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Contro la violenza sulle donne: media, scuola, diritti #nonunadimeno

28 Novembre 2016 25 min lettura

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Contro la violenza sulle donne: media, scuola, diritti #nonunadimeno

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24 min lettura

di Angelo Romano e Andrea Zitelli

Migliaia di persone hanno partecipato alla manifestazione di sabato scorso, il giorno dopo la giornata internazionale contro la violenza sulle donne.

Sotto lo slogan “Non una di meno”, gli organizzatori – tra cui le promotrici la rete dei centri antiviolenza, l'Unione delle donne in Italia e l'Associazione Iodecido – hanno parlato di circa 200 mila partecipanti, “donne di tutte le generazioni, anche diversi uomini, soprattutto giovani”.

Contro soprusi, molestie, uccisioni, violenze sul lavoro, discriminazioni e diritti negati, un lungo corteo ha sfilato lungo le strade del centro di Roma. Gli organizzatori hanno denunciato la scarsa attenzione all’evento di sabato da parte dei telegiornali.

Nella giornata di ieri, sono stati inoltre organizzati dei tavoli tematici di lavoro per arrivare a scrivere “dal basso” un piano femminista nazionale antinviolenza che non sia “straordinario” ma strutturale. Per questo motivo, Oria Gargano, presidente della cooperativa Befree che gestisce centri antiviolenza, ha definito questi tavoli più importanti della manifestazione del giorno prima.

Alla chiusura di questi incontri, che hanno visto affrontare tematiche come il “piano legislativo e giuridico”, “lavoro e welfare”, “educazione alle differenze, all’affettività e alla sessualità” per una formazione nelle scuole come prevenzione e di contrasto alla violenza di genere, il “diritto alla salute sessuale e riproduttiva” e la “narrazione della violenza attraverso i media”, sono state presentate alcune linee guida che saranno la base per di discussione nei prossimi mesi per future richieste.
Un processo che è appena partito e che noi continueremo a seguire, iniziando ad analizzare la complessità del tema, dalla questione linguistica sul termine "femminicidio", proseguendo con la mancanza di un'analisi statistica univoca per descrivere il fenomeno e le azioni politiche adottate finora.

“Femminicidio”, le origini di una parola e le critiche

Il recente utilizzo del neologismo “femminicidio” ha mosso più di una critica e domanda nel dibattito pubblico e politico. Non basta la parola “omicidio” per indicare l’uccisione di una persona? Perché c’è la necessità di sottolineare il sesso di una vittima? Non c’è il rischio di offendere le donne, usando “femmina” che pare “più propria dell’animale”?, si sono domandati in molti.

Isabella Bossi Fedrigotti, ad esempio, in un articolo del 2012 uscito sul Corriere della Sera, criticava l’uso di questo termine entrato nella lingua italiana a partire dai primi anni del 2000, perché rischiava di “ottenere un effetto opposto a quello che si propone, che finisce per far intendere questi delitti come chiusi in una categoria, meno gravi dei normali omicidi”.
Adriano Sofri, sempre in quello stesso anno, in una riflessione sulle "donne ammazzate perché donne" uccise dagli uomini, definiva “femminicidio” una parola non bella.

Nel tempo, a questi dubbi e osservazioni hanno ribattuto in diversi per dimostrare le ragioni storiche e linguistiche della parola.
Ad esempio, Matilde Paoli, della redazione Consulenza Linguistica all’Accademia della Crusca (un simile botta e risposta si trova anche sul sito della Treccani), in un articolo del 2013, aveva fornito risposte a simili resistenze all’utilizzo del termine nella lingua di tutti i giorni.

Paoli inizia specificando il significato di “femminicidio”, ripreso dal dizionario Devoto-Oli (il termine è presente anche nello Zingarelli, nel vocabolario Treccani, nel Grande dizionario italiano dell'uso (Gradit), nel Garzanti), che non significa solo “uccisione di una donna o di una ragazza” ma anche:

qualsiasi forma di violenza esercitata sistematicamente sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di perpetuarne la subordinazione e di annientarne l’identità attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico, fino alla schiavitù o alla morte.

Non si tratterebbe quindi di una semplice “parola in più”, continua Paoli, ma “anche e soprattutto di un rovesciamento di prospettiva, di una sostanziale evoluzione culturale prima e giuridica poi”.
Per spiegare al meglio il concetto, la studiosa presenta due esempi. Se il riferimento è a una situazione “neutra”, come una donna uccisa nel corso di una rapina in banca, allora si può parlare di “omicidio”. Nel caso in cui, invece, si legge di una storia del genere quale parole andrebbe utilizzata?

