In Grecia alcuni cittadini, rischiando la galera, si attivano per aiutare i migranti
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La Lampedusa greca si chiama Lesbo. Accoglie somali, afghani, pakistani, siriani provenienti dalla vicina Turchia in fuga dalla guerra o dalla violenza repressiva dei regimi. Arrivano senza sosta, nonostante non sia ancora iniziata la stagione estiva, periodo in cui viene toccato il picco più alto di sbarchi. Lesbo non è famosa soltanto per aver dato i natali a Saffo e Alceo e per quella che fu un'attività culturale particolarmente fiorente, ma anche per le spiagge meravigliose, meta di vacanze di molti. Spiagge dove sono arrivati, dall'inizio del 2015, più di 20.000 rifugiati, in base ai dati forniti dall'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, su un totale di 55.000 persone giunte in Grecia (a Lesbo si aggiungono le isole di Chio, Kos, Lero, Samo).
Anziani, donne in stato di gravidanza, disabili, vittime di tortura e tanti minori. Tantissimi minori non accompagnati, né dai genitori, né da adulti. Nel 2014, soltanto in Grecia, ne sono stati registrati 1.100, secondo quanto documentato nel rapporto "The Mediterranean Migration Crisis: Why People Flee, What the EU Should Do" appena pubblicato da Human Rights Watch.
Mahdia, from Kabul, Afghanistan, is one of 300 refugees to arrive in Lesvos, Greece every day. pic.twitter.com/xRQbRjFu2k
— Kathryn Mahoney (@MissMahoo) June 16, 2015
A una situazione già particolarmente critica, si aggiunge la difficoltà di chi sbarca sulla costa settentrionale di Lesbo di dover camminare circa 70 chilometri per raggiungere Mitilene ed essere identificato e registrato.
A group of 50 Afghans, Pakistanis, Somalis and a lone Syrian family arrive on the coast of Lesvos this morning pic.twitter.com/NC6j7gXgJn
— Patrick Kingsley (@PatrickKingsley) June 16, 2015
“Abbiamo camminato per 38 ore, con bambini piccoli”, racconta al Global Post Ali, 22 anni, insegnante di scienze fuggito dall'Afghanistan con la famiglia. Una donna afghana, che ha affrontato il viaggio con la madre malata, ha impiegato tre giorni per arrivare nella capitale di Lesbo. “Nessuno si fermava, non ci hanno aiutate”.
Indifferenza? No. In Grecia è in vigore una legge che impedisce ai cittadini di aiutare gli immigrati privi di documenti. Agli autobus e ai taxi è severamente vietato condurre i profughi a Mitilene, anche quando sono in grado di acquistare il biglietto.
Ciononostante gli abitanti sfidano un provvedimento che li costringerebbe a infischiarsene. Residenti e turisti si oppongono al divieto offrendo passaggi ai rifugiati. Domenica 14 giugno, in segno di protesta, la gente del posto si è organizzata e ha guidato un convoglio di 41 auto partendo da Molyvos fino a Mitilene, raccogliendo i migranti lungo la strada.
41 drivers transfer refugees despite police's prohibition in #Lesvos, #Greece; a moving gesture of solidarity! pic.twitter.com/vWhiQVPSSC
— Eliza Goroya (@ElizaGoroya) June 15, 2015
Durante gli spostamenti sull'isola, tra l'altro, i profughi non ricevono protezione perché le agenzie umanitarie intervengono esclusivamente all'interno dei campi di accoglienza ormai, evidentemente, gremiti. L'unica possibilità di assistenza arriva dai cittadini che, di fronte all'emergenza, invece di voltare lo sguardo, aprono sempre più porte e finestre delle proprie abitazioni.
"È una crisi umanitaria. Bisogna essere stupidi per non accorgersi di cosa stia succedendo", dichiara Giorgos Tyrikos Ergas, che di professione fa lo scrittore.
Ergas, 33 anni, è uno dei quattro volontari che gestiscono un rifugio per la notte a Kalloni, una cittadina a metà strada tra Molyvos e Mitilene. Fino a un mese fa, dava da mangiare e ospitava una dozzina di persone ogni settimana. Attualmente ne arrivano circa 200 al giorno.
"Abbiamo un unico sogno. Sentirci umani come tutti", dice Lukman Muhammed Ali, proveniente dalla città siriana di Qamishli. Lui si ritiene fortunato, come tutti quelli che sono raccolti in mare dalla guardia costiera che li fa sbarcare a Mitilene e a Molyvos.
Quando giungono profughi al porto di Molyvos la prima a essere avvertita è Melinda McRostie, un'australiana che ha vissuto a Lesbo la maggior parte della sua vita. Melinda gestisce un ristorante. Nel retro della sua attività ha allestito un piccolo campo, finanziato interamente con donazioni provenienti per lo più da turisti. Si occupa, con una dozzina di altri volontari, di accudire i rifugiati fino al momento in cui sono trasferiti. Da quando il numero degli arrivi è aumentato, Melinda ha affittato un piccolo appartamento per conservare alimenti, acqua, latte e pannolini. Grazie ai contributi ricevuti riesce a offrire panini ai profughi tre volte al giorno. "È qualcosa che non si può fermare in ogni caso per cui non c'è motivo di mettere la testa nella sabbia. Succede, qui, tanto vale fare qualcosa", ha dichiarato.
Ogni giorno, al tramonto, volontari e rifugiati dispiegano fogli di plastica e teloni, mentre arriva l'ennesima barca, con gli ennesimi profughi, sprovvisti di documenti ai quali una mano non dovrebbe essere tesa.
Brothers from Kabul, sleeping outside port or Molyvos, Lesvos, after Greek Coast rescued their sinking raft. pic.twitter.com/nv6Q90hrtU
— Joanna Kakissis (@joannakakissis) June 15, 2015
Ma la legge continuerà a essere infranta. Perché burocrazia e norme non bastano per non "restare umani".