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L’Italia è un paese da cui ci si deve difendere

16 Marzo 2014 5 min lettura

L’Italia è un paese da cui ci si deve difendere

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Italia yes Italia no (Feltrinelli) di Caterina Soffici parla dell'esperienza della giornalista a Londra, dove si è trasferita con la famiglia. La si chiami «fuga dall'Italia» o «fuga di cervelli», l'emigrazione di questi ultimi anni sta diventando un fenomeno collaterale della crisi, quindi le vicende personali si inseriscono in un quadro sociale ormai consolidato. Le statistiche dell'AIRE (Anagrafe Italiani Residenti all'Estero) sono impietose, e bisogna notare che si basano per l'appunto sui cittadini che si registrano, perciò non corrispondono al totale effettivo.

Come ricorda la stessa autrice, al 31 dicembre 2012 sono oltre 4 milioni gli italiani registrati come residenti all'estero, di cui oltre duecentomila in Gran Bretagna. È una città italiana di grandi dimensioni che sparisce, in pratica, e non è certo per il carisma di paesi come la Gran Bretagna. C'entra piuttosto un'assenza di possibilità, una claustrofobia che colpisce l'animo al di là delle difficoltà materiali, per cui le soluzioni sono cercate altrove. C'è un senso di rassegnazione e al tempo stesso di speranza, in scelte del genere: mettere radici altrove, per quanto possa risultare a vario titolo difficile o traumatico, presuppone che la vita possa continuare e rigenerarsi, proprio grazie a quell'altrove. Ma, spiega l'autrice con parole nutrite dalle nuove radici, la crisi non è tanto il motivo del malessere che spinge a partire, quanto l'acceleratore del malessere:

Perché ce ne siamo venuti via? Perché a Londra si vive peggio, ma si sta meglio. Sembra un controsenso, ma chi avrà voglia di leggere queste pagine capirà. Capirà che arriva un momento in cui l’Italia diventa un paese che non si può smettere di amare, ma dal quale ci si deve difendere. [...] Sarebbe bello fosse colpa della crisi. La crisi ha la sua parte. Ma non è solo questo, purtroppo. E dico  purtroppo perché le crisi prima o poi passano. Mentre  la devastazione, civile e culturale, che ci lasciamo alle spalle è una voragine che sembra senza fine. [...] Chi lascia l’Italia lo fa perché non ne può più. Perché c’è un momento in cui il piatto della bilancia comincia a pendere troppo da una parte e la “dolce vita” non basta a riportarlo in equilibrio. La qualità della vita, il cibo, il sole, il mare non ce la fanno più a compensare quello che ti tocca ingoiare tutti i giorni in Italia.

A fare la differenza, insomma, è il vivere in un paese dove i problemi hanno una consistenza e le azioni delle conseguenze. Chi ha una posizione di potere ha delle responsabilità e la pressione del doverne rendere conto, non vive nel privilegio istituzionalizzato. Soffici spiega con una differenza linguistica questo abisso culturale che si impara a misurare vivendo in Gran Bretagna:

Nel sistema britannico un’espressione come “familismo amorale” non è neppure traducibile e non si riesce a far loro capire il giusto significato del termine. Se ci provi ti rispondono: “Ah, mafia!”. No, la mafia è un’altra cosa, cerchi di spiegare. La mafia è malavita organizzata. La mafia lascia cadaveri dietro di sé, controlla il territorio con metodi illegali. E mentre spieghi, ti rendi conto che, se pure non è la stessa cosa, il familismo e le corporazioni e quelle bande che si spartiscono i posti e il potere sono qualcosa di molto simile alla mafia. Le morti sono morali e non fisiche. Il territorio, metafisicamente parlando, è occupato illecitamente allo stesso modo. Quindi, a ben riflettere, non è così sbagliato parlare di mafia. C’è qualcosa di molto mafioso in tutta la società italiana.

Non è certo questo un libro del genere «che schifo l'Italia, w Londra»: l'autrice riesce anzi a evidenziare la differenza di mentalità, come anche il sistema inglese abbia difetti, paradossi e ingiustizie. Il capitolo dedicato al sistema scolastico, ad esempio, descrive con minuzia come il passaggio dal sistema clientelare italiano a quello meritocratico inglese si traduca solo in un diverso ordine di disuguaglianze. L'istruzione inglese, infatti, premia i meritevoli, ma per giocarsela nelle scuole più blasonate (private) il reddito è una barriera praticamente insormontabile. Dunque la meritocrazia è un inganno dietro cui si cementifica la disuguaglianza sociale: «la meritocrazia funziona per censo». Colpisce la storia del padre della working class che si indebita per pagare il tutor privato grazie al quale il figlio, forse, potrà passare il test d'ammissione. Il sistema è ferocemente competitivo e unilaterale nei valori che trasmette.

È però nel modo in cui il sistema gestisce gli scandali politici che si vede la differenza per cui a Londra si sta meglio. E qui entra in gioco la «cartellina» dell'autrice, da cui i ritagli di giornale su scandali e cattive abitudini dei politici nostrani sono estratti durante le discussioni con gli inglesi, puntualmente increduli di fronte all'impunità che la fa da padrone nel nostro sistema, mentre si discute su quale paese abbia la peggior classe dirigente. Perché la differenza non è tanto nel tasso di corruzione, nei dati statistici: è nel modo in cui l'opinione pubblica e le istituzioni reagiscono agli scandali, dove si vede che in Inghilterra si è cittadini, prima di essere di essere di destra o di sinistra, mentre da noi la militanza coincide con l'appartenenza.

Prendiamo ad esempio il Tabloidgate, che ha visto sul banco degli imputati giornalisti del magnate Rupert Murdoch e funzionari di Scotland Yard: per anni VIP, politici e membri della famiglia Reale sono stati intercettati illegalmente, o sono state acquisite illecitamente informazioni sul loro conto. La rilevanza dello scandalo produce indignazione, indagini, rotolamento di teste eccellenti e, nell'infuriare del tornado, una commissione d'inchiesta, che vede deporre lo stesso Rupert Murdoch:

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Niente a che vedere con le commissioni nostrane, quelle sulle stragi e sui misteri d’Italia, denaro sprecato sapendo che non si arriverà mai a niente. Qui la commissione Leveson fa sul serio. Sfilano davvero i testimoni eccellenti. Rupert Murdoch depone a Westminster. E il miliardario australiano per due giorni appare con il cappello in mano, si scusa per il comportamento dei suoi giornali. Sarà pure tutta una finta. Ma la rabbia del paese è palpabile. Tutti pretendono che si scusi e lui lo fa. Gli Squali qualche volta si scusano, i Caimani mai.

Questa rigidità può apparire assurda nel quotidiano, quando si è multati per un biglietto scaduto da un minuto, facendo preferire la nostra elasticità di fronte alle regole. Ma nel computo complessivo, alla fine del libro, la bilancia pende verso la terra d'Albione, anche perché là fenomeni come sessismo, discriminazione di genere od omofobia incontrano ben più robusti anticorpi, e questo incide sulla qualità dell'aria che si respira.

Scritto con quella leggerezza che s'impara vivendo e che non toglie densità ai concetti, Italia yes Italia no è un libro da regalare a quei connazionali convinti, per abitudine, mancanza di fantasia o arrendevolezza, che tutto il mondo sia paese, e che quel paese sia l'Italia; che le cose vadano come devono andare e che sia ingenuità il credere che debbano o possano andare diversamente. Sarà un utile regalo, soprattutto se quel connazionale siamo noi.

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