È un omicidio? È un infanticidio? O è qualcosa di più e di diverso, qualcosa che si colloca all’interno di una visione culturale che vede il femminile (non si può certo parlare di donne in questo caso) disprezzato e disprezzabile? L’uccisione è solo (!) un “passaggio” di una sequenza che prevede prima il sequestro, la violenza, lo stupro e dopo l’abbandono del cadavere tra l’immondizia, il tutto da parte di un uomo su una bambina. Si potrebbe forse rispondere che si tratta della somma di una serie di crimini, tutti previsti e denominati; ma alla base di questa orribile combinazione c’è la concezione condivisa della “femmina” come un nulla sociale. Insomma non si tratta dell’omicidio di una persona di sesso femminile, a cui possono essere riconosciute aggravanti individuali, ma di un delitto che trova i suoi profondi motivi in una cultura dura a rinnovarsi e in istituzioni che ancora la rispecchiano almeno in parte.

Ecco perché, ritiene la scrittrice Michela Murgia, “ridurre la pregnanza del termine alla sua più estrema conseguenza non aiuta la presa in carico collettiva delle cause e delle conseguenze, che hanno un raggio infinitamente più ampio”.

Questa “base teorica” fu coniata nel 1992 dalla criminologa statunitense Diana Russell con il saggio Femicide: The Politics of Woman Killing. La studiosa, spiega Antonella Merli su Diritto Penale Contemporaneo, voleva “‘dare un nome’ a un fenomeno, altrimenti senza nome, e un fondamento teorico a un problema spesso disconosciuto o del tutto ignorato, anche a livello istituzionale, e comunque difficile da inquadrare e indagare con il linguaggio tradizionale dominante, neutrale e parziale, da sempre usato dagli uomini: la violenza estrema esercitata sistematicamente dall’uomo sulla donna per il fatto di essere donna – cioè in ragione della sua appartenenza al genere femminile, per motivi di odio, gelosia, sadismo, disprezzo, passionali, o per un senso di possesso o di superiorità e di dominio sulla donna”.

L'anno successivo, il 1993, l'antropologa messicana Marcela Lagarde, rifacendosi agli studi di Russell e utilizzando in castigliano “feminicidio”, tradotto dall’inglese “femicide”, ampia il concetto della parola “femminicidio”, dandole una connotazione sociale, culturale e politica per indicare quegli atti di violenza e discriminazione commessi contro le donne e inseriti in una società e cultura che quasi li tollera.

Lagarde nel suo studio racconta e analizza i numerosissimi omicidi di donne compiuti ai confini tra il Messico e gli Stati Uniti, in particolare nella città di Ciudad Juárez (una storia di violenza ancora oggi senza fine, scrive Sally Palomino su El Pais e raccontata al grande pubblico nel 2006, con il film Bordertown. Nel 2010, inoltre, lo Stato messicano è stato condannato dalla Corte interamericana dei diritti umani “per non aver adeguatamente prevenuto la morte di tre giovani donne i cui corpi erano stati ritrovati in un campo nei pressi di Ciudad Juárez, rimarcando "come la risposta inadeguata delle istituzioni si inserisca in una situazione strutturale di violazioni sistematiche dei diritti fondamentali delle donne sulla base del genere di appartenenza”, spiega la Treccani), definita da Luis Chaparro su Vice News America “il simbolo internazionale per questi tipi di crimini”.
Così per Lagarde il "femminicidio" indica

la forma estrema di violenza di genere contro le donne, prodotto della violazione dei suoi diritti umani in ambito pubblico e privato, attraverso varie condotte misogine che comportano l’impunità delle condotte poste in essere, tanto a livello sociale quanto dallo Stato e che, ponendo la donna in una situazione indifesa e di rischio, possono culminare con l’uccisione o il tentativo di uccisione della donna stessa, o in altre forme di morte violenta di donne e bambini, di sofferenze psichiche e fisiche comunque evitabili, dovute all’insicurezza, al disinteresse delle Istituzioni e all’esclusione dallo sviluppo e dalla democrazia.

La marcia delle parenti delle donne uccise a Ciudad Juarez per chiedere giustizia nel novembre del 2003, foto di Guadalupe Perez/EPA, via Vice News.
La marcia delle parenti delle donne uccise a Ciudad Juarez per chiedere giustizia nel novembre del 2003. Foto di Guadalupe Perez/EPA, via Vice News.

Successivamente “femminicidio”, insieme al suo significato legato a tutte le forme di discriminazione e violenza di genere, al di là degli omicidi delle donne, è entrato nel dibattito politico e giuridico internazionale.
Dal 2008, il termine si è diffuso ampiamente anche nella lingua italiana, grazie al suo utilizzo da parte dei media e anche con la pubblicazione del libro dell’avvocatessa Barbara Spinelli, intitolato Femminicidio. Dalla denuncia sociale al riconoscimento giuridico internazionale. L’obiettivo del lavoro, spiegava la stessa autrice nell’introduzione, era quello di “ricostruire la storia del percorso di rivendicazione dei diritti delle donne incentrato sul concetto di femminicidio, e farla conoscere in Italia”, “per evitare che si parli di femminicidio in maniera acritica, ignorandone la storia, facendone l’ennesimo slogan politico passeggero, vuoto di contenuti forti, veicolo della cultura dell’emergenza”.

