Il golpe della Silicon Valley: un lungo processo ideologico, culturale e politico
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Con una rapidità spaventosa e senza precedenti, Elon Musk e i suoi collaboratori si stanno impossessando di pezzi dello Stato federale statunitense – in alcuni casi proprio fisicamente, ossia piazzandosi negli edifici e dormendo lì.
Attraverso il cosiddetto “Dipartimento per l’efficienza governativa” (DOGE, che rimanda al nome di una criptovaluta e non è un vero e proprio dipartimento), l’uomo più ricco del mondo ha preso il controllo di parte del sistema di pagamento del Dipartimento del Tesoro e di agenzie cruciali come l’Amministrazione dei servizi generali o l’Ufficio per la gestione del personale.
Musk vorrebbe inoltre smantellare USAID, l’agenzia che si occupa degli aiuti umanitari in tutto il mondo, poiché sarebbe un “covo di vipere marxiste radicali che odiano l’America”. Per giustificarne la chiusura, l’imprenditore sudafricano è arrivato a rilanciare su X una notizia falsa prodotta da una campagna di disinformazione russa.
Gli emissari dell’uomo più ricco del mondo sono stati poi avvistati anche all’interno degli edifici dei Centri per la prevenzione e il controllo delle malattie, il Dipartimento dell’Istruzione e gli Istituti Nazionali di Sanità.
A rendere il tutto ancora più caotico e angosciante c’è l’estrema opacità che avvolge il funzionamento del DOGE. Il “dipartimento” non ha una lista pubblica di funzionari, e anzi finora ha cercato di nasconderne l’identità.
La rivista Wired, insieme ad altre testate, ha però scoperto che il DOGE è composto soprattutto da dipendenti delle aziende di Musk – tra cui un gruppo di giovani ingegneri informatici tra i 19 e i 25 anni, senza la minima esperienza nel settore pubblico ma totalmente imbevuti dell’ideologia estremista, razzista e anti-woke che anima anche il loro capo.
Uno di questi, il 19enne Edward Coristine, ha come pseudonimo online “Big Balls” (“palle grosse”) ed è stato licenziato da una startup tecnologica per aver diffuso informazioni riservate. Un altro, il 25enne Marko Elez, aveva fatto commenti razzisti e favorevoli all’eugenetica su Twitter. Nonostante si sia dimesso dopo l’emersione di quei tweet, Musk ha fatto sapere che sarà riassunto.
Stando al Guardian, con il DOGE collaborano anche figure della destra trumpiana come Katie Miller, moglie del vicecapo di gabinetto Stephen Miller, e la deputata Marjorie Taylor Greene; nonché magnati della Silicon Valley come Marc Andreessen – fondatore di Netscape e del fondo Andreesen Horowitz – e Peter Thiel, cofondatore di PayPal insieme a Musk e presidente dell’azienda tech Palantir.
Non è affatto un caso che dentro questo “dipartimento” convergano giovani tech bro, ultraconservatori e broligarchi. Oltre a essere un vecchio sogno della destra repubblicana dai tempi di Ronald Reagan, lo smantellamento dello stato federale – e la purga delle “vipere marxiste” – è sempre stato uno degli obiettivi primari dei tecno-reazionari.
La creazione del DOGE non è dunque solo un’impresa personalistica di Musk; è piuttosto il risultato di un lungo processo ideologico, culturale e politico che parte dall’inizio degli anni Novanta, ossia dagli albori della moderna Silicon Valley.
Di cosa parliamo in questo articolo
“L’ideologia californiana”: tecno-determinismo e sessismo nella moderna Silicon Valley
Verso la metà degli anni Novanta, nel pieno del grande cambiamento socio-economico che poi culminerà alla bolla delle dotcom, l’intera Silicon Valley era pervasa da una convinzione incrollabile, quasi fideistica: la tecnologia e Internet avrebbero reso il mondo un posto migliore, e questa corsa al progresso sarebbe stata guidata unicamente dalle startup e dagli imprenditori.
In un famoso articolo critico del 1995, i teorici dei media britannici Richard Barbrook e Andy Cameron furono i primi a mappare i riferimenti culturali della nuova “classe virtuale” insediata nell’area industriale nella baia di San Francisco.
