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La violenza sessuale e il paradosso del consenso

17 Dicembre 2024 6 min lettura

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La violenza sessuale e il paradosso del consenso

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Vi propongo uno scenario di fantasia. Non lo è, perché è basato in tutto e per tutto su fatti reali: ma trattiamolo come se lo fosse.

C’è una giovane donna (la chiameremo F.) che ha denunciato due colleghi per abusi sessuali. Sono una coppia, un uomo e una donna (T. e D.). La giovane racconta di essere andata alla festa di compleanno di D., dove aveva bevuto un po’, ma non tanto da perdere il controllo. Da un certo punto in poi, riferisce di non ricordare quasi nulla di quello che le è successo e di essersi ritrovata su un taxi con la coppia addosso, costretta a un contatto sessuale non cercato e non voluto. I due confermano i palpeggiamenti a bordo del taxi, ma negano che si sia trattato di violenza, perché a detta loro, la giovane donna era consenziente. Il giorno dopo, F. si sottopone a un esame delle urine, che risulta positivo al GHB. Da lì, decide di denunciare.

Essendo T. e D. due personalità di un certo profilo, il caso finisce sui giornali (perché e come, sarebbe da verificare). La maggioranza delle testate sceglie di dare alle accuse uno spazio relativo, che non buca in maniera significativa la bolla della discussione collettiva, o comunque non occupa il dibattito pubblico nella stessa misura di altri casi o processi per violenza sessuale a carico di persone conosciute al pubblico o di loro parenti stretti. Quello che viene raccontato è in gran parte sbilanciato sulla versione di T. e D., sulla loro amarezza di fronte a una denuncia del tutto inattesa. La maggior parte delle ricostruzioni risulta carente di dettagli, o li distorce, considera solo una parte del racconto, quello più funzionale alla storia che vuole raccontare. È facile: non si tratta di un caso lineare. Mancano pezzi, ci sono dei buchi, soprattutto nella memoria di F. I testimoni sono pochi, quasi nessuno posizionato in un terreno neutrale.

Se questo fosse un film, sarebbe giocato su più piani narrativi, in cui ogni personaggio è un narratore inaffidabile e ognuno costruisce la propria verità. Ma le persone non esistono in un vuoto assoluto in cui tutte le voci si equivalgono e la parola di una giovane donna semisconosciuta non ha lo stesso peso sociale di quella di una coppia visibile e nota, con molti amici disposti a credere alla loro versione. I giornali che si occupano del caso hanno ben presente il differenziale di potere, e si dividono grossomodo in due campi: da un lato, quelli che danno per scontata la versione di T. e D., di un gioco erotico che si è concluso con una denuncia del tutto inaspettata e che li ha lasciati amareggiati. T. e D. hanno modo di parlarne più volte, con più giornalisti, che danno molto spazio alla loro visione dei fatti e si prestano a dipingere F. come un’opportunista, una che vuole fare carriera ed è disposta a tutto pur di riuscirci. Una che li vuole distruggere. Ma loro sono pronti a rivalersi contro di lei nelle sedi giudiziarie, aspettano solo – presumibilmente – che le indagini si concludano a loro favore.  Dall’altro, le testate che si collocano dalla parte politica opposta a quella di T. e D., e che non vedevano l’ora di dare addosso a una personalità importante, che rappresenterebbe le qualità morali migliori dell’avversario. Queste sono le uniche – ed è qui il paradosso – a riportare il caso con una certa completezza, senza omettere dettagli importanti: la verità giudiziaria si presta meglio alla strumentalizzazione politica. 

Ma il nostro è uno scenario di fantasia, quindi restiamo sulla narrazione principale. F. rilascia dichiarazioni alla polizia giudiziaria, ma non viene sentita dai magistrati, che non dispongono quindi nemmeno l’esame del capello per rilevare eventuali tracce di GHB nel sistema: la sostanza, infatti, è rilevabile nelle urine entro 12 ore, ma quando gli inquirenti dispongono il secondo esame, quello ufficiale, ne sono già passate 18 (e ovviamente dà esito negativo). Sembra chiaro che tutto si gioca sulla definizione di “consenso”: c’è stato? Non c’è stato? È stato dato liberamente, e se sì, quando, e per quanto tempo? Quello che il tassista ha intravisto nello specchietto retrovisore è stato un gioco a tre, ardito ma legittimo, o una sopraffazione su una donna che non era, da un pezzo, presente a sé stessa?