Per tutti questi motivi, scrive ancora Merli su Diritto Penale Contemporaneo, si tratta di un termine “denso di significato politico oltre che criminologico, che sottintende una motivazione (o giustificazione) della violenza sulle donne che mette in evidenza la criticità di un modello socioculturale ormai arcaico che contribuisce a relegare la donna, in quanto donna, a un ruolo subordinato, cioè al ruolo coperto socialmente in ragione del genere di appartenenza (sposa, madre, figlia, sorella…), negandole, di fatto, parità di diritti con l’uomo, e sottovalutando, o minimizzando, gli atti di violenza perpetrati nei suoi confronti”.

Le politiche internazionali di contrasto alla violenza di genere

A livello politico, misure e programmi di contrasto alla violenza sessuale e di genere sono state dibattute da tempo e, in alcuni casi, documenti mirati sono stati approvati da organizzazioni internazionali e singoli governi nel corso del tempo. Ad esempio, il 7 novembre del 1967 è stata adottata dall’Assemblea generale dell’Onu, la Dichiarazione sull'eliminazione delle discriminazioni contro le donne. Un documento, che tramite la Convenzione sull'eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne, (CEDAW, qui il testo), è stata adottato dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 18 dicembre 1979. Gli Stati che vi hanno aderito, negli anni, hanno avuto l’obbligo di rimuovere le situazioni discriminatorie, non solo attraverso modifiche normative, ma anche tramite un cambiamento sul piano culturale e formativo.

Altre successive importanti tappe da ricordare a livello internazionale sono la III Conferenza Mondiale delle donne di Nairobi (1985), convocata dalle Nazioni Unite, in cui fu riconosciuto “il carattere universale della violenza di genere e contemporaneamente si analizzava il problema della subordinazione femminile anche alla luce degli specifici problemi di natura socioeconomica vissuti nelle varie aree del globo e dalle diverse società, concorrenti nel determinare le diverse forme assunte dal fenomeno della violenza”, scrive il Centro Studi di Politica Internazionale, la IV Conferenza svoltasi in Cina, dieci anni dopo, nel 1995, dove sono stati individuati e analizzati i 12 punti che ostacolano il miglioramento della condizione femminile, le varie risoluzioni dell’Assemblea generale dell’ONU sull’attivazione di misure adeguate alla prevenzione e al contrasto di genere, come quella del 1997 dal titolo “Misure in materia di prevenzione dei reati e di giustizia penale per l’eliminazione della violenza contro le donne, Misure da prendere per l’eliminazione dei delitti contro le donne commessi in nome dell’onore del 2002 e Intensificazione degli sforzi per eliminare ogni forma di violenza contro le donne del 2012.

Anche l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) è intervenuta sull’argomento con vari documenti: in una risoluzione del 1996 dal titolo Prevenzione della violenza: una priorità della sanità pubblica e nel I° Rapporto Mondiale su violenza e salute dell’OMS del 2002, viene riconosciuta la violenza come problema cruciale per la salute delle donne; nel 2013 con lo studio Valutazione globale e regionale della violenza contro le donne: diffusione e conseguenze sulla salute degli abusi sessuali da parte di un partner intimo o da sconosciuti (prodotto in collaborazione con la London School of Hygiene & Tropical Medicine e la South African Medical Research Council) si parla di violenza sulle donne come “un problema di salute di proporzioni globali enormi”, invitando a lavorare insieme per eliminare ogni forma di tolleranza verso la violenza femminile e favorire il sostegno offerto alle vittime di questa esperienza. Nello studio vengono anche presentate nuove linee guida che hanno l’obiettivo di aiutare i diversi paesi a migliorare l’approccio utilizzato dal proprio sistema sanitario nell’affrontare casi di abusi.

Una delle date decisive resta comunque il 2011 perché a livello internazionale viene firmato il primo atto vincolante che punta a creare un quadro normativo a tutela delle donne contro qualsiasi forma di violenza, cioè la “Convenzione di Istanbul”. Il testo che viene adottato dal Consiglio d’Europa l’11 maggio di quello stesso anno.
La Convenzione esorta gli Stati firmatari ad applicare le misure necessarie per ottenere un cambiamento radicale di mentalità per eliminare i pregiudizi fondati sulla «inferiorità» delle donne e gli stereotipi nei confronti di donne e uomini e chiede di fermare e sanzionare la violenza sulle donne, in qualunque ambito, affermando il principio che nessun argomento di natura culturale, storica o religiosa può essere portato come giustificazione. Attualmente gli stati firmatari appartenenti al Consiglio d’Europa sono 36, in 22 di essi la Convenzione è entrata effettivamente in vigore, come Albania, Belgio, Danimarca, Finlandia, Francia, Italia, Paesi Bassi, Portogallo, Romania e Turchia.

Le politiche in Italia

Negli anni, il Parlamento italiano ha votato diversi leggi di contrasto, come Norme contro la violenza sessuale del 1996, Misure contro la violenza nelle relazioni familiari del 2001 e la legge detta “Anti-stalking” del 2009.

