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Freelance: va bene l’entusiasmo e va bene il digitale ma intanto bisogna sopravvivere

19 Luglio 2013 5 min lettura

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Freelance: va bene l’entusiasmo e va bene il digitale ma intanto bisogna sopravvivere

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di Laura Eduati

Sto prendendo le ferie da un lavoro che non ho, ovvero la giornalista freelance.

Non sono giovane (ho 38 anni) e improvvisamente, dopo anni con un contratto a tempo indeterminato presso il quasi defunto quotidiano Liberazione sto camminando nelle strettoie del giornalismo a pezzo. Sono stata dunque dentro una redazione blindata, e fuori. E soprattutto non sono all'inizio di un percorso professionale, il mio sogno non è quello di diventare una giornalista (lo sono già almeno formalmente: tesserino, Inpgi e collaboro scrivendo pezzi) e ultimamente mi sono sorpresa a pensare che potrei mollare. Sono dunque lontana dal prototipo del giovane-cronista-in-erba-al-quale-dare-paternamente-consigli, e leggendo gli interventi apparsi su Valigia Blu sul mondo dei precari del giornalismo ho pensato che costantemente vengono elusi due problemi fondamentali: la bravura e il denaro.

Comincio dalla bravura. Per diventare giornalista hai bisogno di un maestro. Un caporedattore, un direttore, un amico giornalista competente, qualcuno che pazientemente e inflessibilmente ordina di riscrivere il pezzo finché non va bene. Il giornalismo è tecnica e riconoscere cosa può diventare notizia, è confermare se una notizia è vera, è consultare le fonti giuste, è comprendere dove può annidarsi la notizia. Si impara con l'esperienza ma è fondamentale una guida, anche se il compito è quello di trovare notizie sfiziose e apparentemente leggere: i giornali anglosassoni traboccano di giornalismo investigativo ma anche di giornalismo di costume confezionato da redattori preparati e brillanti che raccontano meglio di chiunque altro come cambia la società. Ricordo l'emozione quando lessi il reportage del Washington Post sui bambini dimenticati dai genitori in macchina. Una storia coinvolgente, documentata girando in lungo e in largo gli Stati Uniti, un articolo che vinse il premio Pulitzer.

Eppure non occorre ambire a diventare Oriana Fallaci o Tiziano Terzani. Fare il giornalista, spesso, è raccontare piccoli pezzi di realtà, è un lavoro e non è un sogno. E la bravura deve essere prima di tutto quella di una redazione che improvvisamente coglie il talento di un collaboratore e lo mette a frutto, credendoci. Questo avviene ormai raramente, le redazioni sono striminzite e oberate di lavoro, non hanno il tempo  di dare consigli e non ordinano di riscrivere l'articolo.

Non credo che questa esperienza sia sostituibile frequentando una scuola di giornalismo, da redattrice assunta ho avuto modo di osservare stagisti provenienti dalle scuole e la qualità principale di coloro che poi hanno conservato un rapporto di collaborazione era la voglia di imparare con umiltà. E ricordo anche giovani cronisti che se la prendevano perché il loro primo articolo era stato massacrato senza pietà, quando avrebbero dovuto ringraziare il giornalista che si era preso la briga di leggere quello che avevano scritto. Succede ancora? E dove? E quando arriva il momento di guardare in faccia la realtà e pensare: forse non sono adatto a questo mestiere? Ma questo punto delicatissimo – ne va della autostima di chiunque – non può essere affrontato senza parlare del secondo elemento portante dell'architrave giornalistica – il denaro.

Leggo che la bravura di un giornalista post-moderno non deve comprendere soltanto la competenza giornalistica ma anche la capacità di “costruire e gestire la propria reputazione e affidabilità”: certamente, ma questo vale per qualunque professione. Non affideremmo mai nuovamente il riparo di una tubatura a un idraulico che la volta scorsa è arrivato due ore dopo senza avvisare, ha lavorato in fretta e male, e spesso non risponde al telefono perché dorme fino a tardi. E leggo anche il consiglio di associarsi, fondare cooperative, provare a fondare giornali online e così via. Nella mia piccola esperienza, ho fondato nel 2009 insieme con amici e colleghi un collettivo dal nome “Reportage Italia”. Lo abbiamo fatto per passione, abbiamo provato il crowdfunding, abbiamo esplorato altre forme di finanziamento per il giornalismo web, infine abbiamo raccolto i nostri reportage testo e foto in un libro “Stato d'Italia” che include la prestigiosa prefazione di Lucia Annunziata. Questo nome basta per farci pensare che siamo stati (forse) bravi. Ma non abbiamo guadagnato un soldo. Anzi, ci abbiamo rimesso.

Ciò che mi aspetterei è, pur rimanendo freelance, un compenso dignitoso per quello che scrivo: è inutile girarci intorno. Capisco bene che i direttori abbiano una somma ristretta per pagare i collaboratori a pezzo come me, e capisco bene che l'editoria sta attraversando il deserto per approdare in un luogo del quale appena scorgiamo i contorni.

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Capisco molto bene anche la mia posizione: lavorare molte ore, a volte giorni, per guadagnare 100 euro non è sostenibile sul lungo periodo. Conosco molti giornalisti capaci che guadagnano le stesse cifre, e le redazioni sono piccoli atolli riforniti giornalmente da centinaia di collaboratori pagati poco ma preziosi perché occorre macinare continuamente notizie e il lavoro non manca. Sono tutti bravi quei collaboratori? Non spetta a me dirlo. Ma finché vedremo pubblicati i nostri pezzi penseremo che ce lo siamo meritati, almeno secondo gli standard della testata alla quale abbiamo venduto il nostro tempo. E se ci riunissimo in cooperative per vendere articoli alle grandi testate, penso che guadagneremmo le stesse cifre.

Esiste un limite all'entusiasmo e alla bravura, e quel limite si chiama sopravvivenza: credo sia inutile battere i pugni sul tavolo, scrivere pezzi indignati sulla condizione dei freelance, imparare a montare filmati, parlare fluentemente l'arabo e aggiornarsi sul destino dell'editoria digitale se nel conto corrente continuano ad arrivare pochi euro per il nostro lavoro. Le redazioni, i direttori, chi affida i pezzi dei collaboratori, in ultima analisi le testate giornalistiche decidano quali sono i giornalisti freelance indispensabili e bravi e comincino a pagarli bene (non devono assumerli). Non parliamo forse spesso di meritocrazia? Sembra però che alle redazioni servano molti collaboratori da pagare con pochi euro, altrimenti non riuscirebbero a evadere l'enorme mole di lavoro giornaliero. Troveranno sempre qualcuno che lo faccia, qualcuno che abbia il sogno di diventare giornalista. Ma non è questo un buon modo di intendere la professione e ne va della qualità del giornalismo italiano: e, scusate, già questo si vede.

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