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6 idee sbagliate sul mondo digitale smontate una per una. E non parliamone più

8 Maggio 2015 9 min lettura

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6 idee sbagliate sul mondo digitale smontate una per una. E non parliamone più

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Emergenze inesistenti, banalizzazioni, dati fasulli, pure e semplici bugie. Sono sempre le stesse cattive idee supportate dagli stessi cattivi argomenti, eppure si ripresentano ciclicamente nel dibattito - quando c'è - su come aggiornare il nostro corpus normativo all'era iperconnessa. Anche quando non ce n'è alcun bisogno, perché bastano le norme attuali. E anche quando Internet non c'entra assolutamente nulla.

Per evitare di incappare nelle solite, inutilissime disquisizioni sulle proprietà benefiche o demoniache del fantomatico "popolo del web", sulla sua presunta "anarchia", il supposto anonimato-per-tutti-senza-fatica e altre pure e semplici sciocchezze, Valigia Blu ha composto una breve guida per imparare a riconoscerle e, se possibile, evitarle replicandovi nel merito.

1. Il "popolo del web" non esiste

Esempio:

La Rete vigila. È diventata il nuovo giudizio di Dio. Il «Popolo del web», anonimo e punitivo, mette sotto processo chiunque esprima opinioni non condivise. Decide cos’è giusto, secondo meccanismi tribali, da branco (Aldo Grasso, Corriere della Sera)

Replica:

Si tratta semplicemente di confondere una parte (che insulta) con il tutto, e soprattutto di non pensare che esista un "popolo" in Rete dotato - per chissà quale ragione o proprietà intrinseca del mezzo Internet - di caratteristiche sue proprie, separate da quelle del "popolo" e basta. Online e offline non sono realtà parallele, e in ogni caso non abbiamo mai un'esperienza diretta completa né dell'uno né dell'altro. "Popolo del web", dunque, non significa assolutamente nulla. Per convincersene basta scorrere la serie infinita di articoli che lo argomenta: Giacomo Dotta su WebNews, Eleonora Bianchini sul sito del Fatto, Luca Sofri sul suo blog, io stesso sul mio (cercando di mostrare come tra l'altro l'espressione sia usata in modo selettivo per conformarsi a una precisa visione - errata, ma di comodo - che i "media tradizionali" hanno della Rete).

Chiarissimo Alessandro Gilioli nella sua risposta a Grasso:

Il "popolo del web" non esiste, almeno non più di quanto esiste, per esempio, il popolo dei passanti per strada: esistono invece tantissime persone, tra cui lei e io, che ogni giorno sono parte di un pubblico e amplissimo dibattito con i propri contenuti, chi confrontandosi di più e chi di meno, ma comunque nella stessa piazza, inevitabilmente e per sempre

2. L'anonimato non è cattivo e non ci rende cattivi

Collegato all'argomento "popolo del web", c'è quello ben sintetizzato da Grasso: quel "popolo" è anche "anonimo e punitivo". Anzi, nella sua versione più comune, l'argomento prevede che sia punitivo perché anonimo.

Replica:

Prima di tutto l'anonimato in Rete non esiste, a meno di essere piuttosto scaltri nell'utilizzo di software di anonimizzazione - da Tor in giù (e anche in questi casi, se l'attaccante si chiama NSA o un'entità governativa di pari rango potrebbero sorgere problemi non indifferenti). Per la stragrande maggioranza degli utenti, che con quegli strumenti non ha alcuna familiarità, l'anonimato semplicemente è un'illusione.

Resta quindi l'idea che la sola sensazione di essere anonimi basti a renderci più cattivi. Ma gli studi scientifici al riguardo non sembrano affatto giungere alle conclusioni sbrigative di Grasso e dei tantissimi come lui che parlano della "protezione-del-velo-di-anonimato" come schermo dietro cui nascondersi per compiere ogni tipo di efferatezza. Ma l'effetto dell'anonimato sull'incremento dell'hate speech – che pure c'è - è grandemente esagerato:

- Il primo esempio viene della Corea del Sud, che nel 2007 ha obbligato alla registrazione con identità reale su tutti i siti con più di 100 mila visitatori. Nel 2011 ha tuttavia scelto di eliminare il requisito, dato che – come ricorda Mathew Ingram su GigaOm - "richiedere la vera identità ha ridotto la quantità di commenti 'cattivi' (nasty) solo dello 0,09 percento"

- La piattaforma di commenti Disqus, poi, pur affermando che la qualità dei commenti anonimi è inferiore a quella di chi usa nome e cognome reale, sostiene che la possibilità di usare pseudonimi aumenta la qualità dei commenti e che quelli scritti sotto pseudonimo sono i commenti migliori: "il commentatore medio che usa uno pseudonimo ha contribuito 6,5 volte in più rispetto agli anonimi, e 4,7 volte in più di chi ha commentato identificandosi via Facebook".

