WikiLeaks, Google e il nemico
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“Il Che Guevara del XXI secolo è la rete”
Alec Ross, Consigliere speciale per l’innovazione dell’ex Segretario di Stato Hillary Clinton
Questa non è una vera e propria recensione. Del resto, "When Google Met WikiLeaks" di Julian Assange - pubblicato in questi giorni da OR Books - non è un vero e proprio libro. È uno strano ibrido che raccoglie: la trascrizione quasi letterale di una chiacchierata avvenuta nel lontano giugno 2011 tra il fondatore di WikiLeaks e l’attuale presidente esecutivo di Big G, Eric Schmidt (e altri, tra cui Jared Cohen, direttore di Google Ideas con una precedente esperienza al Dipartimento di Stato Usa); una vera recensione, anzi, una vera stroncatura, del fondatore di WikiLeaks al libro di Schmidt e Cohen, "The New Digital Age: Reshaping the Future of People, Nations and Business", che era già stata pubblicata dal New York Times; una indagine-pamphlet scagliati contro Google e le sue dangerous liaisons con il governo americano; una storia del travagliato rapporto fra quest’ultimo e WikiLeaks; e infine, dettagliate note a corredo del tutto. L’insieme risulta estremamente complesso e quasi ogni paragrafo meriterebbe un libro a sé.
Diciamo subito che per quel che mi riguarda le parti migliori sono, nell’ordine, le note, la chiacchierata e il pamphlet. Ma quello che trovo interessante sono soprattutto le riflessioni che si possono estrarre dal libro e che riguardano il giornalismo, l’attivismo, la censura, il rapporto tra corporation e Stati. Riflessioni che proverò a estrarre chirurgicamente e a riassumere in questa non-recensione aiutandomi con una serie di capitoletti.
Google e il fardello del geek bianco
Antefatto: nel giugno 2011 Assange si trova agli arresti domiciliari in una villa della campagna inglese, presso Norfolk, mentre sta ancora combattendo contro l’estradizione in Svezia e su di lui pende una investigazione segreta americana per il suo ruolo in WikiLeaks. Siamo nel mezzo del Cablegate, la pubblicazione dei cablogrammi della diplomazia a stelle e strisce; nel pieno della Primavera Araba, di Anonymous, degli Indignados, mentre di lì a poco sta per esplodere Occupy Wall Street. Chelsea Manning, che all'epoca ancora si chiama Bradley, la fonte del Cablegate, oltre che degli Iraq e Afgan War logs, è detenuta in condizioni molto pesanti e in attesa di processo.
In questo contesto Eric Schmidt, Jared Cohen e altri loro collaboratori vanno a trovare Assange. La ragione ufficiale è intervistarlo per il libro che stanno scrivendo (quello in cui loro non risparmieranno critiche a WikiLeaks e che verrà poi stroncato da Assange). Ne risulta una bizzarra e affascinante chiacchierata che viene registrata.
Da quel momento però Assange inizia ad approfondire la sua analisi e le sue ricerche sul ruolo di Google come corporation globale, dotata di una visione geopolitica, con stretti legami col Dipartimento di Stato americano e il suo complesso cyber-industriale. Addirittura, in alcuni casi, strumento di politica estera Usa.
Una visione che si potrebbe riassumere nel fardello del white geek. I capi di Google, sostiene Assange, credono veramente nel potere civilizzatore di multinazionali illuminate, capaci di riformare il mondo secondo i loro principi tecnoliberali e secondo il giudizio di una superpotenza benevolente. Ma questa visione si scontra con alcuni dati di fatto: già oggi, argomenta l’autore, Google è parte integrante della base industriale della difesa americana, la Defense Industrial Base, e non certo per il ruolo di AdWords. Per non dire della partecipazione di Big G a PRISM, il programma di sorveglianza della Nsa. Ma gli esempi portati nel libro sono numerosi, incluse le missioni di Cohen in vari Paesi caldi.
