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Dopo Assad tocca all’Iran?

19 Dicembre 2024 11 min lettura

Dopo Assad tocca all’Iran?

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È da oltre due anni che dello slogan di origine curda ‘Donna Vita Libertà’ - il grido delle donne e della società civile iraniana contro l’apartheid di genere e le leggi liberticide della Repubblica Islamica - si appropriano forze e soggetti politici che poco hanno a che fare con i protagonisti interni di quel movimento. L’ultimo a farlo è stato, il 12 dicembre, il premier israeliano Benjamin Netanyahu, nel suo terzo messaggio video “al popolo iraniano” in pochi mesi. L’occasione è stata la caduta, pochi giorni prima, del governo siriano di Bashar Al Assad, messo in fuga dall’avanzata-lampo delle milizie di Hayat Tahrir al-Shams guidate da Abu Mohammad al-Jolani, alias di Ahmad Hussein al-Sharaa, da anni nelle liste dei terroristi di Usa, Europa, Gran Bretagna, Onu.

 “Il futuro dell’Iran sarà ‘Donna Vita Libertà’ – ha detto Netanyahu, pronunciando lo slogan anche in persiano - e un giorno realizzeremo questo futuro insieme, molto prima di quanto si pensi. Sono certo che insieme faremo del Medio Oriente un faro di prosperità e pace”. Nel suo discorso ha anche cercato di interpretare il decennale malcontento di molti iraniani per il fatto che le risorse del paese sono state per decenni impiegate dal governo a favore degli alleati e delle milizie filo-iraniane nella regione (30 miliardi dollari ad Assad – aveva precisato, riprendendo una stima condivisa da varie fonti - altri 20 a Hezbollah, e altri ancora ad Hamas); e ha detto di immaginare quanto fossero “furiosi” per il fatto che quei soldi non fossero stati investiti in strade, scuole e ospedali in patria. Ma perché i loro governanti li hanno spesi altrove? Perché “vogliono conquistare altre nazioni e imporre la tirannia fondamentalista in Medio Oriente e in tutto il mondo”. Da parte sua Israele, ha proseguito, non cerca altro che difendere il proprio Stato, “ma nel farlo noi stiamo difendendo la civiltà contro la barbarie”. Quanto al cambio di regime in Siria,  lo ha definito un “risultato a catena” delle azioni militari di Israele contro Hamas e Hezbollah e di “tutti i colpi che abbiamo inferto all’asse del terrore del regime iraniano”. “Israele vuole la pace – ha concluso - con tutti quanti vogliano la pace con noi. So che anche voi la volete con noi”.  

Come interpretare le reali intenzioni del premier israeliano dietro tanto ecumeniche parole? Ci ha subito pensato Iran International, importante sito dell’opposizione all’estero : “Invocando Donna, vita, libertà, Netanyahu afferma che Teheran è la prossima dopo Damasco”, titolava. 

Il messaggio video di Netanyahu acquista però ulteriore rilevanza per l’essere stato ritwittato da Reza Pahlavi, cittadino Usa e principe erede dell’ultimo scià di Persia, che in questi due anni di mobilitazione per “Donna Vita Libertà” ha lavorato per assumere un ruolo di leadership dell’opposizione iraniana all’estero. “La pace e la stabilità dopo la caduta della Repubblica islamica – chiosa Pahlavi - non sono solo possibili, sono esattamente ciò per cui gli iraniani stanno combattendo. Per ottenerla è necessaria la massima pressione sulla Repubblica islamica e il massimo sostegno del popolo iraniano (…). Invito gli altri leader mondiali, invece di impegnarsi in inutili negoziati con il regime criminale, a coinvolgere direttamente la nazione iraniana”. 

Sul piano formale, Pahlavi - che si dichiara “Sostenitore di una democrazia secolare in Iran” - torna a sostenere la “massima pressione” contro Teheran, tanto cara al presidente eletto Donald Trump, che già se ne era fatto esecutore nel suo primo mandato. Resta tuttavia poco chiaro cosa Pahlavi intenda per “sostegno al popolo iraniano”: come pensa di poter concretamente aiutare dall’esterno gli iraniani impegnati in patria nella ricerca di un’alternativa alla Repubblica Islamica? Chiarissima invece la sua scelta di campo: a fianco di Israele - il primo paese visitato nei suoi tour di auto-accreditamento all’estero sull’onda del movimento ‘Donna Vita Libertà’ – nella linea dura contro Teheran . 

