L’America di Trump è ormai nel pieno di una crisi costituzionale e democratica
8 min lettura“Il Congresso non promulgherà leggi per il riconoscimento ufficiale di una religione, o che ne proibiscano la libera professione; o che limitino la libertà di parola, o della stampa; o il diritto delle persone di riunirsi pacificamente in assemblea e di fare petizioni al governo per la riparazione dei torti”.
Questo è il testo completo del Primo emendamento alla Costituzione statunitense, sempre più ignorato dall’amministrazione in carica. Gli attacchi alla stampa, agli immigrati, compresi quelli con regolare visto, alla precedente amministrazione, al potere giudiziario, assumono nuove forme, violano sempre più dettami e si giustificano con le leggi più controverse mai approvate dal Congresso, quasi tutte varate in tempo di guerra e non pensate per essere applicate in situazioni pacifiche. Nel suo discorso di insediamento, il Presidente ha affermato di voler restaurare la libertà di parola in America, a suo dire distrutta dalle battaglie cosiddette “woke”. La realtà è che i diritti fondamentali sono in crisi e in molti casi, soprattutto nelle categorie svantaggiate, la libertà di parola è garantita soltanto se si è favorevoli alle politiche dell’amministrazione.
La battaglia contro la stampa, di cui abbiamo approfonditamente tenuto conto nei mesi precedenti, è proseguita con lo svuotamento di una nuova agenzia federale: la US Agency for Global Media, che controlla l’emittente radiofonica Voice of America (VoA), nata durante la Seconda guerra mondiale per controbilanciare la propaganda nazista. In virtù di questo riuscito esperimento, a VoA sono state incorporate nel tempo altre radio che hanno portato il pensiero americano in paesi piegati dalle dittature: tra queste, Radio Free Europe, fondata durante la Guerra Fredda e rivolta ai paesi del blocco sovietico, e Radio Free Asia, nata nel 1996 per fornire reportage accurati dove fino a quel momento arrivava principalmente la propaganda del regime comunista cinese. Un’operazione di soft power, che garantiva a cittadini di regimi dittatoriali la qualità editoriale del giornalismo americano e generava in chi riusciva a riceverne le trasmissioni un sentimento positivo nei confronti degli Stati Uniti. Non è un caso che la chiusura di queste emittenti, dovuta alla negazione di fondi da parte dell’amministrazione, abbia generato il plauso del governo cinese: il Global Times, giornale in inglese espressione delle posizioni della leadership di Pechino, ha parlato di Radio Free Asia come di una “fabbrica di bugie”.
Il motivo per cui Trump ha cancellato qualsiasi tipo di sovvenzione a questa agenzia federale, definita “la più corrotta degli Stati Uniti”, è il fatto che ritiene faccia propaganda di sinistra radicale: nei fatti, pur essendo pubblica, non è un’emittente allineata al pensiero della Casa Bianca. I giornalisti assunti sono stati tutti mandati in aspettativa fino a nuovo ordine e i collaboratori prontamente licenziati. Come per altri enti statali, Trump non ha il potere di chiuderli, che rimane in capo al Congresso, ma può cancellare tutti i fondi, costringendoli di fatto al silenzio.
Nel frattempo, è proseguito l’attacco diretto ai media indipendenti. Durante un discorso effettuato al Dipartimento di Giustizia, che ha fatto discutere anche perché nuovamente Trump si è scagliato contro i procuratori che lo avevano indagato nei vari procedimenti a suo carico, il presidente USA ha affermato che prodotti informativi come Washington Post, Wall Street Journal o MSNBC (da lui sprezzantemente chiamata MSDNC, per evidenziare una vicinanza tra la rete e le figure apicali del Partito democratico) sarebbero corrotti e pubblicherebbero notizie false per il 97,6 per cento; ha addirittura paventato che dovrebbero essere resi illegali. Sull’Atlantic Andras Petho, giornalista indipendente ungherese, ha apertamente parlato di come queste pressioni gli ricordino quelle di Orban sulla stampa libera, mentre nel frattempo creava una sua rete informativa di stretta aderenza governativa. Trump, quindi, non si affida al mondo del giornalismo per far risuonare il suo messaggio, ma sta creando una vera e propria informazione parallela che si alimenta sui feed dei social media. I giornalisti tradizionali non godono più di rilevanza nell’amministrazione e ricevono marginalmente notizie dirette: Steve Bannon, uno dei principali esponenti dell’alt-right, ha asserito che è la Casa Bianca stessa a dover diventare un produttore di contenuti, distribuendoli direttamente e contrastando quindi il presunto strapotere dell’apparato mediatico.