I due coniarono l’espressione “ideologia californiana”, che a loro dire era composta da una “miscela di cibernetica, economia liberista e contro-cultura libertaria”, a sua volta emersa da “una bizzarra fusione della cultura bohemienne di San Francisco con le industrie di alta tecnologia della Silicon Valley”.
Questa ideologia, continuavano, combina
il libero spirito degli hippies con lo zelo imprenditoriale degli yuppies. Questo amalgama di opposti è stato ottenuto per mezzo di una profonda fede nel potenziale emancipatorio delle nuove tecnologie dell'informazione. Nell'utopia digitale ognuno potrà essere ricco e felice.
Sotto la patina vagamente progressista, tuttavia, Barbrook e Cameron rilevarono la presenza di una forte componente di “neo-liberismo di destra” e “anti-statalismo” – sebbene la stessa Silicon Valley fosse il frutto di massicci interventi pubblici sotto forma di sussidi e sgravi fiscali.
I “profeti dell’ideologia californiana”, appuntavano i due teorici, sostenevano che solo “i flussi cibernetici e i vortici caotici del libero mercato […] saranno in grado di determinare il futuro”. Il dibattito politico era dunque uno “spreco di fiato”, la solidarietà sociale un ostacolo all’evoluzione della tecnologia e la stessa democrazia “un’eresia pericolosa che interferisce con la libertà di accumulare proprietà”.
Di fatto, chiosavano Barbrook e Cameron, “l’ideologia californiana” intendeva “incatenare l’umanità al peso del fatalismo economico e tecnologico”.
I due teorici non furono le uniche voci critiche che spezzarono il coro tecno-ottimista. Il giornalista Michael Malone, ad esempio, avvertì che “l’utopia digitale” rischiava di trasformarsi in “tecno-fascismo”; mentre la scrittrice Paulina Borsook disse che la glorificazione del “potere maschile” della Silicon Valley somigliava un po’ troppo “all’eurofascismo degli anni Trenta”.
Come ha sottolineato la ricercatrice Becca Lewis in un recente articolo sul Guardian, uno dei più importanti “evangelisti” della prima ora fu l’economista e investitore George Gilder, autore di una popolare newsletter capace – sempre negli anni Novanta – di determinare le sorti di un titolo tech in borsa. L’intellettuale era un conservatore molto apprezzato dall’ex presidente Ronald Reagan, e soprattutto un feroce oppositore del femminismo.
Gilder scrisse libri in cui parlava della necessità del ripristino di rigidi ruoli di genere nella società, e vedeva nell’imprenditoria – senza alcun freno o limite, chiaramente – il modo più efficace di difendere la “famiglia tradizionale” e riaffermare il predominio dell’uomo (rigorosamente bianco) minacciato dalle “politiche inclusive” e dalla “diversità”. I maschi, argomentava, erano “biologicamente e socialmente” più portati a fare gli imprenditori rispetto alle donne.
Le idee di Gilder ispirarono in particolar modo la rivista tecnologica Upside. Nel 1990 la testata di San Francisco dedicò la copertina alla presunta “femminilizzazione” (“pussyfication”) della Silicon Valley, causata dal femminismo e dal “politicamente corretto”.
Gli imprenditori e gli startupper avrebbero dovuto smetterla di preoccuparsi di urtare la sensibilità altrui (in particolare delle minoranze) ed essere più “mascolini” – ossia adottare un approccio più “diretto” e “duro” negli affari.
La svolta “tecno-fascista”, annota Lewis, venne temporaneamente interrotta dallo scoppio della bolla delle dotcom. Per non averlo previsto, la reputazione di Gilder subì un duro colpo; e si stemperò pure l’entusiasmo intorno alla Silicon Valley e all’“ideologia californiana”.
“Il mito della diversità” e “l’individuo sovrano”: le radici culturali della corrente reazionaria della Silicon Valley
In quegli stessi anni emerse però una nuova generazione, imbevuta di quelle stesse idee anti-“politicamente corretto” e desiderosa di metterle in pratica.
Il testimone di Gilder e Upside venne raccolto soprattutto da un giovane nato in Germania e cresciuto in Sud Africa: Peter Thiel. Nel 1987, da studente di filosofia all’università di Stanford, fondò la Stanford Review – una rivista che anticipò di diversi anni le “guerre culturali” conservatrici del Ventunesimo secolo.