Da lunghi anni l’opposizione della diaspora si divide tra chi vorrebbe mettere in ginocchio la Repubblica Islamica con le sanzioni e chi invece, ritenendo che le prime vittime delle politiche di massima pressione e di un’eventuale guerra sia la popolazione iraniana, continua a credere nella diplomazia come unica strada praticabile. La novità sta però nel fatto che, con la caduta di Assad e l’offensiva israeliana contro Hamas e Hezbollah, le massicce distruzioni delle strutture militari siriane nei raid di Tel Aviv e il blocco delle vie di rifornimento agli stessi proxy su quel territorio, la Repubblica Islamica ha perso una pietra miliare di quella sorta di cordone sanitario - a difesa propria e del territorio nazionale - che per decenni è stata la rete di milizie filo-iraniane nella regione: una rete ideologicamente intesa come “Asse della resistenza contro Israele e gli USA a difesa della causa palestinese”, le cui reali intenzioni sono oggetto di intenso dibattito anche in questi giorni. 

Dopo la caduta di Assad, le pressioni per quella della Repubblica Islamica 

Quello che Pahlavi e Netanyahu non dicono agli iraniani lo spiega agli americani un servizio di Fox News. “Con la caduta del presidente e una nuova Casa Bianca all’orizzonte, i leader della resistenza iraniana e i legislatori statunitensi hanno iniziato a esprimere la speranza che l’Iran possa rovesciare la propria leadership in modo simile, con l’aiuto degli Stati Uniti”. 

“Un gruppo bipartisan di senatori - prosegue l’articolo - si è espresso a favore del rovesciamento dell'ayatollah iraniano Ali Khameini, sia attraverso un ritorno alla campagna di ‘massima pressione’ dell'ex presidente Trump tramite sanzioni, sia sostenendo il movimento di resistenza iraniano, un tassello che mancava durante la prima amministrazione Trump”. 

Fra gli interpellati Sam Brownback, già ambasciatore per la Libertà religiosa internazionale nella precedente amministrazione Trump: "C'è una reale possibilità di un cambio di regime in questo momento, è l'unico modo per fermare un'arma nucleare”, dice aggiungendo: “Dobbiamo sostenere politicamente l'opposizione all'interno dell'Iran. Fornire loro equipaggiamento, fornire loro informazioni... il regime non se ne andrà così. Bisogna costringerli ad andarsene". 

L’occasione per parlarne era un dibattito al Senato cui partecipava Maryam Rajavi, la presidente del Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana. Rajavi è l’erede dei Mojahhedin-e Khalq (Mek o Mko o Pmoi), un gruppo di ispirazione islamo-marxista che ebbe un ruolo importante nella rivoluzione del 1979, ma poi finì per combattere la leadership khomeinista e schierarsi con Saddam Hussein nella lunga guerra Iran-Iraq: scelta che molti iraniani non hanno mai perdonato al suo gruppo. Affrancati dalla lista delle organizzazioni terroristiche dell’Europa e degli Usa, rispettivamente nel 2009 e nel 2012, questi eredi dei Mojahedin del Popolo svolgono ora un’intensa attività di lobbying nei paesi occidentali. Tanto che Rajavi è stata invitata più volte a parlare anche nel Parlamento italiano: l’ultima in presenza nel luglio 2023, quando oltre 300 parlamentari di maggioranza e opposizione hanno sottoscritto il suo programma in dieci punti per un nuovo Iran. 

"Il popolo, profondamente scontento e adirato - ha detto Rajavi - insieme alle unità di resistenza che fanno parte dell'Esercito della Libertà e sono la principale forza del cambiamento in Iran, stanno preparando una rivolta organizzata". Ma la sua presenza non è affatto piaciuta ai sostenitori di Pahlavi, come rileva Tara Riva, attenta osservatrice delle dinamiche della diaspora  e che segnala fra altri il post in cui una politica irano-canadese, Goldie Kaamari, accusa Fox News di “promuovere culti islamo-marxisti anti-imperialisti” e dar voce a un gruppo che sarebbe disprezzato dagli iraniani “più del regime islamico terrorista in Iran”.

Un nuovo allarme per una sempre più possibile guerra contro l’Iran giunge invece dal National Iranian American Council (NIAC). “Alcuni sosterranno che l'Iran è una tigre di carta e che ora è il momento di sfruttare il vantaggio con un'azione militare diretta contro l'Iran”,  scrive il direttore Ryan Costello. Ma quest’azione, prosegue, “sarebbe un terribile errore che si ritorcerebbe invece contro Stati Uniti, Israele e altri attori, e garantirebbe che l'Iran militarizzi il suo programma nucleare, causando al contempo immense sofferenze ai civili. Invece, la nuova amministrazione statunitense dovrebbe proteggersi da ulteriori shock perseguendo una de-escalation con l'Iran sul dossier nucleare e sulla sicurezza regionale". 

