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Il rischio di secessione in Bosnia e le mire di Russia e Ungheria

18 Marzo 2025 9 min lettura

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Il rischio di secessione in Bosnia e le mire di Russia e Ungheria

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Il vetro che avvolge la fragile stabilità dei Balcani occidentali ha raggiunto il massimo punto di incrinatura in Bosnia Erzegovina dalla fine della guerra degli anni ‘90.

Il 27 febbraio Milorad Dodik, il leader dei nazionalisti serbo-bosniaci, ha lanciato il piano di secessione istituzionale dalla Bosnia Erzegovina che minacciava da anni. Il Parlamento della Republika Srpska (RS), l’entità a maggioranza serba che Dodik presiede, ha adottato una serie di leggi che vietano a istituzioni dello Stato centrale quali la Procura, la Corte Costituzionale, il Consiglio Superiore della Magistratura e l’Agenzia di polizia nazionale (SIPA) di operare nel territorio dell’entità.

Da qualche tempo, infatti, Dodik e il suo partito dell’Alleanza dei Socialdemocratici Indipendenti (SNSD) hanno cominciato ad appellarsi alla versione originaria degli accordi di pace di Dayton che posero fine al conflitto. Essi non prevedevano la creazione imminente delle istituzioni centrali ma aprivano sì la strada alla loro futura formazione per garantire il funzionamento del paese. Inoltre, la nascita delle suddette istituzioni è stata avallata tra il 2000 e il 2004 dal Parlamento nazionale, di cui facevano parte anche i rappresentanti della RS, spesso membri del partito di Dodik, che hanno sempre votato a favore.

Le leggi che inibiscono queste autorità in RS sono entrate in vigore il 6 marzo. Nonostante la Corte Costituzionale le abbia sospese il giorno successivo, Dodik e il SNSD hanno perseverato nel loro intento di sgretolare l’ordine costituzionale della Bosnia Erzegovina. Il 12 marzo il Parlamento della RS ha approvato la decisione di procedere all’adozione di una nuova Costituzione. Promulgato il 28 febbraio 1992 durante la Guerra di Bosnia, l’atto fondante della RS è stato sottoposto nel dopoguerra a diverse modifiche per far sì che potesse rispettare gli accordi di pace. Ciò che contribuirebbe a un ulteriore attacco alla sovranità e all’integrità territoriale della Bosnia Erzegovina, dunque, non è l’esistenza di questo documento, legittima se in linea con gli accordi di Dayton, ma gli emendamenti che il Parlamento è pronto a far passare. Il progetto della nuova Costituzione, in via di definizione, suppone la creazione di un proprio esercito e il diritto all'autodeterminazione dell’entità, con la possibilità di unirsi a “comunità statali dalla struttura federale o confederale insieme a Stati confinanti, altri Stati o a un gruppo di Stati”.

Queste azioni hanno costretto la Procura nazionale ad avviare un’indagine nei confronti di Dodik, del primo ministro della RS Radovan Višković e del presidente del Parlamento dell'entità Nenad Stevandić per aver violato l’ordine costituzionale della Bosnia Erzegovina. Tutti e tre gli indagati hanno definito questa indagine una “persecuzione musulmana della Sarajevo politica” e si sono rifiutati di rispondere alla convocazione della Procura, che di conseguenza ne ha ordinato la detenzione temporanea per poterli interrogare. La polizia giudiziaria ha chiesto il supporto della polizia nazionale per eseguire il mandato, ma quest’ultima, diretta dall’alleato di Dodik Darko Ćulum, l’ha valutata un’operazione ad alto rischio e si è astenuta. Dodik, Višković e Stevandić, infatti, hanno menzionato a più riprese la possibilità di scontri nel caso in cui le forze dell’ordine dovessero tentare di arrestarli.

Ciò sta creando apprensione tra le istituzioni statali che vorrebbero il supporto dell’Eufor, un dispiegamento militare di 1.100 unità guidato dall’Unione Europea il cui obiettivo è mantenere la sicurezza e la stabilità nel paese. L’escalation in corso in Bosnia Erzegovina ha convinto l’UE a inviare ulteriori 400 soldati provenienti da Italia, Romania e Repubblica Ceca, che tra l’11 e il 13 marzo sono stati accolti a Sarajevo dall’ambasciatore dell’UE Luigi Soreca.

Ma cosa ha acceso in Dodik la volontà di intraprendere un percorso che molti analisti della regione dei Balcani hanno definito avventurismo politico?

Probabilmente la sensazione di sentirsi con le spalle al muro dopo aver ricevuto, il 26 febbraio, una condanna in primo grado a un anno di prigione e a sei anni di interdizione dai pubblici uffici per non aver rispettato e attuato le leggi imposte dall’Alto Rappresentante per la Bosnia Erzegovina, vale a dire il supervisore dell’implementazione degli accordi di pace.