Non solo la stampa, anche entità private sono state attaccate. Trump ha deciso per l’eliminazione di tutti i contratti in essere con lo studio legale Perkins Coie, accusato di aver cercato di modificare i risultati elettorali e di aver promosso politiche di diversità e inclusione. La colpa dello studio è aver rappresentato Hillary Clinton nel 2016 e aver prodotto il dossier che stabiliva un legame diretto tra la campagna Trump e la Russia. Una dinamica di vendetta che non può aver posto nello Stato di diritto: Vox ha infatti ricordato che durante la presidenza Bush un ufficiale del Pentagono aveva proposto punizioni simili per le entità legali che sceglievano di difendere i prigionieri di Guantanamo. Dopo un mese da questa esternazione, l’ufficiale venne licenziato.
La crisi delle libertà costituzionalmente garantite ha toccato, quindi, anche la libertà di pensiero in senso più ampio. Negli scorsi giorni si è dibattuto molto sul caso di Mahmoud Khalil, nato in Siria ma di origini palestinesi, che è stato uno dei volti delle proteste all’Università Columbia contro le politiche del primo ministro israeliano Netanyahu nella Striscia di Gaza. Khalil, durante la protesta delle tende, quando molti studenti occuparono l’università chiedendo di disinvestire dai progetti di ricerca congiunti con le università israeliane, è diventato uno dei volti dell’occupazione per i media; non tanto perché avesse un ruolo apicale nell’organizzazione, quanto perché non si copriva il volto. L’otto marzo il ragazzo è stato prelevato dalle autorità e portato in un centro di detenzione in Louisiana, da cui l’amministrazione vorrebbe procedere al rimpatrio immediato; un giudice ha però deciso che servirà un’udienza in New Jersey, come richiesto dalla difesa. Khalil è accusato – senza prove valide – di avere idee politiche vicine a quelle di Hamas, organizzazione terroristica che governa la Striscia di Gaza, e di aver svolto attività a essa allineate: nonostante questo, non gli è stato fornito alcun capo d’accusa formale. Per di più, non si trova negli Stati Uniti con un semplice visto studentesco, ma con una green card, il certificato che permette a uno straniero di risiedere e lavorare nel paese per un periodo illimitato.
Per poterlo deportare annullando il suo permesso di residenza, la Casa Bianca ha deciso di utilizzare una legge che risale al periodo maccartista, il McCarran-Walter Act, che dà potere al Segretario di Stato di espellere rapidamente cittadini stranieri definiti minaccia per gli interessi americani; l’obiettivo con cui il provvedimento era nato consisteva nella deportazione immediata di chiunque si presumesse essere comunista e si inseriva in un nucleo di politiche lesive delle libertà personali. Attraverso questa legge, a cui il presidente Truman era contrario ma non potè nulla contro un Congresso compatto, vennero negati passaporti per l’estero a persone di alto valore sociale, come il leader afroamericano W.E.B Du Bois e il drammaturgo premio Pulitzer Arthur Miller. Una legge che non si usava da decenni, utilizzata per cercare di deportare un regolare residente per via di idee politiche opposte, senza nemmeno passare da un’udienza formale di fronte a un giudice: dovesse riuscire nell’intento, cosa che a oggi sembra difficile per come si è messo il caso, sarebbe un precedente importante nel modo di reprimere il dissenso.
Un caso analogo è quello di Rasha Alawieh, in possesso di un regolare visto di lavoro come professoressa alla Brown University, che è stata deportata in Libano perché ha partecipato al funerale del leader di Hezbollah Hassan Nasrallah e possedeva sue foto sul cellulare. Il punto focale in questo caso è il fatto che la donna è stata rimandata indietro, e il suo visto annullato, nonostante l’ordine di un giudice, che aveva fissato un’udienza per decidere se fosse o meno passibile di subire la deportazione. Una storia che denota un ampio solco tra le scelte dei giudici e la volontà dell’amministrazione di muoversi in aperta opposizione alle decisioni dei magistrati.