Nel 1985 l’Italia ha firmato la Convenzione CEDAW. Più di 25 anni dopo, nel 2011, è stato pubblicato il “rapporto Ombra”, redatto dalla piattaforma italiana “Lavori in Corsa: 30 anni CEDAW” (formata da avvocati, giuristi e soggetti della società civile), sulle mancanze e criticità da parte dello Stato italiano nell’attuazione di quanto previsto dalla Convenzione di Istanbul, che puntava all'eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne. Successivamente, anche grazie al "rapporto Ombra", Violeta Neubauer, membro del comitato ONU che vigila sull’applicazione del testo firmato nel 1985, aveva rivolto un appello all’Italia per «fare molto di più» perché c'è «uno scarto tra legge e sua applicazione che va colmato».

Nel giugno del 2013, il governo Letta ha ratificato la Convenzione di Istanbul, entrata poi in vigore in Italia ad agosto del 2014. Sempre nell’estate del 2013, il governo, tramite un decreto legge (convertito in legge ad ottobre dello stesso anno) ha approvato delle misure urgenti per aggiornare e rimodulare gli strumenti di prevenzione e di repressione della violenza di genere.

Ad esempio, sono state inasprite le pene per i reati di maltrattamento in famiglia e di violenza sessuale ed estese le aggravanti per il reato di stalking, si legge su Altalex, quotidiano online di informazione giuridica. Inoltre, è stata prevista l’adozione di un nuovo piano straordinario di protezione delle vittime di violenza sessuale e di genere “predisposto in sinergia con la nuova programmazione
comunitaria per il periodo 2014-2020”.

Un decreto legge che all'epoca aveva ricevuto svariate critiche, come l’inserimento delle normative che riguardano la violenza contro le donne nel pacchetto sicurezza, mancanze nelle questioni di prevenzione, sui centri antiviolenza e la previsione di aggravanti solo per alcuni reati e non per altri.

Riguardo al “piano straordinario” emanato nel 2013, bisogna specificare che è stato presentato circa due anni dopo, a maggio 2015, e approvato due mesi dopo, a luglio dello stesso anno.
tra diverse polemiche perché ritenuto “peggiorativo” per le donne che subiscono violenza

La Corte dei Conti in un rapporto pubblicato lo scorso settembre, incentrato sull’analisi della gestione da parte dello Stato delle risorse per l’assistenza e il sostegno alle vittime di violenza e ai loro figli, ha prima spiegato che i fondi forniti a questo piano sono di 29 milioni di euro (a cui si aggiungono i circa 10 milioni di euro previsti per il 2016) per poi sottolineare che la loro gestione “è caratterizzata da una generalizzata lentezza delle procedure di avvio dei diversi interventi”, una circostanza “che incide non positivamente sull’efficacia delle attività e dei relativi risultati”.

I giudici contabili hanno specificato inoltre che la modalità di attuazione del piano si è rivelata “non funzionale ad una immediata attuazione delle misure adottate”. Una problematica sottolineata anche da Titti Carrano, presidente della rete dei Centri Antiviolenza D.I.R.e (Donne in rete contro la violenza), la prima associazione italiana a carattere nazionale di centri antiviolenza non istituzionali e gestiti da associazioni di donne, intervistata il 25 novembre scorso da L’Espresso:

A che punto è quel piano?
“Scadrà a giugno 2017, è stato fatto ben poco, quasi niente, il dipartimento delle Pari opportunità ha fatto dei bandi, indirizzati alle scuole. Il resto – prevenzione, sensibilizzazione, rafforzamento dei centri antiviolenza – è rimasto sulla carta”.

Non c’è stata una accelerazione da settembre a oggi?
“Una riunione, ne è seguita un’altra qualche giorno fa. Stiamo aspettando l’insediamento dell’osservatorio previsto dal Piano, nel quale sono previste le associazioni, e che ha la funzione di fare proposte alla cabina di regia inter-istituzionale”.

Intanto, nelle legge di bilancio (che ha ricevuto la fiducia dell’aula della Camera lo scorso 25 novembre, il voto finale nella stessa Camera è previsto per lunedì 28 novembre. Il testo passerà poi all’esame del Senato) sono stati stanziati per il “piano straordinario”, ai servizi territoriali, ai centri antiviolenza e ai servizi di assistenza alle donne, per il triennio 2017-2019, 5 milioni di euro all'anno.

I dati sulla violenza contro le donne in Italia

Non esiste in Italia una raccolta ufficiale dei dati sugli omicidi delle donne che consenta di catalogarli in maniera univoca e di compararli fra di loro. Istituti di ricerca, il dipartimento di pubblica sicurezza del ministero dell’Interno, associazioni che si occupano di violenza delle donne e centri anti-violenza monitorano il fenomeno facendo riferimento anche a fonti diverse. I numeri cambiano a seconda della prospettiva utilizzata e dei criteri adottati per individuare e aggregare i dati e possono dare una percezione diversa del fenomeno, dando la sensazione di un incremento dei casi di omicidi, di una sua stabilizzazione o di una diminuzione.