Tuttavia il punto è il seguente: “Malgrado tutte le prove emerse sul più vasto sistema di sorveglianza nella storia dell’umanità messo in piedi dagli Usa - scrive l’autore - Schmidt e Cohen sono ancora inchiodati in una comprensione binaria di Stati buoni (...) e Stati cattivi, come la Cina”. Distinzione che però, sul piano della Rete e dei diritti digitali, non regge. Secondo Schmidt e Cohen, la morte della privacy sarebbe un problema solo per i cittadini delle autocrazie, perché ovviamente espone il dissenso alla repressione, mentre non lo sarebbe in democrazia, dove anzi questa “trasparenza” dei singoli favorirebbe la creazione di servizi migliori. In realtà, l’erosione della privacy individuale presta il fianco ad abusi anche in Occidente e anzi avvicina le società democratiche a quelle autocratiche, sostiene il boss di WikiLeaks.
Anche perché la libertà di espressione e di informazione sbandierate dall’Occidente sono sempre più perimetrate, soprattutto quando si chiamano in causa la sicurezza nazionale e lo spauracchio del terrorismo. Guardando quello che sta succedendo in questi giorni, con la decisione di Twitter di censurare i video dell’uccisione di James Foley anche quando i loro utenti non esprimevano hate speech ma solo la volontà di mostrare l’accaduto, ci sarebbe di che riflettere.
Le tante facce della censura
La lotta alla censura è la ragion d’essere di WikiLeaks. Su questo tema ci sono innumerevoli considerazioni, alcune illuminanti, sparse per il libro. In ogni caso l’obiettivo di Assange e soci è di preservare contenuto intellettuale politicamente significativo mentre è sotto attacco. Dare la caccia a quei bit che le persone vogliono sopprimere, perché il sospetto è che, se qualcuno investe del denaro o delle energie per farli scomparire, probabilmente è perché ritiene che la loro diffusione provocherebbe un cambiamento. Ovviamente qui si parla di organizzazioni di potere, non della vita personale del singolo. Purtroppo ancora molti commentatori non riescono a distinguere la differenza fondamentale della visione cypherpunk fra la privacy dei cittadini (un diritto) e la trasparenza delle organizzazioni di potere (un dovere). Sono le due facce della stessa medaglia. E sono il motivo per cui il reporter che ha definito Assange “anti-privacy campaigner” ha scritto una sciocchezza (che poi però è stata corretta).
Assange nel libro parla dei diversi livelli della piramide della censura, spiegando che WikiLeaks si concentra sui due che stanno in cima: censura prodotta da minacce alla incolumità fisica e dal rischio di cause legali. Ma più in basso nella piramide (qui visionabile) c’è il livello diffuso della censura per ragioni economiche, la censura prodotta dal fatto che non conviene pubblicare o anche solo che “non c’è un mercato per quelle informazioni”. L’autore non si sofferma molto su questo aspetto che pure è centrale in qualsiasi riflessione sul tema perché costituisce un blocco che rischia di depotenziare quelle informazioni che pure riescono a fuoriuscire dai livelli superiori della piramide, anche grazie al contributo di organizzazioni come WikiLeaks.
Assange dice poi una cosa interessante e provocatoria: la censura è sempre causa di celebrazione. Cioè, in fondo, se c’è censura, bisognerebbe “festeggiare” perché significa che ci troviamo di fronte a una società dove le possibilità di cambiamento esistono, dove i giochi sono ancora aperti. La censura è un’opportunità perché rivela la paura del cambiamento e della riforma. Mostra la debolezza del potere, del governo, dello Stato. L’esempio che fa Assange è la Cina. Ma di nuovo questa riflessione dovrebbe essere tenuta presente anche da noi. E chi invoca compattamenti ideologici di una democrazia o dell’Occidente contro il nemico di turno dovrebbe ricordarselo. Se censuri, mostri che sei debole.
