Il massacro senza fine in Sudan: la guerra, le vittime, le responsabilità internazionali
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Il Sudan è un inferno. In questo esatto momento ci sono persone che vengono uccise, altre che cercano di fuggire lontano da casa in un luogo sicuro laddove nessun luogo è sicuro. I più fortunati riescono a varcare i confini. In questo esatto momento ci sono persone assalite, torturate, i loro villaggi rasi al suolo. Ci sono donne malmenate, umiliate, stuprate.
Tutto questo va avanti da 21 mesi. Anzi, nel corso del tempo le cose sono andate peggiorando, gli attacchi sono diventati più feroci, il senso di impunità cresce e si alimenta del “sostegno sottinteso” di tutti quegli attori esterni che continuano a rifornire i belligeranti di armi e altro tipo di supporto. Poiché questa è sì una questione interna ma è anche e soprattutto un gioco di forza e di potere tra forze esterne.
La guerra del Sudan non è una battaglia asimmetrica tra un governo e un gruppo ribelle – ha scritto qualche analista - è una guerra di debolezza simmetrica: né la SAF né la RSF possono vincere militarmente o politicamente. Ma entrambi hanno potenti sostenitori esterni. Le cui armi e il cui “sostegno morale” stanno rendendo possibili le peggiori atrocità.
Tutto questo va avanti da quando è cominciato un conflitto che vede contrapporsi due forze militari: da un lato la Sudan Armed Forces con a capo il generale Abdel Fattah al-Burhan, presidente de facto del paese ma con scarsa autorità effettiva; dall’altro il gruppo paramilitare Rapid Support Forces guidato dal generale Mohamed Hamdan Dagalo, noto come "Hemedti". Gruppo che ha le sue radici nei Janjaweed accusati di crimini contro l’umanità per le violenze esercitate contro le popolazioni del Darfur negli anni del dittatore Omar al Bashir.
Proprio la caduta di quest’ultimo, nel 2019, aveva riportato speranze di pace e di pacifica convivenza, a cui però sembra abbiano creduto solo i più ingenui e gli ottimisti. Il breve regime di transizione – portato avanti dai due generali in questione – oggi appare per quel che era. Fumo negli occhi mentre i signori della guerra si preparavano a fare carne da macello della popolazione. Quella stessa popolazione, donne in prima linea, che aveva sostenuto una rivoluzione senza armi per liberare il paese da una dittatura divenuta insostenibile. Le cose, invece, sono peggiorate.
Già prima dello scoppio della guerra il Sudan stava attraversando una grave crisi umanitaria con 15,8 milioni di persone bisognose di aiuti umanitari. Il conflitto ha notevolmente esacerbato queste condizioni. Il numero degli sfollati oggi è pari a 14,6 milioni, mentre 30,4 milioni – più della metà della popolazione – hanno bisogno di sostegno umanitario. E si contano almeno 150.000 morti. La violenza sessuale è esercitata senza sosta – anche su uomini e ragazzi – dalle milizie, ed è estremamente difficile avere delle cifre ufficiali. Questo avviene soprattutto nelle città e villaggi del Darfur dove da tempo le organizzazioni umanitarie denunciano sia in atto un’operazione mirata di pulizia etnica nei confronti delle popolazioni nere non arabe. Senza contare la chiusura e distruzione delle scuole e delle infrastrutture sanitarie. Secondo le stime, il 70-80% degli ospedali nelle aree colpite dal conflitto non sono più funzionanti.
Insomma più che una guerra per il potere è una guerra contro le persone, contro i cittadini di un paese allo stremo che sta vivendo, nelle parole della International Rescue Committee “la più grave crisi umanitaria mai registrata”. Chi salverà il Sudan? Chi salverà una popolazione martoriata? Ma soprattutto, chi metterà fine alla pulizia etnica nei confronti di popolazioni non arabe dell’area del Darfur?
Questa parte del paese vive sotto costante minaccia e violenze continue e gli organi della comunità internazionale indagano da anni su accuse di genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità. L’avvio delle indagini della Corte Penale Internazionale risale al 2005. A essere messi sotto accusa rilevanti esponenti dell’esercito e lo stesso dittatore Omar al-Bashir. Nonostante alcuni processi, nessuno ha pagato per quei crimini che solo dal 2003 al 2008 hanno provocato la morte di 300mila civili e circa 3 milioni di sfollati.
