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Iraq: Mosul è stata riconquistata, ma l’ISIS non è sconfitto

14 Luglio 2017 10 min lettura

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Iraq: Mosul è stata riconquistata, ma l’ISIS non è sconfitto

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Mosul è stata finalmente liberata dall'ISIS. Questo, però, non singnifica che Daesh (ISIS) sia stato sconfitto definitivamente. Dall'inizio della scorsa settimana l'annuncio circolava con insistenza. Le prime conferme sono arrivate sabato 8 luglio, quando il comando dell'offensiva irachena ha annunciato che la Città vecchia era stata riconquistata. La domenica seguente il primo ministro iracheno Haider al-Abadi è andato personalmente a Mosul per congratularsi con le forze armate del proprio esercito.

La battaglia di Mosul, una delle capitali dell'autoproclamato Califfato, è andata avanti per nove mesi.

Per tre anni la città è stata nelle mani dei miliziani dell'ISIS da quando Abu Bakr al-Baghdadi, da un pulpito della moschea al Nouri – distrutta dall'ISIS lo scorso giugno, in segno di resa, secondo quanto dichiarato dal primo ministro iracheno – si rivolse al mondo come leader del Califfato.

Il 17 ottobre 2016 l'esercito iracheno, insieme a una coalizione internazionale guidata dagli USA, aveva dato il via all'operazione Qadimun Ya Nainawa ("Stiamo arrivando, Ninewa"), il governatorato di cui Mosul è capitale e antico nome della città assira.

Le conseguenze per i civili di questo scontro sanguinoso sono state devastanti: in migliaia sono stati uccisi o sfollati. Nel rapporto "A tutti i costi: la catastrofe di civili a Mosul ovest", pubblicato da Amnesty International l'11 luglio scorso – che documenta il periodo che va da gennaio a metà maggio 2017 – sono descritti più di 45 attacchi in cui sono morti almeno 426 civili e feriti più di 100. Le responsabilità di questa strage sono attribuibili sia all'ISIS, che ha trasferito i civili dai villaggi circostanti a Mosul ovest rinchiudendoli nelle abitazioni per impedirgli di fuggire e impiegandoli come scudi umani, sia alle forze irachene e della coalizione a guida USA, che non hanno adottato misure adeguate per proteggerli, sottoponendoli a feroci attacchi con armi che non dovrebbero mai essere usate in aree ad alta densità abitativa, si legge nel rapporto.

Ma non è detto che alla liberazione di Mosul corrisponda la fine della presenza dell'ISIS nel territorio.

Non bisogna mai credere a un annuncio militare di vittoria che riguarda il Medio Oriente. Può riferirsi a una battaglia, non alla guerra, che è infinita.

Marwan Saeed, residente nell'area est della città, liberata nel gennaio scorso, dove la vita è tornata in larga parte alla normalità, teme per ciò che accadrà, adesso più di prima: «Sinceramente, non ho speranze per il futuro. L'ISIS ha distrutto la mentalità della gente, la guerra le infrastrutture e noi paghiamo il prezzo. Non esiste una fase "post ISIS". L'ISIS è una mentalità e questa mentalità non sarà distrutta solo con le armi». Della stessa opinione è il generale di brigata Andrew A. Croft, alto ufficiale dell'aviazione in forza nella task force americana che combatte l'ISIS, che ritiene che la riconquista di «Mosul e Raqqa non rappresenti la fine, nel modo più assoluto».

Una lettura condivisa, scrive il New York Times, anche da analisti e funzionari americani e mediorientali che ritengono che il gruppo si sia ormai diffuso a livello internazionale attraverso un'ideologia che continua a motivare militanti in tutto il mondo. «Quelli subiti sono ovviamente colpi durissimi per l'ISIS perché il suo progetto di costruzione dello Stato è concluso, non esiste più il Califfato e questo diminuirà il sostegno e il reclutamento», ha affermato al giornale americano Hassan Hassan, ricercatore del Tahrir Institute for Middle East Policy a Washington.«Ma oggi ISIS è un'organizzazione internazionale. La leadership e la capacità di svilupparsi sono ancora lì».

L'ISIS è riuscito a oscurare i precursori jihadisti come Al Qaeda, non solo mantenendo il controllo sul territorio gestendolo per un lungo periodo, ma conquistando credibilità nel mondo militante e costruendo un'organizzazione complessa. Secondo funzionari dell'intelligence americana e antiterrorismo sono più di 60.000 i militanti islamici uccisi da giugno 2014, inclusa una gran parte della leadership, e circa due terzi i territori sottratti al suo controllo.

Ma quegli stessi funzionari, tra cui il tenente generale Michael K. Nagata, hanno anche riconosciuto che l'ISIS ha mantenuto intatta gran parte della sua capacità di ispirare, realizzare e dirigere attacchi terroristici. «Quando penso che sono ancora operativi e capaci di organizzare attacchi come quelli a cui abbiamo assistito a livello internazionale, nonostante i danni che gli abbiamo inflitto, non possiamo non concludere di non aver compreso a pieno la portata e la forza di questo fenomeno», ha dichiarato recentemente il generale Nagata in un'intervista pubblicata dal Combating Terrorism Center di West Point.