Guerrilla journalism
Affascinante è la descrizione, anche tecnica, del funzionamento di WikiLeaks, descrizione sollecitata più volte dalle domande rivolta da Schmidt ad Assange. In sostanza, spiega quest’ultimo, WikiLeaks è sempre stato un editore di guerrilla, che si ritirava dalla sorveglianza e dalla censura di una certa giurisdizione per riorganizzarsi sotto un’altra e sferrare un nuovo affondo, muovendosi tra le frontiere come un fantasma. I suoi nemici erano la censura attuata attraverso dei filtri governativi o mediante attacchi informatici. La sua unica difesa, non avendo rilevanti sostegni politici o legali, era tecnologica. Il suo obiettivo: essere sempre e comunque disponibile e raggiungibile. Ciò significa un sistema che si moltiplica nella sua prima linea attraverso tanti siti mirror e molteplici nomi di dominio, capace di spostarsi da un dominio all’altro, con il backend del sito nascosto nelle darknet. Con nodi sacrificali del frontend. Con l’obiettivo di muovere e pubblicare velocemente, perché la velocità della diffusione di informazioni è funzionale a rendere meno conveniente, meno efficace la censura/repressione. WikiLeaks si è allenata per anni contro un attore potente: la Cina. Che ovviamente aggiungeva in continuazione i nuovi domini usati da Wikileaks alla sua lista di siti da filtrare. L’organizzazione di Assange ne usava centinaia, alcuni registrati con provider DNS molto grossi, in modo che un filtro a livello di IP avrebbe bloccato migliaia di altri domini, provocando una reazione politica. Una continua rincorsa tra gatto e topo. Da notare che alcuni fondamenti di questa visione da guerrilla publishing - ad esempio l’uso della crittografia e il gioco tra diverse giurisdizioni - sono tracimati anche nell’editoria tradizionali. Basti pensare a come il Guardian ha dovuto gestire alcune implicazioni del Datagate.
Per inciso: alla domanda del perché un tot di persone in Stati asiatici o africani non stiano usando WikiLeaks per svelare la corruzione dei rispettivi governi, o almeno non lo stiano usando tanto quanto sarebbe auspicabile, Assange dà una risposta interessante. Ovvero: è necessario che WikiLeaks sia percepito come un attore politico in un Paese o territorio, che sia sentito come parte della comunità. Questo è da tenere a mente ogni volta che si crede che basti mettere online una piattaforma di whistleblowing protetta da Tor per rivoluzionare la politica o l’informazione di un luogo. Non funziona così. La tecnologia è fondamentale ma non basta.
Attivismo
Secondo Assange siamo davanti a un bivio della storia. Se quelle persone e organizzazioni che hanno provato a pubblicare liberamente informazioni di interesse pubblico avranno la meglio, non solo potrebbero essere un esempio per altri, ma potrebbero costituire una nuova norma di quello che è ritenuto accettabile. Tradotto: i futuri Manning non dovrebbero rischiare di passare il resto della loro vita in prigione, né Assange o Snowden di essere braccati per tutto il globo, e via dicendo. Il fondatore di Wikileaks è (o almeno era nell’estate del 2011) cautamente ottimista. Ritiene, in parte a ragione, di aver contribuito a plasmare una nuova cultura, di essere parte di una serie di trend che stanno influenzando le giovani generazioni. “La cosa più ottimistica che sta avvenendo è la radicalizzazione della gioventù formatasi su internet”, scrive. Che a volte ha adottato delle tecniche di attivismo guerrillero simili a quelle usate da WikiLeaks. Nel mezzo c’è anche una curiosa riflessione sul valore dell’anonimato. Quest’ultimo è un’arma potente nelle mani del dissenso perché permette a molti attivisti di portare avanti le loro battaglie senza necessariamente diventare dei martiri. Assange rigetta qualsivoglia compiacimento del martirio. “Gli attivisti più efficaci sono quelli che combattono e dopo scappano per combattere un altro giorno”, dice. “Se hai una condizione di anonimato perfetto puoi combattere per sempre”. Premesso che questa condizione è ben lontana dall’essere “perfetta”, è chiaro che l’anonimato in Rete è un spina nel fianco per tutti i governi autoritari. E a volte non solo per loro.
