Atreju, la sagra dei rancorosi
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Le manifestazioni come Atreju sono soprattutto dei grandi riti collettivi. Circoscrivono comunità, vicinanze di intenti e di interessi, rafforzano alleanze, scaldano il cuore mentre provano a ispirare grandezza, visione. Sono incantesimi di cui come esseri umani abbiamo bisogno, perché per realizzare il mondo di domani bisogna prima saperlo sognare. Che poi i sogni di una persona possano essere l’incubo di altre centomila è un’altra faccenda.
Non ha molto senso concentrarsi sui discorsi ascoltati ad Atreju cercando i fatti, la logica, i dati e i numeri da verificare. Non avremmo mai una Giorgia Meloni che sale sul palco a dire “patrioti, la finanziaria sarà un bagno di sangue, non sappiamo dove sbattere la testa, avete suggerimenti?”. Ovviamente ciò vale per tutti gli schieramenti politici; convention di questo tipo sono perciò utili per capire dove una data area politica vuole andare a parare.
Se crediamo a questo enorme artificio, il discorso di Giorgia Meloni ci suonerà come una chiamata alla carica. Una donna al potere che orgogliosa ringrazia il suo pubblico perché ha messo in piedi una manifestazione del genere, che ormai vive di vita propria e non ha più bisogno di quel nucleo creatore di cui ha fatto parte proprio Meloni. Una leader che aggiorna Kennedy al nazionalismo di destra per dire “se siete davvero dei patrioti non chiedetevi mai cosa io o il partito possiamo fare per voi. Voi chiedetevi sempre cosa voi, io e il partito dobbiamo fare per gli italiani”.
Mentre se ci poniamo con disincanto - rischiando di essere additati come “nemici della nazione” - vedremo prima di tutto il risentimento, i conti da pareggiare all’infinito. Vi arriverà infatti come principale dato una domanda: ma quanto strilla Meloni? Seriamente, ascoltate il discorso da una cuffia, e contate le volte e i passaggi esatti in cui dovrete abbassare il volume. Coincidono con le manifestazioni di rivalsa contro gli avversari politici: i sindacati, i giornalisti, i magistrati che certificano a colpi di sentenze le violazioni dei diritti umani, il “gay pride”. A un certo punto sbotterete ad alta voce: ma se stai facendo tutto bene, che hai da strillare?
Attorno a lei è stato tutto un dibattersi rabbioso e vittimista, proprio dei rancorosi, che è ormai un segno dei tempi di questa stagione politica. Cioè di chi non è in pace con sé stesso, e che nel vittimismo trova un abito sociale per quell’assenza di pace tutta interiore. Il rancoroso eleva sdegno e disprezzo a sentimento di giustizia, ne fa una colonna identitaria, persino una virtù. Quindi, prima di tutto, è un frustrato. Se siete mai stati il bersaglio di una persona così, avrete anche notato i meccanismi e le sottigliezze con cui cerca di restare avvinghiata a voi, proprio perché altrimenti resterebbe sola con una irrisolta, divorante inquietudine. Il rancoroso vi tormenta mentre vi chiede come mai ne siete così ossessionati. Il trucco è che voi sapete fare a meno di tutto ciò.
Infatti nel privato uno tende a schivare il più possibile gente così, o a liberarsene quanto prima. Tuttavia quando te li ritrovi che plasmano intere società e costruiscono egemonie diventa difficile sottrarsi. Così ad Atreju abbiamo avuto negli anni protagonisti che campano di risentimento, vuoi contro il “virus woke”, vuoi contro “i comunisti”, vuoi contro chi “rema contro l’interesse nazionale”. Il principale effetto di questo modello di leadership è che si dà la stura a cose che, in altri tempi, sarebbero rimaste confinate dal senso di vergogna, o dalla temperanza. Sottosegretari rinviati a giudizio che parlano di “prendere per la pelle del culo chi occupa le case degli anziani”. Giornalisti da monopolio televisivo che ci raccontano di come abbiano dato spazi a Meloni quando gli altri non se la “inculavano"; una il cui primo incarico di governo risale al 2008. Saranno gli effetti collaterali della rivolta contro il “politicamente corretto”, chissà.
Del resto la scena dei rancorosi di successo può contare su una platea internazionale, e che gli vuoi dire? Ad Atreju nel 2023 abbiamo avuto Elon Musk, uno che è diventato il principale attivista di estrema destra al mondo perché, fondamentalmente, è schifato da buona parte della sua famiglia. Abbiamo avuto quest’anno Javier Milei, uno che non è capace di elaborare il lutto per la morte del cane, però promette lacrime e sangue per salvare un paese, tra gli applausi delle cheerleader neoliberiste.
Per cui Meloni è perfettamente a suo agio in questa platea che dal nazionale guarda al globale. Una che, pur essendo al potere con una larghissima maggioranza parlamentare, non la smette di urlare per le ingiustizie e le cattiverie subite. Insomma, se la commedia è tragedia più tempo, la politica è diventata tragedia più capri espiatori. E quindi una totale vocazione all’irresponsabilità, che si traduce nell’atteggiamento vittimista. Verrebbe da dire: hai vinto? Bene, brava, tanto di cappello, ora però governa senza troppe scuse e teatrini, grazie.