L'ISIS ha condotto quasi 1500 attacchi in 16 città in Iraq e Siria e ha compensato le perdite subite incoraggiando militanti all'estero – in Libia, Egitto, Yemen, Afghanistan, Nigeria e Filippine – e attivandone altrove. Dalla fine del 2014 alla metà del 2016, secondo i dati forniti da funzionari europei di intelligence, tra i 100 e i 250 combattenti stranieri sono arrivati in Europa attraverso la Turchia, senza però rappresentare la minaccia più pericolosa fino a quando l'ideologia dell'ISIS continuerà a motivare gli attentatori.

Uno studio della George Washington University e dell'International Centre for Counter-Terrorism ha analizzato i 51 attacchi avvenuti in Europa, negli Stati Uniti e in Canada, da giugno 2014 a giugno 2017, rivelando che solo il 18% degli aggressori ha combattuto in Iraq o in Siria. Per la maggior parte, quindi, gli attentatori sono cittadini del paese dove avvengono gli attentati. Il Califfato, inoltre, continua ad essere presente su Internet in maniera massiccia attraverso la propaganda, manuali che insegnano a costruire ordigni, guide di crittografia e suggerimenti su come uccidere il maggior numero di persone con attentati con autocarri. I suoi membri minimizzano le perdite, le considerano sconfitte necessarie e inevitabili in una battaglia mondiale a lungo termine contro tutti quelli che rifiutano di accettare la loro ideologia.

Inoltre, c'è il timore che molti combattenti dell'ISIS che non sono stati catturati o uccisi a Mosul, abbiano momentaneamente deposto le armi, radendosi la barba e cambiando aspetto, per infiltrarsi tra i civili e aspettare un momento migliore per tornare nuovamente ad attaccare.

I soldati ci hanno riferito che negli ultimi giorni della battaglia, quando hanno ucciso combattenti dell'ISIS, spesso hanno trovato corpi che non sembravano avere tratti somatici arabi. Per questo credono che i membri iracheni dell'ISIS stiano scappando radendosi la barba per unirsi ai civili in fuga. I combattenti stranieri, invece, non hanno via di scampo.

Un altro rischio tuttora incombente è rappresentato dalle mogli dei combattenti che, alla pari dei militanti, si lasciano saltare in aria ai posti di blocco iracheni. La scorsa settimana una donna, con in braccio un bambino e in mano un detonatore, ha cercato di farsi esplodere mentre si avvicinava a un soldato.

A causa del timore di attentati, fuggire dai combattimenti e mettersi al riparo diventava, per la popolazione, un'impresa sia per rimanere illesi schivando i colpi di arma da fuoco, sia perché, una volta scansato il pericolo, gli uomini dovevano dimostrare, sollevando i vestiti, di non essere dei potenziali kamikaze in azione e di non appartenere a Daesh.

Goran Tomasevic, Reuters

Da questo momento in poi, comunque, le sfide che si pongono sono diverse e complicate. La prima è impedire all'ISIS di ricompattarsi nei territori liberati (ad oggi è stato riconquistato il 94% di quanto sottratto) approfittando di eventuali conflitti intestini tra sciiti e sunniti. Si teme, inoltre, che i militanti destabilizzino l'ambiente con attacchi terroristici o che puntino alla radicalizzazione di milioni di sunniti sfollati a causa del conflitto e agguerriti contro la coalizione a causa dei continui attacchi mortali che hanno colpito la popolazione.

via FT

«È giunto il momento per tutti gli iracheni di unirsi per assicurare che l'ISIS sia sconfitto nel resto dell'Iraq e che non sia consentito alle condizioni che hanno portato all'aumento della sua presenza sul territorio di ripresentarsi», ha dichiarato lunedì scorso il tenente generale Stephen Townsend, comandante delle operazioni della coalizione a guida USA, ricordando che i combattenti ISIS possono ancora nascondersi nella Città vecchia. «Non bisogna commettere errori. Questa vittoria da sola non elimina l'ISIS. C'è ancora una dura battaglia da fare» ha aggiunto, congratulandosi con le forze militari irachene e i combattenti curdi peshmerga per aver contribuito alla liberazione di Mosul.

Intanto, domenica, riporta il Financial Times, mentre a Mosul l'esercito iracheno festeggiava, in una chat su Telegram un sostenitore dell'ISIS, sfidando chi non aveva contribuito alla difesa della città e motivando futuri attentatori, rendeva noto che i militanti rimasti intrappolati a Mosul avevano definito un patto di morte: "I santi guerrieri di ISIS hanno combattuto fino alla morte per difendere Mosul. Tu cosa hai fatto per difendere il Califfato?". Anche per questo Hisham al-Hashemi, analista dell'insurrezione irachena, si aspetta rappresaglie attraverso un grande attacco da sferrare in Europa, in un futuro neanche troppo lontano.