Chi è il nemico?
È la domanda che rimane alla fine della lettura del libro. Assange dà la sua risposta, ma in qualche modo resta l’impressione che non sia del tutto soddisfacente. Che non spieghi molte cose. Del resto ci sono temi fondamentali toccati dal libro – il quale, come dovrebbe essere chiaro a questo punto, è estremamente stimolante - che restano sospesi, le cui riflessioni non sembrano risolutive. Uno di questi è il problema della disinformazione, che è un’altra forma di censura, quella per complessità. Che, anche quando è sbugiardata, aumenta comunque il rumore di fondo e annacqua il segnale. Inoltre, una piccola quantità di contenuto manipolato può svalutare un lavoro ben più grande fatto su contenuti autentici. La disinformazione, è il pensiero di Assange, può essere facilmente smascherata. Ma – è il dubbio di chi legge - se il suo quantitativo aumenta, se si salda con la censura economica di cui parlavamo prima, rischia di depotenziare chi fa informazione in modo serio. Di far rimanere quest’ultima una conoscenza per pochi. Siamo sicuri che la buona informazione, una volta messa in circolo, sia capace di autopropagarsi e in qualche modo di “vincere” solo per le sue intrinseche qualità?
Tornando invece alla questione del nemico, Assange è molto netto: Google in primis, ma anche altre corporation tech, sono ormai dei soggetti politici sovranazionali, con una loro agenda economico-politica strettamente intrecciata con alcuni governi, quello americano in particolare. Dimenticate la gioiosa e libertaria cultura geek della West Coast, dimenticate il motto di Mountain View “non fare male”.
Malgrado ciò hanno sempre goduto un trattamento di favore da parte degli stessi attivisti pro-privacy, anche a causa delle comuni radici culturali e di alcuni conflitti di interesse. Questo trattamento di favore - scrive l’autore - non è più accettabile, come del resto il Datagate ha reso evidente.
Tuttavia l’impressione è che il nemico sia meno monolitico e più nebuloso di quanto Assange vorrebbe. Un esempio pratico: il capo di WikiLeaks si scaglia contro la New America Foundaton, a cui sia Cohen che Schmidt sono legati, fondazione ritenuta un braccio della politica centrista-imperialista del governo americano. Però la stessa fondazione, attraverso il suo Open Technology Institute, da tempo promuove l’adozione di reti mesh aperte e open source. Quelle stesse reti mesh che nel libro Assange indica come una delle prospettive dell’attivismo globale. Oppure: per mostrare i legami con il complesso cyberindustriale Usa, l’autore cita il fatto che Google sia nata agli albori anche grazie a un progetto di ricerca della Darpa, l'agenzia di ricerca avanzata della Difesa. Però anche il software Tor, lo stesso usato da WikiLeaks, Snowden, Anonymous, e molti altri attivisti, nasce dalla marina militare americana e ancora oggi è finanziato in parte dagli Usa. È chiaro che esiste una politica di una parte del governo americano che vuole usare le “tecnologie di liberazione” come uno strumento per promuovere e guidare cambiamenti in altri luoghi del mondo. Questa visione è incarnata nel modo più cristallino dallo stesso Cohen e da Alec Ross, che è stato consigliere di Hillary Clinton al Dipartimento di Stato, e dalla loro “diplomazia digitale”. Ma paradossalmente alcune di quelle tecnologie sono state usate con successo anche dai critici del governo statunitense.
Perché una volta che il genio è fuori dalla bottiglia non è così controllabile come si vorrebbe. Allo stesso tempo, né Google, né probabilmente lo stesso governo americano sono realtà così compatte come si pensa che siano. Il nemico indicato da Assange rischia di essere più indefinito di quanto espresso nel libro. Più contaminato. Più ambiguo. Dai confini permeabili e quindi difficili da individuare. Inoltre, come Wikileaks e come i cyberattivisti, potrebbe muoversi sempre di più con la stessa tecnica della guerrilla.