Questa situazione, spiega Rachele Gonnelli in uno speciale pubblicato dal Manifesto lo scorso 23 novembre, riflette il fatto che il femminicidio non sia un fenomeno ancora codificato in modo chiaro. Posizione espressa anche da Titti Carrano racconta sempre all'Espresso: «i dati servono, è importante che ci siano, per poter poi indirizzare le politiche. Ma se non arriviamo a una definizione condivisa di femminicidio, non possiamo averli».

Una condizione non esclusiva solo dell’Italia ma, come emerge anche dal primo rapporto dell’Agenzia Ue per i diritti fondamentali, estendibile a tutta Europa.

L’esigenza di una raccolta dati ufficiale è stata espressa anche dal Piano straordinario nazionale antiviolenza che prevede che sia costituita presso la Presidenza del Consiglio una banca dati nazionale, che consenta di “organizzare in modo sistematico e integrare le informazioni già disponibili attraverso la possibilità di attingere alle fonti di raccolta dati esistenti, in una prospettiva di organicità e completezza”. Ma i lavori per la realizzazione di questa banca dati, scrivono i giudici contabili, vanno a rilento.

I dati più recenti sono quelli diffusi qualche giorno fa dall’Eures, che da diverso tempo monitora gli omicidi volontari in Italia e dal 2012 pubblica ogni anno un rapporto su tutte le morti femminili legate a una relazione di prossimità con la vittima.
Secondo l’istituto di ricerca, sarebbero 116 le donne uccise nei primi dieci mesi del 2016, più di una ogni tre giorni, più o meno quanto le vittime (120) registrate nello stesso periodo dello scorso anno.

Nel 92,5% dei casi gli omicidi sono stati commessi da uomini, le armi più utilizzate sono state quelle da taglio. L’età media delle vittime è piuttosto elevata, pari a 51 anni.

Ottantotto omicidi (il 75,9%) sono avvenuti in un contesto famigliare: 43 donne sono state uccise dal coniuge/convivente, 15 da un ex partner e 2 da un partner/amante non convivente. In 14 casi sono state le madri a essere uccise, in 5 le figlie.

Più della metà degli omicidi si concentra al Nord (62 donne uccise, il 53,4% del totale, nel 2015 erano state 49). Trentuno le vittime al Sud (56 nel 2015), 23 nel centro Italia (erano state 15 un anno fa).

Estendendo l’arco temporale, negli ultimi dieci anni, prosegue l’Eures, le donne uccise in Italia sono state 1740: 1251 (il 71,9%) in famiglia (846 all'interno della coppia), 224 (il 26,5%) per mano di un ex partner.

I dati diffusi lo scorso luglio dal ministero dell’Interno, in occasione della presentazione della campagna di prevenzione e contrasto alla violenza di genere e ai maltrattamenti in famiglia a cura della Polizia di Stato, parlano invece di un calo di uccisioni e di violenza nei confronti delle donne.

Nel primo semestre del 2016, si legge nelle slide del ministero, le donne vittime di omicidio sarebbero state 74 (contro le 96 nello stesso periodo del 2015), quelle colpite da atti persecutori 3416 (5077 nel 2015), quelle che hanno subito violenze sessuali 4164 (5398 nel 2015).

Tuttavia, anche i dati del ministero dell’Interno rischiano di non essere del tutto attendibili. Le loro mappature non prendono in considerazione il contesto in cui sono avvenuti gli episodi di violenza: «Sono rubricati come tali tutti gli omicidi di donne da parte di uomini, anche durante una rapina», spiega Emanuela Valente, che da diversi anni conduce una ricerca incrociata per l’Osservatorio dell’associazione.

Anche l’Istat segue un approccio molto simile a quello del ministero dell’Interno. Come scriveva Giulia Siviero nel 2013, l’istituto di ricerca analizza il fenomeno dell’omicidio a partire dal sesso delle vittime (quanti maschi, quante femmine) e, nel caso delle donne, riporta le percentuali per tipologia d’autore (partner o ex partner, parente, amico, estraneo). In entrambi i rilevamenti mancherebbe, in altre parole, un’indagine che individui motivazioni riconducibili alla relazione tra sessi.

Nel suo ultimo rapporto “Sicurezza 2015” (riferito pertanto al 2014), l’Istat evidenzia che se il tasso degli omicidi degli uomini è sceso negli ultimi dieci anni dal 1,8 a 1,1 ogni 100mila uomini, quello relativo alle donne è rimasto costante (0,5/0,6 omicidio per 100mila donne). Questo significa che, spiega l’istituto di ricerca, permangono le differenze di genere per le vittime degli omicidi.

L’Osservatorio dell’associazione “Io in Quanto Donna” utilizza criteri molto più stringenti classificando come femicidi i crimini di odio basati sul sesso. Seguendo questo criterio, l’associazione ha individuato nel 2016 solo 69 femicidi, mantenendosi in linea con la media di 70 uccisioni l’anno. Anche rispetto ai dati diffusi dal ministero dell’Interno, i casi di femicidio nel primo semestre sarebbero 36, poco meno della metà delle 74 donne morte per mano di un uomo contate dal Ministero.