In Iraq, chi è fuggito dall'ISIS sembra non voler credere che sia finita. Vano il tentativo di un comandante iracheno di convincere una famiglia, che vive in un'area riconquistata di Mosul, a raccontare la propria storia rilasciando un'intervista al Financial Times. Rispondendo all'invito del comandante di non essere più spaventati perché l'ISIS è ormai andato via, il capo famiglia ha risposto: «Sbagli. Non se ne sono mai andati».

Riportare a Mosul centinaia di migliaia di civili sunniti sfollati non sarà impresa facile anche alla luce di ciò che è successo nelle altre città liberate dall'ISIS, come Falluja e Ramadi, dove il governo centrale non è riuscito a ricostruire e a ripristinare la normalità poiché le tensioni tra sunniti e sciiti ancora minano gli sforzi per riunire il paese.

Gli abusi commessi in passato dal governo controllato dagli sciiti e dalle sue forze di sicurezza e dagli alleati contro le famiglie sunnite creano ancora profonde fratture che impediscono un processo di unità che sarebbe fondamentale in questo momento. A ciò si aggiunge la paura dei cittadini di tornare a Mosul dove hanno perso familiari e/o subito torture o altri tipi di maltrattamenti dai militanti dell'ISIS o non sono stati adeguatamente difesi dalle forze dell'esercito iracheno e della coalizione. «La popolazione di Mosul ha bisogno di essere curata e riabilitata psicologicamente con programmi di recupero a lungo termine», ha dichiarato Intisar al-Jibouri, membro del parlamento di Mosul.

Zohra Bensemra, Reuters

L'altra sfida che si pone all'attenzione di chi governa è quindi l'unità tra sciiti e sunniti.

Il rischio di violenza tra sunniti e sciiti è molto alto. Nel 2014 l'Isis è riuscito a conquistare Mosul in maniera relativamente facile perché la popolazione, prevalentemente sunnita, non godeva della protezione di Baghdad. C'era chi sosteneva che l'esercito iracheno post Saddam, in gran parte composto da sciiti, si comportasse nei confronti del popolo di Mosul assumendo un potere occupante.

L'obiettivo da raggiungere adesso è assicurare che il prossimo governo locale di Mosul tenga conto degli interessi dei sunniti e che non li emargini come accaduto precedentemente e che Baghdad garantisca la ricostruzione e faciliti il rientro della popolazione.

Alkis Konstantinidis, Reuters

L'aspetto positivo da cogliere è che la maggior parte dei leader iracheni riconosce queste come sfide. Il primo ministro, Haider al-Abadi, si è dimostrato più sensibile e inclusivo del suo predecessore Nouri al-Maliki. All'inizio di quest'anno Moqtada al-Sadr, il leader radicale sciita iracheno, ha affermato: «Temo che la sconfitta di Daesh sia solo l'inizio di una nuova fase. Sono molto orgoglioso della diversità dell'Iraq, ma la mia paura è che potremmo assistere al genocidio di alcuni gruppi etnici o settari». Per evitare questo scenario ha proposto una serie di visite dei leader delle comunità sciite nelle aree sunnite e viceversa per avviare un dialogo sulla ricostruzione e ha avvertito pubblicamente i membri della forza militare, che aveva mobilitato per contrastare l'ISIS, che qualsiasi abuso commesso sui civili sunniti sarà punito duramente.

Poi c'è la questione curda. Nei primi mesi dell'occupazione dell'ISIS di Mosul, nel 2014, gruppi di resistenza curda hanno occupato vasti territori della piana di Nivive, ad est della città, da sempre oggetto di contesa tra arabi e curdi, per impedire a Daesh di impradonirsi di Erbil, la capitale del governo regionale curdo. Stessa cosa è accaduta a Kirkuk, provincia ricca di petrolio. In base a quanto stabilito dalla Costituzione approvata dopo la caduta di Saddam, il destino di queste aree avrebbe dovuto essere definito da un referendum ripetutamente rinviato. Se fino al 2014, Baghdad era quindi riuscita a mantenere il controllo delle zone rimandando tale decisione, attualmente la piana di Nivive e Kirkuk sono occupate dai curdi.

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È del tutto probabile che questa situazione provocherà un allontanamento delle parti rispetto a come l'Iraq debba dividere i propri ricavi petroliferi e il bilancio federale. Oltre a ciò, bisogna anche considerare che a settembre è stato fissato il referendum sull'indipendenza del popolo curdo, nonostante le obiezioni ripetutamente mosse da Stati Uniti, Turchia e Iran.

In questo contesto va inserito ciò che accade in Siria e la guerra al confine che ha aiutato l'ISIS a fiorire in Iraq dopo che il suo predecessore, Al-Qaeda, era stato sconfitto. Senza la pace in Siria, sostengono in molti, c'è poca possibilità che vi sia stabilità in Iraq.

Foto anteprima via Thaier Al-Sudani/Reuters

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