Invece, a margine dell’incantesimo collettivo, ci troviamo con la seconda carica dello Stato che ringhia contro i giornalisti, pratica che in lui si alterna solitamente agli sfottò. Mentre Meloni ad Atreju stessa ha tuonato contro la “gogna costruita sull'errore del singolo spiando la gente dal buco della serratura”. Il riferimento è all’inchiesta Gioventù meloniana di Fanpage: evidentemente quando lo scorso giugno Fratelli d’Italia annunciava “provvedimenti” contro i responsabili di comportamenti un po’ troppo nostalgici facevamo bene a essere scettici sulla trasparenza interna del partito.
Gli effetti di questo vittimismo rancoroso, che addita bersagli mentre si sottrae alle proprie responsabilità, sono evidenti in un passaggio del discorso di Meloni sullo sciagurato protocollo Italia-Albania, un obbrobrio giuridico destinato ad affondare ben prima dell’inaugurazione. Dice Meloni:
Io mi chiedo se quei giudici che si sono tanto adoperati per non convalidare i trattenimenti dei migranti che dovevano andare in Albania con sentenze, che l'ho detto e lo ripeto, a mio avviso sono totalmente irragionevoli, si siano interrogati davvero sulle conseguenze delle loro decisioni. Perché io sono certa che la priorità della stragrande maggioranza dei magistrati, nel solco dell'esempio di uomini come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, sia combattere ogni mafia compresa la mafia del mare, ma è evidente che quando noi non riusciamo a essere efficaci gli unici ad averne vantaggio sono proprio le organizzazioni criminali. Bisogna farci i conti, e quindi abbiate fiducia, i centri in Albania funzioneranno, funzioneranno. Dovessi passarci ogni notte da qui alla fine del Governo italiano funzioneranno perché io voglio combattere la mafia e chiedo a tutto Stato italiano e alle persone per bene di aiutarmi a combattere la mafia.
Questa idea che le pronunce dei magistrati contrarie ai desideri del governo siano attacchi nemici l’abbiamo già viste all’opera da ben prima del protocollo. Pensiamo al linciaggio mediatico condotto dai giornali di destra e da questa stessa maggioranza contro la giudice Iolanda Apostolico, pressioni che alla fine hanno condotto alle sue dimissioni. O, proprio sul protocollo Italia-Albania, pensiamo alle minacce di morte arrivate a Silvia Albano, giudice del tribunale di Roma. Quando ti senti in difetto nei confronti della vita, cose del genere non ti riguardano: hai troppi torti da raddrizzare. Ma poi via, vogliamo essere così ignobili da pensare che al governo ci sia gente cui non frega nulla dell’incolumità dei magistrati? Ce l’hanno con altri magistrati, e comunque la violenza è sempre sbagliata; a proposito di violenza, e i centri sociali? Eccetera e così via.
Come se non bastasse, quelli che ce le hanno sfrantumate negli ultimi anni con la “dittatura del politicamente corretto” (un saluto ai geni che si sono prestati da sinistra) e con le “cancellazioni” hanno la querela facile. Così facile che viene il dubbio: magari in ufficio hanno una specie di pulsante rosso che, una volta schiacciato, allerta gli avvocati a distanza non appena leggono o ascoltano qualcosa che fa girare loro coccige. Ultimi a farne le spese sono stati gli scrittori Nicola Lagioia e Giulio Cavalli, querelati dal ministro Giuseppe Valditara per averne criticato l’operato e le uscite pubbliche. Un ministro dell’Istruzione così permaloso da non poter gestire le critiche di scrittori e intellettuali forse ha sbagliato mestiere; ma difficilmente assisteremo a un dibattito così impostato.
Questo è il video a causa del quale il ministro Valditara vuole trascinarmi in tribunale, chiedendo 20.000 euro di danno. Giudicate voi se volete vivere in un paese in cui non si può criticare un potente in questo modo. pic.twitter.com/HAAIPdCbof
— Nicola Lagioia (@NicolaLagioia) December 17, 2024
Vi ricordate gli infiniti dibattiti sugli “snowflake”, le “anime belle della sinistra”, e i trigger warning delle giovani generazioni troppo delicate? Vi ricordate quando Roberto Saviano era andato a processo per le frasi contro Salvini e Meloni, e c’era chi pensava - ma serio, eh - che il problema fosse l’aver esagerato? Non sta bene dire “ve l’avevo detto”, ma: ve l’avevo detto. Non solo: ve l’avevo anche ripetuto, persino anticipato, ma capisco che è più difficile pubblicare libri e far convegni se ci si espone troppo.
Proprio come capita con i rancorosi, mettersi di mezzo e tenere testa richiede dispendio di energie, gambe salde e schiena dritta. Oltretutto se il rancoroso ha una posizione di potere c’è da mettere in conto il rischio di soprusi e angherie. E qui abbiamo intere classi dirigenti. Ecco perché a margine di tanto strepere nero fioriscono i dibattiti surreali, che devono riempire di chiacchericcio le teste affinché non pensino troppo agli atti illiberali. Oppure devono alzare cagnara buona per democrazie surrogate, fatte di lotte simboliche senza attrito, e quindi conservatrici all’origine.
Abbiamo intere linee editoriali “liberali” costruite sul principio che se metti i pronomi nella biografia dei tuoi profili social, oppure usi lo schwa, metti a repentaglio la democrazia, la civiltà occidentale. Eppure se l’elezione di Trump e la violentissima campagna elettorale che hanno condotto i repubblicani avrebbero dovuto insegnarci qualcosa, è che il problema sta più dalle parti di heil/Hitler che di they/them.
(Immagine anteprima: frame via YouTube)