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5 cose da sapere se vuoi fare politica in Italia nel 2014

30 Dicembre 2013 7 min lettura

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5 cose da sapere se vuoi fare politica in Italia nel 2014

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Oggi Repubblica ha pubblicato la consueta indagine annuale "Gli Italiani e lo Stato" a cura di Demos/Ilvo Diamanti. È una fotografia del rapporto, sempre più logoro, tra democrazia e fiducia nel nostro Paese. In questi anni quasi tutti i campanelli d'allarme sulla crisi del rapporto tra cittadini e istituzioni (tra cui questo tipo di ricerche) sono stati letteralmente ignorati e questo ha innescato certamente un circolo vizioso.

Meno gli italiani si fidano della politica, meno la politica tiene conto della crisi di fiducia con comportamenti conseguenti, più gli italiani perdono buoni motivi per fidarsi, scivolando progressivamente verso la rabbia, e via via fino al cinismo, al disincanto, e al sentimento più problematico, più inscalfibile: l'indifferenza, la sensazione che tanto non cambierà (mai) nulla, dunque non vale la pena interessarsi, attivarsi, appassionarsi.

I numeri sono impietosi, e sono impietosi soprattutto perché sono stabili nel tempo. La crisi del rapporto tra democrazia e fiducia dura da anni e nessun cambiamento della politica italiana, neanche nel 2013, sembra aver minimamente contribuito a invertire la tendenza. Proviamo ad analizzare i più significativi.

1. Fiducia nelle istituzioni

Solo tre "organizzazioni" ottengono dati di fiducia superiori al 50%: le Forze dell'Ordine, saldamente al primo posto, addirittura in crescita dal 2012 (superato il 70%), la Chiesa (54%, più 10% in un anno) e la scuola.

Tutti gli altri sono sotto il 50%. Il Presidente della Repubblica, per anni il più stimato e apprezzato esponente dell'intera classe politica, è in affanno (49.7%): il rapporto tra Napolitano e gli italiani è, di fatto, ai minimi storici. Il resto è ancora più disastroso: meno di quattro italiani su dieci si fidano della Magistratura, meno di uno su tre dell'Europa (-11% in un anno: la retorica anti-europeista ha funzionato fin troppo bene, e questo rischia di essere il grande tema delle prossime elezioni europee a fine maggio).

La fiducia negli enti territoriali di prossimità, i Comuni, da sempre i "meno peggio" nel rapporto tra gli italiani e Stato, è crollata al 31%, a dimostrazione che l'impotenza dei primi cittadini tra tagli e patto di stabilità è scontata direttamente sul territorio. Stesso discorso per le Regioni, con livelli di fiducia poco superiori al 20%. Se non ripari le strade, non garantisci i servizi, i cittadini se la prendono con il livello di potere più vicino, a prescindere dalle sue reali responsabilità. Meno di un italiano su cinque ha fiducia nei sindacati, idem per lo Stato (solo il 18.9% si fida dei livelli istituzionali più alti, a conferma di un'interessante, e per certi versi problematica, divaricazione tra "Stato" e "Forze dell'Ordine" nella percezione generale).

Le banche sono ferme al 12.9%. Parlamento (7.1%) e partiti (5.1%) sono stabili nei bassifondi. Neanche l'ingresso del M5S in Parlamento, le Primarie del PD, il nuovo governo, la (presunta) uscita di scena di Berlusconi, il famoso ricambio generazionale hanno fatto cambiare l'idea agli italiani.

La media della fiducia nelle istituzioni politiche (Comune, Regione, Europa, Stato, Presidente della Repubblica, Partiti, Parlamento) è al 24%. Nel 2005 era al 41%. Parlare di antipolitica per descrivere questa fase storica è limitante, persino fuorviante. Il sentimento è anti-sistema, anti-partitico, anti-istituzionale. Nessuno (eccetto Bergoglio) si senta escluso.

2. Equità fiscale

Nel 2005 gli italiani chiedevano maggiore coerenza tra tassazione ed erogazione di servizi. Accettavano, di fatto, una tassazione più alta, a condizione che lo Stato offrisse ciò per cui chiedeva sacrifici agli italiani. Otto anni dopo, tra crisi economica e disillusione (sulle capacità delle istituzioni di garantire la giustizia sociale), il rapporto si è letteralmente rovesciato. Gli italiani vogliono pagare meno tasse perché non ce la fanno più ma forse perché in questi anni si sono convinti che tutto sommato sia meglio sbrigarsela in proprio, perché in fondo il potere pubblico non fa ciò per cui gli italiani pagano le tasse.