Nel 1995, insieme a David Sachs – che all’epoca era un neolaureato in economia a Stanford – pubblicò un libro dal titolo eloquente: Il mito della diversità. Il testo è una tirata reazionaria contro i programmi di inclusione, gli studi decoloniali e in generale la diversità, che secondo Thiel e Sachs sarebbe un cavallo di Troia con cui far entrare idee comuniste all’interno dei campus universitari e (cosa ancora più grave) delle aziende tech.
Diversi passaggi sono violentemente anti-femministi, quando non direttamente misogini: a un certo punto si arriva a minimizzare lo stupro. Un’accusa di violenza sessuale, scrivono i due,
può indicare nient'altro che un rimpianto tardivo, perché una donna potrebbe “rendersi conto” di essere stata “violentata” il giorno dopo o anche molti giorni dopo [il rapporto]. In queste circostanze, non è chiaro chi debba essere ritenuto responsabile. Se l'alcol ha spinto entrambi a farlo, allora perché il consenso della donna dovrebbe essere annullato mentre quello dell'uomo no? Perché tutta la colpa deve ricadere sull'uomo?
Vent’anni dopo Thiel si scuserà per queste frasi, ma rivendicherà l’attualità del libro. “Quasi ogni punto che abbiamo sollevato” era giusto, ha detto nel 2023, il che è “sia gratificante che deprimente”:
Allora, il “multiculturalismo” era il termine generico per questa ideologia mostruosa; oggi si definisce woke e si batte per “diversità, equità e inclusione”. Il problema si è solo metastatizzato.
Al di là dell’avversione nei confronti del “politicamente corretto” e della “diversità”, la tesi principale del testo l’ha riassunta efficacemente il giornalista Valerio Renzi nella sua newsletter S’è destra: “Thiel e Sacks vogliono essere liberi di diventare ricchi oltre l’inimmaginabile, e vogliono che possano farlo solo i bianchi occidentali”.
![](https://www.valigiablu.it/wp-content/uploads/2025/02/paypal-mafia-1024x847.jpg)
Nel 1997, due anni dopo la pubblicazione de Il mito della diversità, venne pubblicato un libro cruciale per la corrente reazionaria e libertariana della Silicon Valley: The Sovereign Individual (L’individuo sovrano), scritto dall’investitore statunitense James Dale Davidson e dal giornalista britannico William Rees-Mogg.
Il saggio paragona i miliardari agli “dei della mitologia greca” e li caldeggia a impiegare le loro immense risorse per “riprogettare i governi” e “riconfigurare le economie”. In sostanza si tratta di una versione ancora più estrema e distillata dell’“ideologia californiana”, senza però gli orpelli “controculturali”.
Thiel è stato profondamente influenzato da L’individuo sovrano, al punto tale da includerlo nella lista dei libri più importanti per la sua formazione intellettuale. Soprattutto perché, ha scritto, apre una finestra su un futuro in cui “i potenti Stati che oggi ci governano non esistono”.
Nonostante le sue aziende abbiano sempre goduto di commesse stratosferiche da parte dello Stato federale statunitense, l’approccio anti-statalista di Thiel non ha fatto altro che radicalizzarsi col passare degli anni – sfociando poi nell’aperta contestazione delle strutture democratiche.
Nel suo manifesto del 2009 L’educazione di un libertariano, Thiel rigetta del tutto la “politica elettorale” e ribadisce che gli ultraricchi devono “fuggire dallo Stato” (soprattutto dal fisco) attraverso Internet e le criptovalute, l’esplorazione dello spazio e il cosiddetto seasteading – ossia città-stato galleggianti.
Nel brano più agghiacciante di quel breve testo, Thiel arriva a dire che “la democrazia e la libertà non sono per forza di cose compatibili”. Il senso di quella frase era molto chiaro: la loro libertà, quella dei magnati del tech e della Silicon Valley, vale più della democrazia.
“Venite, l’acqua è tiepida”: la Silicon Valley si allinea con Trump
Visto il suo percorso ideologico, non stupisce più di tanto che nel 2016 Thiel abbia appoggiato la prima candidatura di Donald Trump.
