Rio 2016: “Il Team dei rifugiati è il fallimento della politica internazionale”
5 min letturaA cura di Angelo Romano e Andrea Zitelli
Per la prima volta nella storia, sta partecipando alle Olimpiadi un team composto da 10 persone che non rappresenta una nazione, ma milioni di persone in fuga e in pericolo in tutto il mondo: la squadra olimpica dei rifugiati.
Sui media sono stati raccontati partendo dal loro coraggio e dalle loro storie (chi è fuggito con la propria famiglia, chi da soli dopo l’uccisione dei proprio familiari), ma, scrive Dara Lind su Vox, non bisogna dimenticarsi che l’esistenza stessa di questa squadra è anche il simbolo del fallimento della comunità internazionale:
Nel 2012, durante le scorse olimpiadi di Londra, c’erano nel mondo 11 milioni di rifugiati. Quattro anni dopo, quel numero è quasi il doppio. Invece di affrontare questa sfida molti tra i paesi più ricchi del mondo si sono rassegnati a non fare nulla, nella migliore delle ipotesi, o chiudendo i propri confini, nelle peggiori.
Thomas Bach, il presidente del Comitato Olimpico Internazionale, ha dichiarato: «Vogliamo inviare un messaggio di speranza a tutti i rifugiati nel nostro mondo». Ma, si chiede Roger Cohen sul New York Times se dopo la fanfara, qualcuno si ricorderà di loro.
La situazione dei rifugiati sembra divenuta “permanente” e – evitando di generalizzare un fenomeno così complesso – racconta una tendenza sempre più negativa: un viaggio pericoloso e anni di vita in un limbo.
Perché la crisi dei rifugiati è impossibile da ignorare
Dal 2015, certifica l’UNHCR (l'agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati), 65,3 milioni di persone sono state obbligate a lasciare la loro casa. La maggior parte di loro è rimasta nei paesi di origine come sfollati interni, mentre circa 20 milioni di individui vivono in altri paesi come rifugiati e richiedenti asilo, nel 2010 erano meno di 12 milioni. Uno delle cause più importanti di questa crisi è la guerra in Siria, che ha provocato tra le altre cose circa 5 milioni di sfollati.
Una situazione che, specialmente per i paesi ricchi, richiede maggiore collaborazione e lavoro a livello politico. Ma, denuncia la giornalista di Vox, con l’aumentare continuo negli ultimi anni di persone costrette a lasciare la propria casa, la politica in Europa, America e Australia è stata bloccata da dibattiti accesi sull’apertura o meno dei propri confini ai rifugiati.
Perché ci sia un’attenzione vera riguardo a questo fenomeno è necessario che ci siano migliaia di morti, dice Kathleen Newland, ricercatrice presso il Migration Policy Institute. Per questo, scrive ancora Lind, la speranza per la squadra olimpica dei rifugiati è che si rompa il ciclo di tragedie e aumenti la sensibilità dell’opinione pubblica nei confronti di questa crisi umanitaria senza bisogno che nessuno muoia.
Bloccati per anni nei campi profughi
Il numero dei richiedenti asilo e rifugiati aumenta non solo perché molte persone abbandonano i propri paesi, ma soprattutto perché sono pochissime quelle che possono farvi ritorno. È il caso dei siriani, degli afgani, degli abitanti del Sud Sudan e della Repubblica Centrale Africana, tutte aree colpite da guerre devastanti. Se tra il 1996 e il 2005, quasi 13 milioni di rifugiati sono tornati in patria, dal 2006 al 2015 solo 4,2 milioni sono riusciti a farlo.
Secondo i dati dell’Unhcr, negli ultimi 10 anni la forbice tra il numero di richiedenti asilo e rifugiati e persone che sono riuscite a tornare a casa o sono state ricollocate si è allargata sempre di più: nel 2014, nel mondo, a fronte di quasi 20 milioni di rifugiati, solo 300mila persone sono tornate a casa.
Soluzioni temporanee si protraggono per decenni. Il campo di Kakuma in Kenia, ad esempio, costruito per ospitare rifugiati provenienti dal Sud Sudan, ha prorogato il suo status di campo profughi per 25 anni e ha finito per ospitare migranti provenienti da altre zone in conflitto, come Somalia, Etiopia e Congo. Un dato in linea con la media di 26 anni di tutti i campi profughi che diventano, di fatto, residenze semi-permanenti. Sempre secondo l’Unhcr, nel 2015, il 41% dei rifugiati si trovava in una situazione del genere: milioni di persone che non possono lavorare, non possono lasciare il campo e dipendono dalle Nazioni Unite per il cibo e dalla pazienza dei paesi ospitanti che continuano a tollerare la loro presenza, scrive Lind.
La parola “rifugiato”, che dovrebbe essere un’etichetta temporanea, si sta trasformando così nell’unica loro identità possibile. Per questo motivo, prosegue ancora Newland, c’è il rischio che l’unica forma di appartenenza possibile sia quella di rifugiato e il team presente alle Olimpiadi continuerà a ingrossarsi sempre di più.
Per il crescente aumento del numero di sfollati nel mondo e per le difficoltà da parte dei paesi ospitanti a sostenere il peso economico di questa situazione, le Nazioni Unite e le altre organizzazioni internazionali hanno dovuto cambiare le loro politiche umanitarie. Invece di trovare soluzioni affinché lo status di rifugiato temporaneo duri poco tempo e pochi rifiugiati siano ricollocati, queste organizzazioni stanno cercando di rendere questa situazione semi-permanente il più vivibile possibile. Il World Food Program, ad esempio, sta sperimentando condizioni migliori per fornire cibo e nei campi profughi cominciano a essere organizzati corsi scolastici per i bambini che probabilmente si troveranno a dover seguire lì tutto il ciclo educativo.
Mentre alcuni paesi, come la Germania, stanno cercando dei modi per inserire i rifugiati nelle loro economie dando loro lavoro. Per questo, dice sempre Newland, la questione dei rifugiati finalmente è discussa nel più ampio contesto migratorio mondiale.
Contro i luoghi comuni sui rifugiati
Pochi giorni prima della cerimonia di apertura di Rio, l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha approvato una "dichiarazione politica" per la crisi dei rifugiati, che sarà adottata formalmente il prossimo 19 settembre nel corso del vertice Onu per i rifugiati, un mese dopo la chiusura delle Olimpiadi. Si tratta, afferma la ricercatrice del Migration Policy Institute, solo di buone intenzioni perché, per il rifiuto di Russia ed Europa occidentale, non si è trovato l’accordo per reinsediare il 10% dei rifugiati di tutto il mondo (a oggi, circa 2 milioni di persone).
La speranza è che la squadra olimpica dei rifugiati possa diventare il simbolo di un cambiamento di paradigma e che le Olimpiadi mostrino a tutti coloro che le seguiranno che è giunto il momento di superare lo stereotipo secondo il quale il rifugiato è un bisognoso da mantenere o un terrorista infiltrato nell’Occidente da temere e contrastare.
Cambiare atteggiamento nei confronti dei rifugiati, però, conclude Dara Lind, non sarà sufficiente a rendere queste persone a non essere rifugiati per sempre, se i governi non intraprenderanno azioni concrete, come favorire i reinsediamenti invece di alzare muri per proteggere i propri paesi dall’instabilità. Instabilità che, tra l'altro, investe tutto il resto del mondo. Condividere le responsabilità è la via per trasformare il sostegno verso il team olimpico dei rifugiati in azioni concrete.
Fonte immagine copertina: David Ramos/Getty