L’incarico è ricoperto dal 1 agosto 2021 dal tedesco Christian Schmidt. L’1 luglio 2023 l’ex ministro del governo di Angela Merkel ha sospeso la legge con cui la Republika Srpska intendeva giudicare inapplicabile qualunque decisione dell’Alto Rappresentante sul territorio dell’entità e ha modificato il Codice penale della Bosnia Erzegovina, introducendo il reato penale di attentato all'ordine costituzionale. Il mancato rispetto di questo intervento di Schmidt ha dato vita al processo contro il presidente della Republika Srpska e alla sentenza sopra citata. Il potere di adottare decisioni vincolanti quando la politica locale è incapace o non è disposta ad agire e di rimuovere dall’incarico funzionari pubblici che violano gli accordi di pace è stato conferito all’Alto Rappresentante nel 1997 dal Consiglio per l’Attuazione della Pace (PIC), di cui fa parte anche l’Italia. Va da sé, però, che Dodik considera illegittimi tanto la figura dell’Alto Rappresentante quanto i poteri di Bonn, che prendono il nome dalla città tedesca in cui si svolse la riunione in cui il PIC decise che l’Alto Rappresentante avrebbe avuto maggior influenza sulle sorti della Bosnia Erzegovina. 

Il pensiero condiviso da attori politici interni ed esterni è che questa volta tocca alle istituzioni locali risolvere la crisi che attanaglia il paese. Troppo spesso per placare gli animi si sono affidate a interventi esterni che non hanno fatto altro che assecondare le richieste dei leader nazionalisti e indebolire l’autorità e la credibilità dello Stato centrale. Per questo motivo Schmidt e l’UE, criticata in più circostanze per aver trattato in maniera troppo morbida la politica separatista di Dodik e aver quasi sempre evitato di imporre sanzioni nei suoi confronti, hanno dichiarato di voler lasciare spazio alle istituzioni bosniaco erzegovesi.

Perché Dodik insiste con il suo piano di secessione nonostante le condanne arrivate da gran parte della comunità internazionale, in particolare dalla Nato e dall’amministrazione USA di Donald Trump da cui invece il leader nazionalista si aspettava un sostegno?

Benché non goda di una popolarità schiacciante tra la cittadinanza della RS e nonostante l’intera opposizione parlamentare si sia schierata apertamente contro le sue azioni perché non ritiene che questo sia il momento propizio per andare a caccia dell’indipendenza dell’entità, Dodik può beneficiare del supporto, più o meno diretto, di alcuni Stati, tra cui due membri dell’UE. Serbia, Russia, Croazia e Ungheria hanno tutte dei motivi validi per evitare la caduta di Dodik o per tentare di offrirgli un'ancora di salvezza qualora dovessero provare ad arrestarlo.

Il sogno nel cassetto del “Mondo Serbo”, una versione più edulcorata del progetto della “Grande Serbia” che prevede l’annessione di tutti i territori dei Balcani occidentali in cui sia presente una maggioranza serba, non è mai svanito dalla mente di Aleksandar Vučić, ministro dell’informazione durante l’epoca di Slobodan Milošević. In questo momento, però, la Serbia è attraversata da un enorme movimento di protesta studentesco che sta mettendo alle corde il regime di Vučić e la crisi scatenata da Dodik può fungere da argomento di distrazione dai tumulti interni. La crisi in corso in Bosnia Erzegovina ha ricevuto il pieno e pubblico sostegno di Vučić sin dallo scorso giugno. In occasione dell’Assemblea panserba, che riunisce esponenti politici di etnia serba di tutta la regione, Dodik e il presidente della Serbia hanno proposto un documento, in seguito adottato dai governi e dai parlamenti di Serbia e dell'entità della RS, in cui si afferma esplicitamente che “L’Assemblea panserba ritiene che la Republika Srpska possa, nella misura in cui lo riterrà opportuno, assumere tutte le competenze” che sono state trasferite a livello statale dal 1995. Nelle ultime tre settimane, Vučić ha incontrato Dodik due volte e anche il primo ministro e il vice primo ministro della Serbia hanno fatto visita al leader della RS a Banja Luka. Dopo ognuno di questi incontri, Dodik ha intensificato ulteriormente le sue azioni. 

Per la Russia, che ha espresso solidarietà a Dodik dopo la condanna della Corte Costituzionale e avvisato che un’eventuale conferma della sentenza in secondo grado potrebbe portare conseguenze negative nella regione, la Bosnia Erzegovina rappresenta da sempre una valida opzione di destabilizzazione in Europa per ostacolare l’Occidente. 