All’epoca la sua scelta era stata criticata da buona parte della Silicon Valley, ma in realtà Thiel – che poi rimarrà deluso dal primo mandato trumpiano e finanzierà la carriera politica dell’attuale vicepresidente JD Vance – aveva soltanto anticipato i tempi.
Durante la campagna elettorale per le presidenziali del 2024, tutti i magnati tech più importanti hanno dato il loro sostegno politico ed economico a Trump; anche chi aveva criticato Thiel nel 2016.
Il nome più noto è ovviamente quello di Elon Musk, che ha speso oltre 250 milioni di dollari e messo X al completo servizio della propaganda trumpiana. Poi c’è David Sacks, il coautore de Il mito della diversità, che a luglio del 2024 ha invitato altri imprenditori a unirsi alla campagna pro-Trump con un’esortazione su X: “Venite, l’acqua è tiepida”.
È da notare che Sacks nel 2016 aveva supportato Hillary Clinton, mentre nel 2021 aveva attaccato Trump dopo l’assedio al Congresso. Ora invece è stato nominato a responsabile del Consiglio dei consulenti del Presidente per la scienza e la tecnologia, con particolare attenzione su criptovalute e intelligenza artificiale.
Un altro imprenditore ad aver cambiato casacca è Marc Andreessen, a lungo associato al Partito Democratico e al mondo liberal.
In una lunga conversazione per un podcast del New York Times, Andreessen ha incolpato proprio i democratici e la cultura liberal di aver spinto la Silicon Valley nelle braccia di Trump.
Negli ultimi dieci anni, a suo dire, le università statunitensi più prestigiose hanno sfornato a getto continuo dei “comunisti che odiano l’America”, che a loro volta sono poi entrati nelle aziende tech per distruggerle in nome del “cambiamento sociale”.
Alla pressione dei dipendenti si è poi aggiunta quella dell’amministrazione Biden, che secondo Andreessen sarebbe arrivata a un passo dal distruggere la Silicon Valley. In realtà, ha semplicemente cercato di regolamentare timidamente il settore (con misure subito stracciate da Trump) e implementare politiche fiscali meno regressive.
Un secondo mandato di Biden, prosegue Andreessen, sarebbe stato “assolutamente disastroso” per la Silicon Valley. L’unico modo di evitarlo, insomma, era far tornare Donald Trump e avere dalla propria parte un’amministrazione più amichevole – o forse più controllabile.
A ben vedere, le argomentazioni di Andreessen ricalcano quelle degli anni Novanta di Gilder, Thiel e Upside: le università sono un covo di radicali marxisti, l’ossessione sulla “diversità” blocca la crescita, e uno Stato federale opprimente vuole bloccare l’inevitabile progresso tecnologico.
Ma c’è di più: l’appoggio a Trump non è solo dettato dalla convenienza, ma pure dall’ideologia. Sempre nel podcast, il fondatore di Netscape dice apertamente che
Dobbiamo porre fine alla censura. Dobbiamo far cessare la caccia alle streghe del governo [nei confronti delle aziende tech e delle criptovalute]. Le agenzie federali ormai sono fuori controllo. Queste cose devono essere messe a posto una volta per tutte. E la nuova amministrazione è stata molto esplicita su come intende risolvere tutto questo.
Anche la svolta di Mark Zuckerberg, a ben vedere, è convintamente ideologica. Quando il fondatore di Facebook ha parlato di “ritorno alle origini” della sua azienda, in un certo senso ha richiamato lo spirito originario dell’“ideologia californiana” e dell’uomo-imprenditore glorificato da Gilder.
E quando nel podcast di Joe Rogan ha detto che c’è bisogno di riportare un po’ di “energia mascolina” nella “cultura aziendale” della Silicon Vally, Zuckerberg ha rievocato le vecchie preoccupazioni di Upside sulla “femminilizzazione” dell’industria tech.
Significativamente, le prime vittime del corso trumpiano di Meta sono stati i programmi aziendali di DEI (acronimo di diversità, equità e inclusione), gli sfondi a tema LGBTQIA+ di Messenger, le politiche di moderazione contro i discorsi omolesbobitransfobici e gli assorbenti nei bagni degli uomini.