- E del resto, su Facebook ci si deve (dovrebbe) registrare con il proprio nome e cognome, eppure gli insulti – come dimostrato dai casi di cronaca menzionati – ci sono eccome anche lì. Se il problema è l'anonimato, come si spiegano?

- In ogni caso, uno studio di luglio 2013 condotto da Arthur Santana dell'Università di Houston sostiene di aver trovato una correlazione statisticamente significativa tra anonimato e grado di civiltà dei commenti online. Dopo averne studiati migliaia, il docente della Jack J. Valenti School of Communication ha scoperto che mentre il 53,3% dei commenti anonimi includeva un linguaggio volgare, razzista o di odio, ciò si è verificato solo nel 28,7% dei commenti non-anonimi.

Ultima cosa: diffamazione e oblio non c'entrano, per cui è sbagliato tentare di regolamentare (malamente) il secondo all'interno della prima.

3. Non c'è bisogno di estendere l'obbligo di rettifica ai blog

È un'idea di cui si sente parlare dai tempi del governo Berlusconi e del cosiddetto "comma ammazza-blog" che ha sedotto prima Angelino Alfano, poi Paola Severino e infine anche il governo Renzi.

Replica:

Ne scrivo dal 2010, e in termini che sono - ahinoi - ancora validi e attuali oggi:

"(...) il tentativo, inizialmente, è stato quello di provare a far ragionare il legislatore. Metterlo di fronte ad argomenti, a dati di fatto. Ad esempio che sia errato equiparare un blog qualsiasi a una testata registrata. Che sia errato mettere sullo stesso piano la diffusione professionale e amatoriale di notizie. Che sia inconcepibile pretendere da chiunque apra un sito per esprimere liberamente la propria opinione che non possa assentarsi dalla propria pagina per un fine settimana senza rischiare di trovarsi con migliaia di euro da pagare. Che sia antistorico credere che una legge concepita nel 1948 possa cogliere adeguatamente le dinamiche dell’informazione online. Che sia barbaro disincentivare la libera circolazione delle idee, instillare la paura e il sospetto in chi sfidi il “bavaglio” e fornire un ulteriore strumento intimidatorio ai potenti di turno, che potranno agitare la minaccia della rettifica – con tutto il carrozzone giudiziario che ne consegue – a ogni notizia sgradita. Quanti dei blogger, che per la stragrande maggioranza scrivono senza ricavare un euro dalla loro attività e anzi investendo gran parte del loro tempo libero, saranno disposti ad accollarsi le spese adeguate a dimostrare la fondatezza della propria notizia? Pochi. Gli altri finiranno per piegarsi. Magari dovendosi pure registrarsi presso una qualche “autorità” (il tribunale, l’Agcom o chissà che altro) per rendersi reperibili in caso di guai. Dire la verità, insomma, potrebbe non bastare per dormire sonni tranquilli".

Altre ottime fonti vengono da Bruno Saetta e Guido Scorza, che aggiunge un altro buon argomento da opporre ai sostenitori della rettifica, una volta svolti tutti gli altri:

"Sembra incredibile che quasi due lustri di dibattito parlamentare ed extra parlamentare sul tema non siano stati sufficienti a convincere i legislatori che, frattanto, si sono avvicendati sulle poltrone di Montecitorio, del carico liberticida che questa posizione – apparentemente equa, naturale o, persino, scontata – porta con sé".

4. Non serve nessuna legge contro il cyberbullismo

Esempio:

"Il dilagare repentino di questo fenomeno richiede certamente un intervento normativo che possa tutelare il minore, soprattutto in via preventiva" (Pietro Grasso, presidente del Senato, il 13 aprile scorso)

"Auspico che il disegno di legge sui crimini online in esame al Senato sia approvato al più presto" (Andrea Orlando, ministro della Giustizia, 6 maggio)

Replica:

Il problema, lo certificano i dati corretti (cioè non quelli presi a esempio nel preambolo che giustifica il nuovo intervento normativo a firma PD elogiato da Grasso), è semmai il bullismo. Internet è parte del problema, non il problema - come vorrebbe farci credere la vulgata scandalistica, emotiva della questione promossa da chi chiede la norma. Meglio l'argomento correlato per cui serva più consapevolezza delle modalità attraverso cui si manifesta il problema bullismo, in primis dalle scuole - lo fa suo lo stesso Grasso, oltre al dettato normativo; ma se si deve fare, che sia a partire da una corretta rappresentazione del fenomeno.