Ma la guerra aperta contro Teheran, ci permettiamo di aggiungere, non è l’unico scenario possibile per il futuro. Come insegna la stessa vicenda siriana, che molti iraniani da anni temono possa ripetersi anche nel loro paese, vi sono altre forme di guerra spuria capaci di destabilizzare i regimi dall’interno: dai sabotaggi agli attentati (già frequentemente sperimentati in Iran e attribuiti a Israele), dalla mobilitazione e dal sostegno di milizie armate che attingono a diversi bacini di malcontento o pulsioni separatiste ai possibili interventi occulti in legittime manifestazioni di piazza, per farne strumento di altre agende politiche. 

Trump ancora ermetico sull’Iran, mentre i suoi pensano di attaccarne le strutture nucleari 

Da parte sua, il presidente eletto Donald Trump, che in passato si era mostrato più propenso a rinnovare la massima pressione per costringere Teheran a un accordo, non è stato troppo rassicurante nei suoi più recenti interventi. "Tutto può succedere. È una situazione molto volatile", ha risposto sulla possibilità di una guerra con l'Iran in un’intervista al Time, aggiungendo di non essere a conoscenza dell’iniziativa di Elon Musk, scelto per la sua squadra di governo, di incontrare nel novembre scorso l’ambasciatore iraniano all’ONu. Intanto, però, il Wall Street Journal sosteneva che il presidente eletto stava soppesando, tra le opzioni per impedire all'Iran di costruire un'arma nucleare, anche attacchi aerei preventivi. L’azione militare, secondo il quotidiano spesso allineato con i falchi anti-iraniani, “è ora sottoposta a una revisione più seria da parte di alcuni membri del suo team di transizione”, che stavano valutando le conseguenze della caduta di Assad in Siria. Del resto lo stesso Trump, in interviste e dichiarazioni precedenti, aveva escluso che Teheran potesse dotarsi di armi atomiche. 

Trump senza vergogna, insomma, se si pensa che proprio lui nel suo primo mandato, nel 2018, aveva unilateralmente ritirato gli USA da quell’accordo (il JCPOA) faticosamente raggiunto tre anni prima dall’amministrazione Obama, e che avrebbe garantito un forte ridimensionamento del programma nucleare di Teheran. E che proprio lui, spingendosi a uccidere il comandante dell’unità Al Qods dei Pasdaran Qassem Soleimani, il 3 gennaio 2020, aveva innescato quella spirale dell’arricchimento dell’uranio che ha portato la Repubblica Islamica ad avvicinarsi alla soglia della capacità di costruirsi un’arma atomica. 

La Repubblica Islamica al bivio

Il futuro del programma nucleare è una delle questioni principali al vaglio della dirigenza iraniana. Lo scambio di attacchi diretti degli ultimi mesi con Israele - che avrebbe arrecato considerevoli perdite alle strutture militari sul suo territorio - insieme al depotenziamento di Hamas e Hezbollah e ora alla caduta dell’alleato siriano – ha certo portato a riconsiderare l’opportunità di dotarsi davvero di ordigni atomici, quale strumento di deterrenza più efficace di quelli fin qui adottati. 

Il tema è stato apertamente discusso negli ultimi mesi a Teheran, con molti convinti che, se avesse avuto veramente un arsenale nucleare come il vicino Pakistan e lo stesso Israele, la Repubblica Islamica sarebbe stata al sicuro da ogni minaccia. Ma una decisione in tal senso presa ora, per i diversi mesi necessari alla sua attuazione, esporrebbe ancor più l’Iran a un attacco preventivo. Anche in questa luce si può dunque leggere la rinnovata disponibilità di Teheran a maggiori poteri ispettivi dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) – il presidente Masoud Pezeshkian si era guadagnato del resto l’elezione convincendo gli elettori incerti con la sua promessa di riaprire il dialogo con gli Usa proprio sul nucleare. Contestualmente, tuttavia, è stato annunciato il varo di nuove centrifughe avanzate e un aumento della produzione di uranio arricchito alla soglia critica del 60%. 