Misure analoghe sono state prese con estrema rapidità e solerzia anche da Google, Amazon e altri colossi tech, che evidentemente non vedevano l’ora di liberarsi di queste inutili zavorre woke.
Da RAGE a DOGE: l’attacco finale allo Stato federale
L’ostilità verso la democrazia e le sue procedure, come visto, ha sempre fatto parte dell’“ideologia californiana” e di un certo tipo di libertarianesimo in voga nella Silicon Valley.
Negli ultimi anni, tuttavia, l’avversione è sfociata in qualcosa di più radicale: il desiderio di sbarazzarsene del tutto.
A tal proposito, Thiel, Musk, JD Vance e altri magnati hanno ripreso le idee di una specifica corrente dell’estrema destra statunitense – quelle della cosiddetta neoreazione o “illuminismo oscuro” (Dark Enlightenment).
Uno dei maggiori esponenti di questa subcultura è Curtis Yarvin, che per anni ha gestito il blog Unqualified Reservations con lo pseudonimo di Mencius Moldburg. La sua ideologia è visceralmente antidemocratica, ma non contempla l’instaurazione di un regime militare o una dittatura vecchio stile.
Piuttosto, come ha sottolineato lo storico Joshua Tait nel saggio Key Thinkers of the Radical Right, il modello autoritario di Yarvin è l’azienda. Lo Stato dovrebbe infatti essere “privatizzato” per massimizzare i profitti degli “azionisti” (ossia i magnati) che si scelgono il loro “amministratore delegato-monarca”.
Uno dei passaggi chiavi per arrivare a questa sorta di “monarchia aziendale” è lo smantellamento dell’apparato burocratico federale. Un’operazione che Yarvin, in un post del 2012, ha racchiuso nell’acronimo RAGE: Retire All Government Employees, ossia “licenziare tutti i dipendenti governativi” e rimpiazzarli con persone fedeli all‘“amministratore delegato”.
Questa proposta è stata citata nel 2021 da JD Vance, che in un podcast ha suggerito a Trump – nel caso in cui fosse rientrato alla Casa Bianca – di
Licenziare ogni singolo burocrate di medio livello, ogni funzionario dello Stato, e sostituirli con la nostra gente. Penso anche che dovremmo impadronirci delle istituzioni controllate dalla sinistra e rivotargliele contro.
In un post pubblicato nel 2022 nella sua nuovo blog Gray Mirror, Yarvin ha poi espanso il piano RAGE adattandolo a un’eventuale secondo mandato di Trump.
La nuova amministrazione dovrebbe immediatamente “riavviare” il governo federale con metodi drastici e autoritari, agendo con poteri analoghi a quelli “delle forze di occupazione alleate in Giappone e in Germania” subito dopo la fine della Seconda guerra mondiale.
Questo “riavvio” – che chiaramente è un eufemismo di “colpo di Stato” – vedrebbe protagonista anche un “amministratore delegato” nominato dal “presidente del consiglio d’amministrazione” (cioè Trump) che
gestirà il ramo esecutivo senza alcuna interferenza da parte del Congresso o dei tribunali, magari assumendo anche il controllo delle amministrazioni statali e locali. La maggior parte delle istituzioni esistenti, pubbliche e private, saranno smantellate e sostituite con sistemi nuovi ed efficienti. Trump valuterà costantemente le prestazioni di questo amministratore delegato e, se necessario, potrà licenziarlo.
Lo scenario ipotetico di Yarvin – una specie di miscuglio tra The Apprentice e il Terzo Reich – è paurosamente simile a quello che sta facendo Elon Musk; e in un certo senso, il DOGE non è altro che la trasposizione di RAGE nel mondo reale.
Come ha scritto il giornalista Gil Duran nella newsletter The Nerd Reich, “stiamo assistendo alla metodica implementazione di una strategia di lungo corso per trasformare la democrazia americana in un’autocrazia aziendale”.
Dalle tirate contro la “diversità” e la “femminilizzazione della Silicon Valley” fino alle ossessioni antidemocratiche di intellettuali estremisti, era tutto già scritto da almeno trent’anni. Proprio per questo, vederlo realizzato davanti ai nostri occhi è ancora più terrificante.
Immagine in anteprima: frame video Forbes via YouTube
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