Che è esattamente il contrario di quanto induce a fare l'"ABC dei comportamenti devianti" pubblicato sul sito del ministero della Giustizia. Un catalogo pieno di errori (il "ban" e il "trolling" sono considerati comportamenti devianti, scatenare un "flame" addirittura un "comportamento criminale") che invece di informare ottiene solamente il risultato di criminalizzare attività perfettamente lecite e innocue, e creare il clima di apprensione adatto a passare con la massima urgenza possibile norme inutili e dannose come quella sul cyberbullismo. Di nuovo, il cappello propagandistico che regge l'intero impianto dell'iniziativa.

5. No, la rete non è necessariamente una minaccia per il diritto d'autore

Esempio:

"La Giornata mondiale del libro pone a tema anche il diritto d'autore, che rischia di essere esso stesso aggredito e sminuito dallo sviluppo delle reti e dalla moltiplicazione delle piattaforme informative e di comunicazione. (...) Il legislatore interno e quello europeo sono chiamati alla vigilanza e all'aggiornamento necessari per non disperdere patrimoni di cui tutti possiamo beneficiare" (Sergio Mattarella, presidente della Repubblica, 21 aprile 2015)

Replica:

È singolare che il Quirinale si scomodi a difesa del diritto d'autore in un Paese, l'Italia, che grazie al contestatissimo regolamento Agcom ha ottenuto una vetrina d'onore - o meglio, di disonore - nei principali rapporti internazionali sulla libertà di espressione in rete (Freedom House, World Wide Web Foundation) .

Niente di nuovo, dato che da tempo la tutela del copyright è una delle scuse preferite del legislatore in tutto il mondo per censurare il web, ma l'idea espressa da Mattarella di una opposizione tra Rete e diritto d'autore sembra risalire all'era pre-Napster, oltre che a quella pre-Spotify dove lo streaming legale è diventato la norma, e non l'eccezione, per milioni di utenti. Ulteriore problema: sul tema "pirateria digitale", i conti raramente tornano. Insomma, una riforma del copyright serve, ma per aumentare - non restringere, come sembra implicare Mattarella - gli spazi di libertà e creatività online. Leggere Cory Doctorow per credere:

Per rendere il sistema più favorevole e giusto per chi crea contenuti e le aziende che vi investono potremmo ridurre la responsabilità di intermediari come Google, PayPal o KickStarter, che forniscono agli utenti uno strumento per uscire dai confini tradizionali dell’industria editoriale, e pubblicare da soli le proprie opere. Facendo il contrario - per esempio, costringendo YouTube a costruire sistemi multimilionari di riconoscimento delle violazioni che di fatto non le contrastano - non abbiamo ottenuto altro che eliminare la concorrenza in quel settore. Come lanciare un altro YouTube quando oggi non ti bastano più un garage e un po’ di hard disk, ma serve anche un sistema multimilionario di riconoscimento delle violazioni del copyright? Vuol dire che ci sono meno luoghi al di fuori dell’industria dell’intrattenimento attraverso cui mettere in commercio i nostri lavori, e ciò significa a sua volta che sia che si scelga la strada indipendente, sia che si vada con una major, la tua ricompensa sarà minore, perché ci sarà meno concorrenza per il tuo servizio. Quando ci sono meno compratori, chi vende fa meno soldi.

6. No, non c'è bisogno di sacrificare la libertà nel nome della sicurezza

Esempi:

La disputa tra sicurezza e privacy è un conflitto tipico di questo tempo. In passato c'è stata una tutela molto accentuata della privacy. In questo momento occorre valutare molto bene il tema della sicurezza" (Angelino Alfano, ministro dell'Interno, 19 gennaio 2015)

"La questione della protezione dei dati è rilevante, ma può essere compatibile con una sorveglianza accresciuta" (Gilles De Kerchove, capo dell'antiterrorismo UE, 25 gennaio 2015)

Replica:

Reagire alle minacce terroristiche aumentando la sorveglianza indiscriminata e di massa, lo insegna la storia del post-11 settembre e lo insegna il Datagate, è una pessima idea: limita i diritti di milioni di innocenti in tutto il mondo e soprattutto non serve a contrastarle in modo efficace. Lo dimostra, tra gli altri: - un'inchiesta di ProPublica - un paper analitico della New America Foundation - un rapporto del Committee on Legal Affairs and Human Rights del Consiglio d'Europa - un rapporto dell'Ufficio dell'Alto Commissario Onu per i diritti umani - un rapporto del Privacy and Civil Liberties Oversight Board statunitense

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Quindi tutte le norme - orrende - proposte dopo Charlie Hebdo, Italia compresa e Francia in testa, non hanno alcuna giustificazione fattuale: è semplicemente un modo per dare all'opinione pubblica l'impressione di stare facendo qualcosa e, già che il governo c'è, approfittarne per autoconferirsi poteri che in altre circostanze avremmo definito "eccezionali", o "emergenziali". L'enorme tasso di disinformazione (qui, qui e qui, per esempio) sulla "minaccia ISIS" nel nostro paese credo risponda alla stessa logica.

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