Le mie lacrime di gioia per la caduta del regime sanguinario di Assad: “Abbiamo paura di domani, ma lasciateci gioire per un giorno”
|
“Saqat, Bashar Saqt”, “è caduto, Bashar è caduto”: è il messaggio che nella notte tra il 7 e l’8 dicembre 2024 è circolato di più nelle chat degli attivisti siriani in Siria e nella diaspora, tra l’incredulità e la gioia. È caduto, dopo quasi mezzo secolo dall’ascesa al potere della dinastia al Assad in Siria, oggi si è scritta la Storia, la fine di un regime liberticida e sanguinario. Domani, o forse più tardi, proverò a scrivere un articolo ricostruendo i fatti e facendo analisi geo-politiche, pensando al dopo, ma adesso è il momento di fermare tutto e ripetere, a me stessa in primis: “È accaduto. È accaduto davvero. La Siria è libera dal regime di Bashar al Assad”.
Non capita spesso di scrivere un articolo in prima persona, e ringrazio Arianna Ciccone per avermelo proposto. Oggi la giornalista italo-siriana può intingere la penna nei suoi sentimenti e raccontare cosa significa, per i siriani, questa giornata. È la prima volta in vita mia che scrivo un articolo tra lacrime che sono lacrime di gioia. Ho scritto spesso, negli ultimi quattordici anni, tra le lacrime di dolore, per la morte di un/una collega, amica/o, parente, per una strage di innocenti, dopo le interviste alle vittime di tortura e stupri, dopo aver visitato ospedali pieni di bambini e civili mutilati, orfanotrofi di guerra e genitori resi orfani dei loro figli dalle bombe. Ho scritto tra le lacrime di fronte all’impotenza, al cosiddetto senso di colpa dei sopravvissuti, al dolore per la scomparsa nel nulla di persone stimate e amate, come padre Paolo Dall’Oglio.
Ho fatto tante volte pressione su me stessa perché la professionalità prevalesse sul coinvolgimento. Ricordo ancora una chiacchierata con il compianto collega Amedeo Ricucci, che una volta mi ammonì dicendo che avrei dovuto scegliere se fare l’attivista o la giornalista. All’inizio non avevo capito, ci rimasi male, ripetendo che io ero anche siriana. Poi ho riflettuto e ho scelto la seconda strada, senza mai rinunciare al sogno di libertà. Ho servito la causa del mio popolo con la mia penna e la mia voce, pagando un prezzo alto. Mi riferisco al lacerante e incredulo dolore, per ogni attivista pacifico e collega ucciso dalle violenze e apostrofato come criminale dal regime e dai suoi sostenitori. Giovani con cui avevo parlato ore prima strappati alla vita dalle bombe, dagli spari ai posti di blocco, dalle torture. Il primo fu Ahmad, di Homs, diciassettenne, arrestato e torturato dopo essere stato fermato a un posto di blocco. Sul telefonino aveva immagini dei bombardamenti sulla città e video sulle sofferenze dei civili sotto assedio, che Ahmad aveva inviato a noi giornalisti siriani in Occidente. Il giorno in cui sono stati uccisi dai bombardamenti Tareq e Anas nevicava su Ancona. Uscii in terrazzo senza coprirmi, piangendo fino al singhiozzo. Ho sognato i loro corpi smembrati per anni. Uno cantava, l'altro fotografava. Avevano poco più di vent’anni. Pochi giorni dopo scese la neve anche ad Aleppo. Gli amici scrissero che erano felici perché con la neve gli aerei militari non sarebbero decollati. Non avevano cibo, né riscaldamento perché la città era assediata, ma scesero nelle strade a far giocare i figli, a fare pupazzi di neve. Mi mandarono foto, foto dove sorridevano.
Quello delle foto è un capitolo a parte. Per anni sono stata male ogni volta che ho aperto la fotogallery sul mio telefono. Nella cartella comune le immagini dei miei bimbi si mischiavano insieme a quelle di civili intrappolati sotto le macerie, di persone senza più un’identità, coperte da sudari, di bambini martiri avvolti nelle loro stesse coperte bagnate di sangue. Avevo sensi di colpa ad abbracciare i miei bimbi, stavo male a ogni notifica. Decisi con Abdulkafi, un professore di Aleppo sfollato nella periferia della città, che avremmo iniziato a scrivere un libro a quattro mani. Ci siamo dati appuntamento online. Poche ore prima in un bombardamento vicino a casa sua due sorelline sono rimaste schiacciate sotto le macerie della loro stessa casa, colpita da un bombardamento russo. Una delle due è sopravvissuta per un po’, ripetendo più volte il nome della sorella. Poi è spirata. Abdulkafi mi scrisse che quel giorno voleva solo abbracciare le figlie e piangere, che non se la sentiva di iniziare il lavoro. Non abbiamo mai ripreso quel progetto. Oggi mi ha mandato le sue foto di fronte alla cittadella di Aleppo, sorridente, incredulo.