Dopo un periodo di relativa calma, dal 2023 – dallo scoppio del conflitto dunque – la situazione è tornata ad essere incontrollabile. Fatto sta che non ci sono segnali che facciano sperare che le cose potrebbero cambiare, né a breve né a medio termine. Questo conflitto potrebbe andare avanti per un tempo indeterminato e non ci sono neanche segnali che lascino prevedere la vittoria dell’uno sull’altro. Così come tutti i tentativi di avviare trattative di pace sono finora falliti, a parte l’accordo raggiunto dal Aligned for Advancing Lifesaving and Peace in Sudan (ALPS) che comprende Stati Uniti, Svizzera, Egitto, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Unione Africana e Nazioni Unite per aprire canali lungo il confine con il Ciad per far transitare aiuti umanitari. Lo stesso confine da cui vengono contrabbandate armi ai paramilitari dell’RFS. Ma in realtà armi e munizioni passano anche attraverso altri confini come la Libia o la Repubblica Centraficana e vanno a intensificare non solo la forza dell’RFS ma anche l’esercito sudanese (SAF) violando così di fatto l’embargo ONU. Molti gli “aiuti” che arrivano dall’Iran e dagli Emirati Arabi Uniti.
Gli attori internazionali che stanno incidendo – e di fatto prolungando – il conflitto sono molti. Uno di quelli che ha più “investito” in questa guerra sono proprio gli EAU che vedono nel Sudan una posizione strategica per espandere la loro influenza nel Medio Oriente e nell’Africa orientale. E se Egitto e Arabia Saudita supportano soprattutto la SAF, gli Emirati, la Libia e la Russia con il gruppo Africa Corps (ex Wagner) sostengono la RSF.
Non è solo una questione di potere e di geopolitica. Perché se da un lato gli EAU hanno recentemente versato 70 milioni di dollari alle agenzie dell’ONU per affrontare l’emergenza umanitaria nel paese, dall’altro ci sarebbero prove che dimostrano speciali accordi con Hemedti, capo delle RFS, per lo sfruttamento delle risorse del Paese, compresi i giacimenti d’oro. Quasi tutto l’oro contrabbandato all’estero dal Sudan finisce negli Emirati. Mentre i prodotti agricoli, grandi estensioni di terra sono in mano ad aziende emiratine, devono passare da Port Sudan, oggi controllata dalla SAF.
La situazione già drammatica potrebbe ulteriormente degenerare mettendo a repentaglio la stabilità – in realtà già compromessa – a livello regionale. Il Sudan, che politicamente e culturalmente si trova a cavallo tra Medio Oriente, Nord Africa e Corno d’Africa è circondato da numerosi confini: Ciad, Repubblica Centrafricana, Sud Sudan, Egitto, Eritrea, Etiopia e Libia. E con ognuno di questi paesi ha rapporti e interessi diversi.
Come sottolineano esperti della materia, sebbene il Sudan abbia fatto da cuscinetto tra i militanti estremisti della Somalia nel Corno d’Africa e quelli della regione del Sahel, la guerra in corso potrebbe creare un terreno fertile per l’instaurazione di una collaborazione tra i gruppi militanti estremisti nella regione est-occidentale del Sahel.
“Ciò suggerisce che questa situazione potrebbe creare condizioni favorevoli per la diffusione dell’estremismo violento nella regione, soprattutto considerando la storia del Sudan come ex esportatore di conflitti violenti di matrice religiosa. Non solo la diffusione dell’estremismo e del traffico di armi potrebbe diventare una preoccupazione, ma anche il coinvolgimento di numerosi attori non statali è una possibilità. La probabilità che ciò accada è evidente, poiché la capacità del governo sudanese di controllare e gestire i propri confini diminuisce a causa della guerra in corso. È evidente che le attività legate alla criminalità organizzata transfrontaliera, compreso il contrabbando di armi, continueranno a diffondersi a meno che non vengano compiuti sforzi per ripristinare la pace e le istituzioni governative in Sudan”.