Dal 2005 la Casa Internazionale delle Donne fa un’analisi delle pagine di cronaca locale per capire il contesto in cui avvengono gli omicidi delle donne. Il lavoro rivela l’esigenza di “seguire le notizie oltre il tempo naturale della singola e fugace notizia del giorno” e “riconnotare i singoli eventi in una dimensione più ampia e complessiva”. Vale a dire, inserire le singole storie (che, prese singolarmente, sono percepite come eventi frammentati e imprevedibili) in una cornice comune in modo tale da definire modi e forme del fenomeno della violenza di genere spesso silenzioso e sommerso. Nei dati raccolti dalla Casa Internazionale delle Donne ci sono sia i casi di uccisione per mano di familiari e conoscenti, sia quello delle lavoratrici del sesso, spesso associati invece ai delitti nell’ambito della criminalità organizzata.

Secondo l’ultima analisi disponibile, relativa al 2014, le donne uccise sarebbero state 115.
Nella maggioranza dei casi (il 32,17%) non si è in grado di determinare le motivazioni del gesto, a ulteriore testimonianza, si legge nel documento, che questi episodi di violenza avvengono “in uno spazio privato senza possibilità o capacità di mediazioni collettive”.

Le diverse indagini statistiche mostrano così dati difficilmente comparabili tra di loro e ognuna veicola un’idea diversa di femicidio, a seconda che ci riferisca al sesso della persona uccisa, al contesto in cui è avvenuto il crimine, alle tipologie di relazione tra vittima e omicida, o che sia verificata la volontà di uccidere la donna in quanto donna.

Tuttavia, puntare l’attenzione sugli omicidi e sui dati, scriveva sempre Giulia Siviero, intervenendo in un dibattito sull’attendibilità delle diverse indagini statistiche con Davide M. De Luca sul Post e Fabrizio Tonello sul Fatto Quotidiano, rischia di far concentrare solo sull’aspetto più eclatante, facendo perdere di vista un fenomeno strutturale che va al di là degli omicidi delle donne e in cui la morte della donna è l’esito di atteggiamenti o pratiche sociali misogine: si può parlare di femmincidio, si chiede la giornalista, solo quando scatta l’emergenza? C’è una soglia, superata la quale, scatta l’emergenza? E, verificato che il fenomeno non aumenta, il fatto che si mantenga costante (o addirittura diminuisca) rende il femminicidio una questione sociale e culturale meno rilevante?

La violenza contro le donne dentro e fuori la famiglia

Nel giugno 2015 l’Istat e il Dipartimento per le Pari Opportunità hanno diffuso i dati dell’indagine statistica sulla violenza contro le donne dentro e fuori la famiglia. La ricerca ha cercato di rilevare il numero delle donne che hanno dichiarato di aver subito una violenza sessuale, in quale periodo della loro vita, quali sono le tipologie di violenza e quali figure le hanno esercitate.

La violenza contro le donne, si legge nel rapporto, è un fenomeno ampio e diffuso, che riguarda nella stessa misura sia italiane che straniere, tenendo conto della componente sommersa non rilevabile attraverso le denunce o altre fonti di dati sulla violenza. Nel 2014, sei milioni 788mila donne (il 31,5% d quelle tra i 16 e i 70 anni) hanno dichiarato di aver subìto nel corso della propria vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale: la violenza sessuale era la forma più diffusa (il 21%), il 20,2% ha dichiarato di aver subito una violenza fisica, il 16,1% è stata vittima di stalking, il 5,4% forme più gravi di violenza sessuale come stupri (652mila) e tentati stupri (746mila).

I dati consentono anche di vedere come si esprime la violenza. Le donne subiscono minacce (12,3%), sono spesso spintonate o strattonate (11,5%), sono oggetto di schiaffi, calci, pugni e morsi (7,3%) o colpite da oggetti contundenti (6,1%), sono state costrette a subire rapporti indesiderati (4,7%). Il 10,6% delle donne ha dichiarato di aver subito violenze sessuali prima dei 16 anni.

In generale, i dati registrano alcuni fenomeni positivi. Rispetto al 2006, le violenze fisiche e sessuali hanno registrato un calo del 2% (passando dal 13,5% all’11,3%). Inoltre, si è avuta una maggiore capacità da parte delle donne di porre fine o prevenire relazioni violente e un’accresciuta consapevolezza di essere in situazioni di pericolo. Sono aumentati i casi in cui le donne hanno percepito la violenza subìta come un reato (dal 14,3% al 29,6%) e hanno presentato denuncia alle forze dell’ordine (dal 6,7% all’11,8%), hanno deciso di parlarne con qualcuno (dal 67,8% al 75,9%) e cercato aiuto ai servizi specializzati, come centri e sportelli antiviolenza.

Da chi sono commesse le violenze

Le violenze più gravi sono commesse da persone conosciute: nel 67,2% dei casi gli stupri sono stati fatti dal partner attuale o precedente, nel 3,6% da parenti e nel 9,4% da amici. Il 65,2% degli episodi di violenza è avvenuto in presenza dei figli, un dato preoccupante e in crescita (era il 60,3% nel 2006) se si considera che, si legge nel rapporto, “i figli che assistono alla violenza del padre nei confronti della madre hanno una probabilità maggiore di essere autori di violenza nei confronti delle proprie compagne e le figlie di esserne vittime”.