Insomma, anche in questi ultimi giorni Teheran ha continuato a fare del proprio nucleare una leva negoziale, secondo uno schema di gioco già noto, ma anche giustificato dagli ultimi segnali, tutt’altro che positivi, dall’Europa. Il 9 dicembre Londra, Parigi e Berlino hanno infatti condannato l’Iran per le sue ultime mosse, annunciando la possibilità di un ritorno delle sanzioni ONU tramite il ricorso al meccanismo dello ‘snapback’: un ripristino delle sanzioni ancora possibile fino all’ottobre 2025, in forza di quel JCPOA formalmente ancora in piedi, ma che nemmeno quelle tre capitali, e l’Europa tutta, rispettano nella sostanza.  

Tutto questo mentre la dirigenza iraniana, ben consapevole di quanto la caduta di Assad la lasci con i fianchi pericolosamente scoperti, anima un vivace dibattito sulle ragioni di quanto avvenuto e su come gestirne le conseguenze. In questi decenni la stessa Repubblica Islamica ha mostrato di avere capacità strategica e di adattamento di fronte alle nuove sfide, seppur al prezzo di difficili mediazioni tra le varie forze politiche e militari che intervengono nel processo decisionale. 

Dopo averci pensato qualche giorno, il leader Ali Khamenei ha dichiarato in un discorso ufficiale che i primi “architetti, cospiratori e stanza di comando si trovavano negli USA e nel regime sionista”, non mancando tuttavia di citare il ruolo  di un “paese vicino”, riferito alla Turchia. Ma ha anche assicurato che l’Asse della Resistenza non ne era uscito indebolito, perché la resistenza non era una “struttura” ma “una fede profonda”, e l’impegno per la questione palestinese era ancora più grande nella regione. 

Khamenei ha nel contempo accusato Assad e la debole reazione del suo esercito per l’avanzata dei miliziani di HTS in Siria. Accuse all’ex presidente sono giunte da più parti dell'establishment, anche in considerazione del fatto che vi erano da tempo i segni che la sua lealtà con Teheran stava venendo meno. Contestualmente, e nonostante l’ambasciata iraniana a Damasco sia stata saccheggiata durante la presa della capitale, vi sono evidenti segnali che la dirigenza sta considerando di stabilire una qualche forma di rapporto con i nuovi governanti della Siria, sul modello di quelli già avviata con gli scomodi vicini talebani in Afghanistan. 

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Il tema del consenso interno e lo stop alla nuova legge sul velo

Ma la fine della dinastia degli Assad - dopo 14 anni di una guerra civile seguita alle proteste di piazza di chi allora chiedeva più libertà e democrazia - porta con sé un altro avvertimento per la Repubblica Islamica: la necessità di non alienarsi troppo il consenso interno. Un tema particolarmente urgente in Iran, alla luce di una perdurante crisi economica che logora il potere d’acquisto anche delle classi medie, della prospettiva di un lungo inverno con forniture di gas ed elettricità insufficienti e una profonda insofferenza e ribellione, nella società e in particolare tra i giovani e le donne, per la pesante repressione del dissenso e per non più accettabili restrizioni delle libertà personali. 

È per questo che la decisione di sospendere l’applicazione delle nuove misure per imporre l’obbligo del velo che, dopo un lungo iter legislativo, dovevano entrare in vigore il 13 dicembre, assume un particolare rilievo. A deciderlo è stato addirittura, su richiesta del governo Pezeshkian, il Consiglio Supremo per la sicurezza nazionale: l’organo dove si compiono collegialmente le scelte più cruciali per il paese e le cui deliberazioni hanno sempre l’implicito consenso della Guida, che ne nomina il segretario generale. Uno stop sicuramente significativo per la legge “A sostegno della famiglia tramite la cultura della castità e dell’Hijab”, che continuava a suscitare un diffuso dissenso (critico anche il presidente riformista) e rispondeva con pesanti sanzioni al costume ormai diffuso tra le donne di non portare affatto il velo nei luoghi pubblici. Contestualmente è stata scarcerata Parastoo Ahmadi, la coraggiosa cantante che, con le spalle e i capelli scoperti e un ciondolo con la forma dell’Iran al collo, aveva cantato in un concerto senza spettatori ma diffuso in modo virale su youtube. Una vera propria sfida, sostenuta dai quattro musicisti uomini che aveva accanto, in cui Parastoo Ahmadi ha potentemente incarnato il messaggio di resistenza del movimento ‘Donna Vita Libertà’. Uno slogan di cui, come si è detto all’inizio di questo articolo, molti si sono appropriati fuori dall’Iran. Ma che si potrebbe anche leggere come un auspicio e come monito per tutti i guerrafondai: la società civile iraniana può anche farcela da sola e senza interessate interferenze altrui.

Immagine in anteprima: frame video Voice of America via YouTube

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