Dove questa spaccatura si è evidenziata di più è in un altro caso riguardante cittadini immigrati, probabilmente il più eclatante. Settimana scorsa Trump ha deportato 238 persone nel carcere di massima sicurezza di El Salvador, luogo in cui molteplici associazioni hanno evidenziato continue violazioni dei diritti umani. Lo ha fatto grazie a un accordo con il presidente autoritario salvadoregno Bukele, che se ne è preso carico in cambio di sei milioni di dollari. Il presidente ha asserito che i deportati appartenevano a Tren de Aragua, un’organizzazione criminale venezuelana, definita terroristica dagli Stati Uniti subito dopo l’inizio della presidenza Trump, nata dieci anni fa nella prigione di Aragua, da cui porta il nome. Già il fatto che tutti appartengano a Tren de Aragua è un’affermazione contestata dagli avvocati: molte di queste persone non hanno casi criminali pendenti nelle corti americane, e sarebbero stati identificati come membri del clan solo per via di alcuni tatuaggi. Per di più, Trump ha potuto mandare a El Salvador i detenuti in virtù di una delle leggi più controverse della storia statunitense, l’Alien Enemies Act. Scritto nel 1798, permette di deportare immediatamente i cittadini di un Paese con cui gli Stati Uniti si trovano in guerra per motivi di sicurezza nazionale. È stato usato solo tre volte, l’ultima delle quali per giustificare la detenzione dei cittadini nippo-americani durante la Seconda guerra mondiale, e nessuno aveva mai provato a farne uso in tempo di pace. Per attivarlo, Trump ha dichiarato di “essere in guerra con i criminali stranieri, e con i paesi che svuotano negli Stati Uniti le loro galere”. Una guerra non contro un nemico identificabile e votata dal Congresso, ma contro i migranti, che giustificherebbe misure di questo calibro.
Il giudice James Boasberg ha subito bloccato, in attesa di un’udienza, le deportazioni, che però sono avvenute lo stesso. La Casa Bianca ha ignorato la richiesta formulata oralmente dal giudice, e quando è arrivata quella scritta due dei tre aerei partiti per El Salvador avevano già oltrepassato lo spazio aereo americano; in una vera e propria prova di forza tutti e tre i velivoli hanno raggiunto lo Stato centroamericano, e Bukele se ne è bullato scrivendo su X “Oops… troppo tardi”. Per di più, oltre a non aver rispettato un ordine giudiziario, Trump ha scritto sul suo social network, Truth, che Boasberg avrebbe dovuto subire un impeachment. Per via di questo post, il giudice capo della Corte Suprema, John Roberts, ha difeso il suo collega, evidenziando come “non si può usare lo strumento dell’impeachment per controbattere a una discordia riguardo una decisione giudiziaria”.La mossa di Roberts arriva al termine di giorni complessi, in cui Trump ha attaccato il potere giudiziario su vari fronti: in un discorso tenuto nella sede del Dipartimento di Giustizia, ha parlato di un sistema corrotto e ha citato nomi e cognomi dei procuratori che hanno lavorato ad accuse contro di lui negli anni precedenti e ha parlato di rendere illegali le grazie firmate dall’ex-presidente Biden a favore dei suoi avversari politici, semplicemente perché firmate con un dispositivo automatico. Nonostante questo, durante un’intervista a Fox News ha cercato di abbassare i toni, asserendo di voler rispettare gli ordini dei giudici, nonostante quest’affermazione vada contro ogni mossa fatta negli ultimi dieci giorni. Va notato, però, che i media del conservatorismo classico, quelli di proprietà del magnate australiano Rupert Murdoch, hanno attaccato le mosse di Trump e hanno richiesto di rispettare gli ordini giudiziari e di attendere le udienze prima di dare il via alle deportazioni. Se questa tardiva presa di coscienza del mondo conservatore basterà a riportare sui binari della costituzionalità le mosse del presidente è presto per dirlo: la realtà, però, è che la crisi costituzionale paventata da quasi due mesi è ormai davanti agli occhi di tutti. Nel frattempo, Trump ha completamente abbandonato qualsiasi pretesa di appartenere a una visione conservatrice tradizionale: le mosse di questi mesi lo pongono sempre più apertamente a capo di un movimento di destra radicale, che vuole riconsiderare le libertà costituzionali ed espandere il proprio credo negli altri paesi.
Immagine in anteprima via groundup.org.za

SanVann
Molto interessante. Ci sono altri italiani che seguono questo sito??
EmmE
Si