Anche la Croazia, governata ancora dall’Unione Democratica Croata (HDZ) fondata da Franjo Tuđman, continua a perseguire i suoi interessi in Bosnia Erzegovina, vale a dire una maggiore autonomia e la creazione di una terza entità a maggioranza croata che il caos di cui si è sempre reso protagonista Dodik potrebbe facilitare. Diversi europarlamentari croati, infatti, durante la seduta del 12 marzo al Parlamento europeo in cui si è discusso della crisi in Bosnia Erzegovina, hanno minimizzato l’impatto delle azioni di Dodik e cercato di sviare l’attenzione verso i mancati diritti di cui, secondo loro, non godono i croato-bosniaci.

Il maggior supporto, senza ombra di dubbio, Dodik lo ha incassato dall’Ungheria, l’unico Stato membro dell’UE che ha votato contro l’adozione della risoluzione ONU sul genocidio di Srebrenica nel maggio 2024. Allineato alla politica di Vladimir Putin e desideroso di far affondare l’UE dal suo interno, a partire dal 2019 il filorusso Viktor Orban ha stretto una proficua relazione politico-economica con Dodik che gli ha permesso di mettere le mani su diverse risorse naturali di cui è ricca la RS, tra cui il litio.

Non è un caso, dunque, che nel 2021 Orban abbia bloccato l’iniziativa tedesca volta a sanzionare Dodik per aver minato le istituzioni della Bosnia Erzegovina, motivo per cui dal 2017 è sulla “lista nera” degli Stati Uniti insieme ai suoi familiari e a diverse figure del governo della RS. E non è un caso che il giorno della condanna a Dodik 40 unità delle forze speciali ungheresi si trovassero nei pressi di Banja Luka, ufficialmente per un’esercitazione congiunta con le forze di polizia della RS, e che il 3 marzo il viceministro degli Esteri ungherese Levent Magyar si sia recato a Banja Luka per esprimere solidarietà a Dodik e affermare che qualunque cosa succeda l’Ungheria sarà al fianco della RS. Diversi analisti locali sospettano che Budapest sia pronta ad accogliere Dodik in caso di fuga, così come fatto con l’ex primo ministro della Macedonia del Nord Nikola Gruevski, fuggito in Ungheria dopo essere stato condannato a due anni di prigione nel 2018.

Altre vie di fuga si sarebbero potute presentare durante l’ennesimo incontro con Vučić a Belgrado previsto nei giorni scorsi o durante il viaggio a Mosca fissato per il 18 marzo, ma entrambi gli impegni sono stati annullati senza una ragione apparente. In realtà, il motivo potrebbe essere legato ai più recenti sviluppi verificatisi nella giornata di lunedì 17 marzo quando il Tribunale della Bosnia Erzegovina ha emesso un mandato di cattura su tutto il territorio nazionale per Dodik, Višković e Stevandić per non essersi presentati in Procura per essere interrogati e non essersi fatti trovare a casa quando la Procura stessa aveva emesso un mandato di arresto temporaneo per portarli in sede. Ciò significa che qualunque membro di qualunque agenzia di polizia in Bosnia Erzegovina è tenuto per legge ad arrestare i tre politici, ma si tratta di una possibilità remota visto che già SIPA, la forza di polizia nazionale, si è rifiutata di eseguire l’ordine.

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Nel caso in cui Dodik, Višković e Stevandić dovessero riuscire a passare il confine, esiste la possibilità per le autorità locali di emettere anche un mandato d’arresto internazionale coordinato dall’Interpol. Al momento, Stevandić si troverebbe in Serbia, dove si è recato sabato scorso in occasione delle proteste di massa contro il regime di Vučić, mentre Višković e Dodik sarebbero ancora in RS. Quest’ultimo, inoltre, ha aggiunto ulteriore pepe a una situazione già molto tesa annunciando la creazione di una polizia di frontiera della RS, verosimilmente per permettere a se stesso e ai suoi alleati di muoversi liberamente dentro e fuori l’entità a maggioranza serba.

Detto ciò, rimangono aperti due scenari: l’ennesima “pace” tra Dodik e il resto delle forze politiche bosniaco erzegovesi, al momento inermi e disunite, favorita dall’intervento diplomatico della comunità internazionale oppure una decisa presa di posizione delle autorità locali, ancora troppo titubanti, con conseguente arresto e fine della carriera politica di Dodik. Il primo caso, forse il più probabile e il meno rischioso da un punto di vista della sicurezza, significherebbe consegnare nuovamente la Bosnia Erzegovina nelle mani di chi vuole vederla sparire. Il secondo caso, con il supporto della missione Eufor, potrebbe sì causare qualche scontro tra le forze dell’ordine intente ad arrestare Dodik e i suoi alleati e le forze di sicurezza che proteggono i rappresentanti politici della RS, ma se portato a compimento potrebbe anche regalare al Paese un briciolo di speranza in più per un futuro prospero e stabile.

Immagine in anteprima: frame video YouTube

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