Ma chi è interessato davvero alla pace? La Cina, nel suo pragmatismo, ha a cuore che il paese riesca a ripagare i debiti – molti gli investimenti realizzati – e seppure in caso contrario potrebbe rivalersi sulle infrastrutture è più orientata a favorire la stabilità e quindi agli sforzi multilaterali per garantirla. Gli USA per il momento rimangono impegnati nella questione umanitaria – è stato annunciato l’invio di 30 milioni di dollari - e proprio qualche giorno fa il Dipartimento di Stato non solo ha apertamente denunciato il genocidio in corso verso le popolazioni del Darfur da parte della RSF ma non ha risparmiato neanche accuse di brutalità da parte della SAF e ha comunicato una serie di sanzioni.
Ma, come scrive sul Financial Times Payton Knopf, “la verità sulla brutale guerra del Sudan è che non ci sarà né un vincitore militare né una pace basata né sulle SAF né sulle RSF”. Secondo l’analista, tuttavia, il cambiamento delle dinamiche di potere in Medio Oriente rappresenta un’opportunità e un incentivo per porre fine alla guerra. Così scrive: “Molti degli stessi paesi del Medio Oriente che influenzeranno maggiormente il futuro della Siria – Israele, Qatar, Arabia Saudita, Turchia ed Emirati Arabi Uniti – detengono anche le chiavi di quello del Sudan. Questi Stati si trovano di fronte a una scelta. Potrebbero continuare a sfruttare il Sudan come campo di battaglia per le loro rivalità, in cui la vittoria militare è impossibile, mentre il paese sprofonda ulteriormente nel baratro. Oppure, di concerto con i vicini del Sudan – principalmente Ciad, Egitto, Eritrea, Etiopia, Kenya e Sud Sudan – possono creare un consenso attorno a una serie di parametri per risolvere il conflitto, un primo passo verso la stabilizzazione di un hotspot geopolitico al crocevia dell’Africa e il Medio Oriente”.
Dunque, il futuro del Sudan è in sostanza nelle mani di ognuno di questi attori esterni che non solo dovrebbero mettere da parte i propri personali interessi ma impegnarsi a garantire che il governo di questo paese venga rimesso nelle mani della società civile escludendo qualunque ulteriore coinvolgimento di questi due schieramenti che non solo non hanno saputo garantire la transizione da una dittatura a un governo democratico e legittimo ma stanno portando la brutalità e l’odio razziale – di cui il paese ha comunque spesso fatto esperienza – a livelli intollerabili.
Recentemente il New York Times ha diffuso un documentario, dolorosissimo e che non lascia spazio a interpretazioni. Si ricostruisce la catena di comando delle RSF ma si mostrano anche le violenze e la ferocia delle milizie, spesso giovanissimi, che chiamando Allah a testimone giustificano gli stupri nei confronti di donne di etnie africane non arabe, i saccheggi, le umiliazioni inflitte alle popolazioni, la distruzione che lasciano dietro di sé. La giornalista di origini sudanesi ed editorialista del Guardian, Nesrine Malik, sottolinea le responsabilità collettive di tali crimini, soprattutto quello compiuto nei confronti delle donne, alcune delle quali hanno scelto il suicidio pur di sottrarsi all’abuso estremo a cui sarebbero state sottoposte.
Nesrine Malik ci ricorda che tutto quello che sta accadendo, compresi gli stupri di massa, di cui non conosceremo mai il numero esatto, ci riguarda. Tutto quello che sta accadendo avrà conseguenze su tutti. Sia su quelli che stanno intervenendo, alimentando il conflitto, sia su quelli che stanno chiudendo un occhio, che si sono voltati dall’altra parte.
E se non sulle questioni morali – che sembrano così lontane rispetto ad altri tipi di interesse - si dovrebbe almeno riflettere sulle conseguenze pratiche di questo conflitto che secondo alcuni si prepara a diventare un’altra Somalia o un’altra Libia. Come si farà ad assorbire il numero di rifugiati? Chi potrà fermare il flusso delle armi tra i diversi paesi che circondano il Sudan? Chi controllerà i vari gruppi armati che aumenteranno il rischio geopolitico in un’area che fa da intersezione tra il mondo arabo e l’Africa sub-sahariana e una eventuale estensione della violenza jihadista? La devastazione non resterà circoscritta al Sudan. In un modo o nell’altro tutto il mondo ne pagherà le conseguenze.
Immagine in anteprima: frame video BBC via YouTube