Lo stalking

Tre milioni e 466mila donne (pari al 16,1% del totale) hanno dichiarato di aver subìto stalking nel corso della loro vita da un qualsiasi persona. Per 2 milioni e 151mila donne tra i 16 e i 70 anni (il 21,5% di questa fascia d’età), gli atti persecutori sono stati commessi da un ex partner. Gli autori di stalking sono maschi nell’85,9% dei casi a fronte di un 14,1% di femmine. Il 15,3% ha subìto più atti di persecuzione, il 9,9% sono stata oggetto di stalking in almeno tre forme diverse.

Il 78% delle vittime non ha chiesto aiuto a istituzioni o servizi specializzati, il 15% si è rivolta alle forze dell’ordine, il 4,5% a un avvocato, solo l’1,5% si è presentata a un centro antiviolenza o anti-stalking.
Meno della metà (il 48,3%) delle donne, che si sono rivolte a istituzioni o servizi specializzati, ha presentato una denuncia, a fronte di un 40,4% che ha cercato di risolvere la situazione confrontandosi con il proprio ex (in caso di stalking da ex partner), minacciando anche di denunciarlo, parlando con amici e parenti.

Il sostegno alle donne vittime di violenza: i centri antiviolenza e le case rifugio

Secondo quanto previsto dalla “legge sul femminicidio” del 2013, sono stati stanziati 37 milioni di euro per il potenziamento dei servizi territoriali, di assistenza e dei centri antiviolenza.

Lo stanziamento aveva l’obiettivo di raggiungere quanto auspicato dalla raccomandazione del Consiglio d’Europa Expert Meeting sulla violenza contro le donne del 1999, vale a dire la presenza di “un centro antiviolenza ogni 10mila persone e di un centro d’accoglienza (o casa rifugio) ogni 50mila abitanti”.

Come stabilito dalla Conferenza unificata Stato-Regioni del 27 novembre 2014, “i centri antiviolenza (Cav) sono strutture in cui sono accolte – a titolo gratuito – le donne di tutte le età e i loro figli minorenni, le quali hanno subìto violenza o che si trovano esposte alla minaccia di ogni forma di violenza, indipendentemente dal luogo di residenza”. Le case rifugio (Cr) sono, invece, “strutture dedicate a indirizzo segreto, che forniscono alloggio sicuro alle donne che subiscono violenza e ai loro bambini a titolo gratuito e indipendentemente dal luogo di residenza, con l’obiettivo di proteggere le donne e i loro figli e di salvaguardarne l’incolumità fisica e psichica”.

Per i servizi di assistenza (centri antiviolenza, case rifugio e potenziamento dei servizi territoriali), nel 2014, sono stati impegnati 16.449.385 euro e assegnati in questo modo:

  • 5,4 milioni attribuiti a 8 Regioni per l’istituzione di 94 nuove strutture
Fondi per l'istituzione di nuovi Cas e Cr – via Corte dei Conti
Fondi per l'istituzione di nuovi Cas e Cr – via Corte dei Conti
  • 8,8 milioni per ulteriori finanziamenti di interventi regionali già operativi.
Finanziamenti per interventi regionali già operativi – via Corte dei Conti
Finanziamenti per interventi regionali già operativi – via Corte dei Conti
  • Due quote da 1,1 milioni ciascuna per finanziare i Centri antiviolenza (Cav) e le Case rifugio (Cr) mappate dalle regioni a fine 2013: circa 6mila euro per ogni Cav e quasi 7mila per ogni Cr.

 

Infine, secondo una memoria prodotta dal Dipartimento per le Pari Opportunità il 19 luglio scorso, dovrebbero essere attribuiti ulteriori 18 milioni di euro per il biennio 2015-2016.

I centri antiviolenza, le case rifugio e le risorse finanziarie regione per regione

Secondo lo studio, precedentemente citato della Corte dei Conti, in Italia ci sono 281 centri antiviolenza e 219 case rifugio. Rispetto ai dati risalenti al 24 luglio 2014 il numero dei Cav e delle Cr è aumentato complessivamente di 148 unità (+93 Cav e +53 Cr).

Cas e Cr in Italia – via Corte dei Conti
Cas e Cr in Italia – via Corte dei Conti

Si tratta di un dato (va precisato, non ancora completo perché la Regione Molise e le province autonome di Bolzano e Trento non hanno comunicato al Dipartimento per le Pari Opportunità il numero delle strutture presenti nel loro territorio) migliore rispetto alle previsioni della presidenza del Consiglio, ma ancora lontani dalla già citata raccomandazione del Consiglio d’Europa, Expert Meeting.

