente, solo una parte della popolazione.

Senza la prevenzione si corre il rischio di lasciar peggiorare le condizioni del clima.

La questione giornalistica. Come raccontare storie sul cambiamento climatico in modo pertinente, coinvolgente e innovativo?

Due persone guadano una strada inondata a Charlestone – via The New York Times

C’è infine una questione giornalistica e cioè capire come dare centralità a un tema importante per il futuro del pianeta e che, invece, appare di nicchia, noioso e lontano dalle nostre vite. Per farlo, scrive Michael Blending su Nieman Reports, i giornalisti devono essere in grado di raccontare e rendere accattivante un fenomeno complesso per raggiungere un pubblico più ampio possibile facendo un’informazione corretta ed equilibrata. Questo non significa ricorrere a un falso bilanciamento tra posizioni differenti, dando uguale spazio e peso a opinioni contrapposte, come spesso si fa soprattutto quando si parla di politica, ma dare informazioni sostenute da dati, debitamente contestualizzati.

La strada da fare è ancora tanta. All’interno delle redazioni, racconta Neela Banerjee, ex giornalista del New York Times e del Los Angeles Times e poi entrata in InsideClimate News (ICN) per frustrazione dopo aver tentato invano di fare indagini approfondite sul tema, non hanno interesse a fare un passo in avanti sul cambiamento climatico perché «è deprimente, è noioso, non è sexy». Nella migliore delle ipotesi «ti diranno che è la battaglia più importante per il pianeta ma eccetto che per le ricadute politiche non se ne preoccupano». ICN ha pubblicato alla fine del 2015 un’inchiesta divisa in 9 capitoli (che le è valsa una nomination al premio Pulitzer nella sezione “servizio pubblico” e diversi premi in quelle ambientali e investigative), “Exxon: la strada non intrapresa”, che descrive nel dettaglio come la compagnia petrolifera, a conoscenza sin dal 1980 degli effetti nocivi sul clima delle emissioni di gas serra, avesse negato l’esistenza del cambiamento climatico. Recentemente uno studio pubblicato su Environmental Research Letters da alcuni ricercatori di Harvard, che hanno visionato e analizzato quasi 200 comunicazioni pubbliche e private (lettere, email, messaggi pubblicitari) all’interno dell’azienda dal 1994 in poi, ha mostrato che la società americana avrebbe pagato centinaia di editoriali sui principali quotidiani statunitensi per negare le conseguenze nocive del cambiamento climatico. La compagnia petrolifera ha negato di aver condotto una campagna di disinformazione negli ultimi 40 anni e ha criticato i ricercatori per aver “scelto” i dati in modo tale da mettere l’azienda in cattiva luce.

Le televisioni snobbano l’argomento. Uno studio pubblicato da Media Matters for America ha rivelato che lo scorso anno gli spettacoli serali e di domenica di ABC, CBS, NBC e Fox hanno dedicato appena 50 minuti all’argomento nonostante il cambiamento climatico sia stato al centro dell’attenzione durante la campagna presidenziale, la firma dell’accordo di Parigi e diversi eventi meteorologici estremi.

L’assenza di agganci al flusso di notizie quotidiane, la percezione che si tratti di un concetto astratto, la reiterazione di alcune informazioni che dà la sensazione di ripetere sempre la stessa notizia (ad esempio, il mese xy è il più caldo degli ultimi decenni) possono in parte spiegare la scarsa copertura mediatica del cambiamento climatico. Si tratta di un tema che chiede di modificare gran parte delle convenzioni giornalistiche, spiega Bud Ward, da oltre 20 anni sulla questione. Tra queste, il falso bilanciamento tra posizioni contrapposte, che in ambito scientifico ha consentito di dare visibilità a studi inattendibili e poco obiettivi. Qualche settimana fa, un gruppo di scienziati della Texas Tech University ha pubblicato sulla rivista Theoretical and Applied Climatology i risultati di una ricerca sugli studi che negano che il cambiamento climatico sia causato dall’azione dell’uomo. In base alla ricerca, gli studi presi in esame sono tutti sbagliati e presentano lacune grossolane nella metodologia e nell’interpretazione dei risultati.

Per questo motivo è cruciale che i giornalisti siano in grado di separare i fatti dalle opinioni, afferma Emmanuel Vincent, che tre anni fa ha lanciato il sito Climate Feedback, un forum di scienziati per dire la propria sulla copertura mediatica: «Rick Perry [ndr un membro del Partito Repubblicano] ha detto che i cambiamenti climatici sono dovuti agli oceani e un giornalista può lasciargli dire queste cose perché è la sua opinione, anche se contraddice la realtà. Dovrebbe essere compito del giornalista segnalarlo».

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Nel 2012 Climate Central ha lanciato un programma per formare meteorologi locali che parlino con precisione del cambiamento climatico e creato Surging Seas Risk Finder, un sito interattivo in cui gli utenti possono inserire il loro codice postale per vedere gli effetti previsti dei livelli di mare in aumento nella loro zona. The Texas Tribune e ProPublica hanno avviato un progetto multimediale che utilizza più informazioni per descrivere a livello locale l’impatto devastante che le tempeste stanno avendo sulla città di Houston mesi prima dell’uragano Harvey. Durante la navigazione del sito, i lettori possono individuare le aree dove si sono verificate le inondazioni, leggere storie personali dei residenti e le decisioni prese dalle istituzioni.

"Boomtown, Flood Town", il progetto multimediale avviato da The Texas Tribune e ProPublica

Il Pulitzer Center on Crisis Reporting, infine, ha sponsorizzato più di 50 progetti che approfondiscono lo studio degli effetti del cambiamento climatico sulle vite delle persone in tutto il mondo. Inoltre, il centro ha stretto accordi con 35 università, istituti di ricerca e scuole superiori per progettare curriculum sui temi del cambiamento climatico.

Foto in anteprima via Boaz Guttman

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