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Ed è qui che le cose si fanno interessanti, e ancora più complicate. Perché nelle motivazioni della richiesta di archiviazione c’è scritto chiaro e tondo non solo che T. e D. avrebbero palpeggiato F. quando si trovava in uno stato di alterazione, ma anche che quello stato di alterazione non le permetteva di “determinarsi, governare le sue azioni e comprenderne la portata”. L’esatto contrario di quello che intendiamo quando parliamo di consenso liberamente espresso in ogni momento del contatto sessuale: il consenso dato sotto l’effetto di sostanze è già di difficile determinazione, ma perde del tutto di validità se non può essere ritirato. In questo senso, fa fede una sentenza della Cassazione che stabilisce esattamente questo principio in maniera non equivocabile.

Nel nostro scenario di fantasia, quindi, c’è una donna così ubriaca o strafatta da non poter dire più dire “no”, ma comunque in grado di determinare (in maniera erronea, secondo i magistrati) che quello che avrebbe subito sarebbe una violenza. Una contraddizione in termini: sei in uno stato di alterazione tale da non poterti sottrarre (perché se non puoi ritirare il consenso, non sei più libera, quindi il tuo consenso non è più valido), ma se dici che quella che hai subito è una violenza, ti stai sbagliando. Il consenso l’hai dato, solo che non te lo ricordi, e in ogni caso le persone che accusi di violenza potrebbero non avere capito che non era più valido (o che non l’avevi dato affatto). Colpa tua: potevi non bere, o drogarti, o tutte queste cose insieme.

Ma se non mi ricordo di averlo dato perché ero ubriaca o drogata, l’ho dato davvero, il consenso? Se non sono presente a me stessa, come faccio ad acconsentire a un rapporto sessuale? In che punto il mio consenso decade, e quello che mi viene fatto è qualcosa che subisco, non qualcosa che ho chiesto? Quanta gente colpevole di abusi sessuali, pur in assenza di violenza o costrizione fisica, può giocarsela sull’equivoco, sul concetto di “non avevo capito che non ci stava più”, solo perché la vittima della violenza non era presente a sé stessa? L’impossibilità di difendersi, come dicevamo in precedenza, non dovrebbe essere usata a discolpa degli accusati.

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È uno scenario di fantasia, ma è basato su fatti reali, come se ne incontrano tanti negli annali della giustizia: e spesso nelle motivazioni si legge quanto sopra, la vittimizzazione secondaria, l’attribuzione indiretta di responsabilità alla querelante, e soprattutto una definizione di consenso fortemente sbilanciata sulla versione dei querelati. Questa storia ci riguarda tutte e tutti, perché ci racconta nel dettaglio i motivi per cui denunciare una violenza è così complesso. Un caso così delicato, così difficile da provare anche con le migliori intenzioni della magistratura, viene dato in pasto a una stampa che non ha rispetto per le parti coinvolte, e soprattutto non per la persona che ha sporto denuncia, e che in quanto tale si trova in una posizione di vulnerabilità estrema. Chiedere giustizia per una violenza sessuale non ha mai portato favori a chi ha deciso di farlo, mai. Non ci sono vantaggi, in un processo per abusi sessuali. Quando Gisèle Pélicot ha detto “La vergogna deve cambiare lato” si riferiva proprio a questo: chi denuncia una violenza subita corre un rischio enorme, il rischio di essere screditata in pubblico, trattata come una pazza, una bugiarda, e oltre: come una povera cosa danneggiata, che può solo andare a morire di vergogna in un angolo.

Perché è importante il principio “Sorella io ti credo”

 

È a questo che torniamo, quando diciamo “Sorella, io ti credo”: non un posizionamento acritico a favore della vittima, o una richiesta di prendere la sua parola come se fosse il Verbo. Chiunque può mentire. Chiunque può sbagliare. Ma il rispetto e la considerazione per tutte le parti coinvolte dovrebbero essere la base di ogni discorso pubblico sulla violenza sessuale, come dovrebbe esserlo un discorso sul consenso che non sia più basato sul silenzio-assenso, sulla possibilità di equivoco o sull’idea che un “sì” sia per sempre.

Il 1522 è il numero gratuito da tutti i telefoni, attivo 24 ore su 24, che accoglie con operatrici specializzate le richieste di aiuto e sostegno delle vittime di violenza e stalking. Per avere aiuto o anche solo un consiglio chiama il 1522 oppure apri la chat da qui.

 

Aggiornamenti

Aggiornamento 17 dicembre 2024: Abbiamo modificato il testo dove si parla di scenario di fantasia.

Immagine in anteprima: frame video via freepik

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