Inoltre, proseguono i giudici contabili, le strutture si muovono in un contesto farraginoso, caratterizzato da fondi pubblici che arrivano a singhiozzo e che sono erogati tardivamente. Non tutte le giunte regionali (la Sicilia e il Molise, ad esempio, quasi con un anno di ritardo) hanno deliberato sull’utilizzo delle risorse statali “entro il 2014”, come richiesto. Alcune regioni (come l’Abruzzo, la Basilicata, la Calabria, la Lombardia e ancora Molise e Sicilia) non hanno impegnato le risorse entro i termini previsti (sempre il 2014), giunte dal Dipartimento per le Pari Opportunità. Solo il 14,55% dei finanziamenti destinati alle strutture esistenti è stato erogato e non sempre i fondi sono giunti alle cooperative e le onlus beneficiarie, visto che in alcuni casi i trasferimenti sono passati per un ulteriore intermediario, gli enti locali, come nel caso di Lazio, Liguria e Umbria. La Campania, infine, non ha mai presentato la relazione al Dipartimento per le Pari Opportunità, per cui “non è possibile sapere se (e quando) le somme assegnate siano pervenute” a coloro a cui spettavano.

La seconda criticità è che ogni Regione si muove per conto proprio: il Friuli Venezia Giulia ha privilegiato il potenziamento delle Case rifugio, perché garantiscono più fondi per struttura, la Puglia ha finanziato meno progetti e ha utilizzando le risorse per incrementare più del doppio i finanziamenti a Cav e Cr, la Sicilia ha istituito un albo regionale al quale le cooperative devono iscriversi, rispettando precisi standard strutturali, l’Emilia Romagna ha chiamato i diversi organismi che gestiscono le strutture a condividere le proprie best practices e a pensare una governance territoriale condivisa.

In questo quadro così disomogeneo, i centri rischiano di chiudere. Molti di loro, “dai Colli Euganei a Cosenza, da Pisa a Palermo – scrive sempre Rachele Gonnelli – fanno fatica” e devono immaginare nuove attività per potersi sostenere.
In Campania, ad esempio, c’è “Casa Lorena”, centro antiviolenza situato dal 2011 in una villa confiscata alla camorra e chiamata così per ricordare Lorena Cultraro, uccisa nel 2008 a Nisceni. A “Casa Lorena”, prosegue Gonnelli, “si cucinano pasti in catering, si preparano strenne natalizie per l’Orientale di Napoli, si organizzano merende della legalità con i bambini del territorio”. La confezione di marmellate consente di mantenere attivi i 10 centri antiviolenza e le 3 case rifugio gestite dalla cooperativa Eva, in Campania. Il lavoro diventa, dunque, un mezzo non solo per dare alle donne un modo per costruirsi una nuova vita, ma per consentire alle singole realtà di poter rendere sostenibili i loro progetti.

«Se non fosse per l’autofinanziamento e le donazioni private molti centri sarebbero già morti», racconta a Lidia Baratta su Linkiesta Manuela Ulivi, presidente della Casa di accoglienza delle donne maltrattate di Milano (Cadmi) e membro del consiglio nazionale di D.i.Re, la cui rete, con 77 centri antiviolenza, costituisce il circuito più esteso e strutturato in Italia.

Il Centro “Roberta Lanzino” di Cosenza, attivo dal 1988, scrive ancora Baratta, nel 2010 si è visto costretto a chiudere la casa rifugio, senza il sostegno economico della Provincia. «Viviamo di progetti, soprattutto comunitari», racconta Antonella Veltri, responsabile del centro, «e tramite l’autofinanziamento».

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Il caso più eclatante è quello del “Centro comunale antiviolenza Donatella Colasanti e Rosaria Lopez” di Roma, gestito dalla cooperativa BeFree, tra gli esempi più positivi riconosciuti anche all’estero, che ha rischiato la chiusura la scorsa estate per un contenzioso sull’edificio che ospitava il centro, di proprietà della Regione e per il quale il Comune non pagava l’affitto da venti anni.
A giugno ha chiuso lo sportello SosDonnaH24, gestito sempre da BeFree, che garantiva, grazie a operatrici specializzate nell’accoglienza, ascolto telefonico h24 a donne vittime di violenza di genere, abusi, maltrattamenti e di accompagnarle negli ospedali o a fare le denunce presso le forze dell’ordine in una situazione protetta. «Si trattava di un centro di grandissima eccellenza – racconta Oria Gargano, presidente di BeFree a Valigia Blu – chiuso anche perché si sta facendo strada l’idea che un servizio è utile se può garantire un posto letto. Invece oltre a questo tipo di assistenza, è importantissimo dare sostegno psicologico, sociale, legale in presenza».

E allora diventa importante non solo erogare fondi, ma avere una progettualità nell’erogarli. «Dovrebbero essere valutate anche le competenze nel saper gestire fondi», prosegue Gargano. «Andare oltre la logica dell’emergenza e del posto letto, significa adottare un piano nazionale che non sia straordinario, ma che sia strutturale e intervenga su un livello culturale e metta a sistema tutti i soggetti che partecipano, dalle istituzioni a noi che stiamo sul campo». Per questo motivo, l’obiettivo è «arrivare a un piano nazionale antiviolenza che armonizzi le prassi maturate sul campo e lavori sulla prevenzione, sulla protezione e sulla formazione».

Foto anteprima via Ansa.

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