L'indice di propensione all'ingresso dei privati nella sanità o nell'istruzione, pur restando tutto sommato basso (26%) e pur tenendo conto di dati inequivocabilmente a favore della difesa dei "beni comuni" (referendum 2011), è cresciuto di cinque punti in tre anni, a conferma di una crisi di fiducia profondissima nello Stato come regolatore e come erogatore di servizi. Ridurre le tasse, fare una riforma redistributiva della ricchezza, non è più un concetto che può essere considerato "di destra" o "di sinistra", è oramai una priorità per chiunque governi questo Paese, a qualsiasi livello territoriale.

3. Presidenzialismo

L'opinione pubblica italiana è pronta al presidenzialismo. Berlusconi ha vinto questa battaglia culturale, che oramai ha conquistato estimatori in ogni segmento politico. Non è semplice stabilire quanto questo dato sia condizionato dalla narrazione della destra degli ultimi 20 anni, e quanto piuttosto è dipeso dalla natura di questa fase politica, da Monti in poi, in cui il ruolo di Napolitano è stato soverchiante rispetto al passato (per l'assenza di senso di responsabilità della politica, o per una tendenza dirigista del Presidente della Repubblica, o per entrambi i motivi).

A questo punto, più che fare le barricate contro il presidenzialismo, occorerebbe ragionare su quali contrappesi sono necessari nell'eventualità in cui questa transizione istituzionale dovesse prendere forma. Di legge sul conflitto di interessi non si parla (di nuovo) più. Eppure Berlusconi è all'opposizione. Questo conferma che i conflitti vanno intesi sempre al plurale, e che non si è mai intervenuto su questo terreno perché, anche in questo caso, nessuno può sentirsi davvero escluso.

Un presidenzialismo senza paletti rigidi sui conflitti di interesse può porre le basi per un disastro tendenzialmente autoritario.

4. Autoritarismo

La deriva autoritaria, in realtà, non dispiace a tre italiani su dieci. A conferma che lo Stato, la democrazia rappresentativa, le istituzioni, hanno già fallito nel loro ruolo, non hanno fatto autocritica in modo sistematico, non sono cambiate a sufficienza (mentre il mondo attorno cambia rapidamente, e non sempre in meglio). Questa deriva non è arretrata in questi cinque anni, ma non si può neanche ignorare il fatto che già cinque anni fa, agli inizi della crisi economica ma già nel pieno della crisi politica, gli italiani che consideravano con favore più o meno esplicito una soluzione autoritaria erano già oltre il 25%.

Questo zoccolo duro conferma che una parte non marginale dell'Italia apprezza, e apprezzerà, le tendenze leaderistiche. Ovviamente le qualità positive e negative dei leader che via via si alternano (e spariscono: Monti ha perso 50 punti di fiducia nel solo 2012, e in 18 mesi è passato dall'autorevolezza globale all'irrilevanza altrettanto globale) diventano sempre più determinanti nel capire in quale direzione andrà il nostro Paese.

5. Una riserva di determinazione

Una delle frasi che i politici non dovrebbero mai pronunciare, soprattutto dopo le elezioni, è "gli italiani non ci hanno capito". Gli italiani hanno capito eccome, altrimenti questi dati non si spiegherebbero. Non si spiegherebbe, in particolare, come al crollo di tutti i livelli di fiducia in tutte le istituzioni, politiche e non, non corrisponda una totale inazione, ma piuttosto ci sia una tendenza generale al disincanto che in alcuni casi si è trasformata in indifferenza, in altri in nuove e vitali forme di partecipazione.

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Gli indici di partecipazione politica, sociale e "nuova" (boicottaggi selettivi, consumo critico, attivismo digitale) non sono mai stati così alti negli ultimi sei anni. Il dato è certamente condizionato in positivo dalla presenza di due grandi appuntamenti elettorali (politiche e Primarie del PD), ma denota soprattutto una grande, inascoltata richiesta e un'altrettanto grande, inesplorata opportunità: gli italiani che non si arrendono alle tentazioni autoritaristiche chiedono solo di poter partecipare, hanno un capitale enorme di entusiasmo, civismo, determinazione.

Non si fidano più, hanno bisogno di tempo, di buoni esempi, di essere coinvolti, di coerenza, di un rapporto trasparente tra promesse e fatti. Ma sono disposti a farlo, sono disposti a impegnarsi per il Paese.

Alla politica italiana la scelta: continuare a sguazzare nel cinismo, o tentare un enorme (sia per impegno che per tempo necessario) sforzo per fare ciò per cui esiste, cioè rappresentare, ascoltare e decidere?

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