Forse la parola del momento è proprio incredulità. Arrivano le immagini delle detenute e dei detenuti politici liberati dalle terribili prigioni governative e dai rami dei mukhabarat, i famigerati servizi segreti. La liberazione del carcere di Seydnaya, su cui anche Amnesty ha scritto un report, equivale alla liberazione della Bastiglia. Alcune persone erano lì, per il loro attivismo politico, anche da oltre trent’anni. Alcuni sono ridotti pelle e ossa, le donne sono terrorizzate, i bambini confusi. A noi siriani sembra un film. Sta accadendo davvero. Libere e liberi, tutte libere e tutti liberi.
Sto passando da un argomento all’altro forse con poca connessione, ma il momento che stiamo vivendo come popolo ha un impatto immenso su ognuno di noi. Vedo i soliti tuttologi salire in cattedra e buttarla tutta in analisi complottiste, parlando dei siriani e non con i siriani, neanche in questa circostanza. Non hanno mai sentito la nostra voce, né chiesto la nostra opinione. Oggi non ho voglia di rispondere, però do loro una notizia: dico solo che nessuno di noi si illude che da domani la Siria diventerà una democrazia laica ed egualitaria. È urgente che la rivolta armata lasci subito spazio all’iniziativa della società civile. Nessuno vuole miliziani al governo, nessuno crede nella liberazione in un battito di ciglia. Ma oggi si fa la Storia, oggi i siriani celebrano la fine dell’epoca di Assad. Oggi i siriani piangono lacrime di gioia e gridano nelle piazze, in Patria e all’estero, “horrya, karama”, “dignità, libertà”, le due parole che hanno scandito la rivoluzione del 2011. Lasciateci gioire per un giorno, stasera piangeremo di nuovo per i nuovi civili uccisi dalle nuove bombe…
L’ultima volta che sono entrata in Siria avevo il sentore che sarebbero passati anni prima di poter tornare nella terra delle origini. Non sapevo se sarei mai ritornata. Sono figlia della città di Aleppo da parte di padre e di madre e sono nata lontano, in Ancona, una città levantina che è la mia casa e il mio mondo. Sono figlia della diaspora. Aspettavo l’auto che mi avrebbe accompagnato alla frontiera e avevo il cuore in un groviglio di emozioni, tra dolore e angoscia. Io, col passaporto italiano, facevo ritorno nella Patria adottiva, mentre i bambini, le donne, i giovani e gli anziani che avevo incontrato, intervistato e poi abbracciato, con i quali avevo passato ore sotto i bombardamenti, rimanevano lì. Molti sono stati uccisi da altre bombe, una bimba di cui conservo la foto mentre era tra le mie braccia, senza il coraggio di riguardarla, è morta di asma in un campo per sfollati interni, senza cure. Qualcuno si è tolto la vita, esasperato. È accaduto soprattutto a donne vittime di stupri di guerra. In questi anni, per fortuna, alcuni tra i giovani che ho conosciuto in Siria si sono innamorati, sposati, hanno avuto figli e oggi festeggiano.
C’è una generazione cresciuta negli ultimi quattordici anni che non ha mai conosciuto la pace e la libertà, un’altra generazione che si riprende la vita. Dicevo che l’ultima volta che sono entrata in Siria avevo un nodo alla gola per quello che mi lasciavo alle spalle e il richiamo delle origini mi ha provocato un dolore che era anche fisico. Volevo portarmi via qualcosa di siriano, ma ero in un punto isolato da tutto e non avevo più una lira. Mi sono toccata le tasche, ho trovato un sacchetto di plastica con dentro del pane secco donatomi da una donna sfollata perché non avessi fame durante il viaggio. Quel pane per me valeva oro, era l’unica cosa che aveva. L’ho messo in un fazzoletto, poi ho preso il sacchetto di plastica e l’ho riempito di terra, della rossa terra siriana. Ho portato quella terra in Italia, come una reliquia. Poi, insieme al dolore collettivo per la guerra, è arrivato il dolore privato per la morte improvvisa di mia sorella Noura, l’unica tra noi figli nata ad Aleppo. Dalla Siria mi sono arrivati messaggi di condoglianze e consolazione. Il giorno del suo funerale ad Ancona ho preso quel sacchetto di terra e l’ho portato con me al cimitero. Ne ho versato gran parte sulla bara, pensando che sarebbe stato bello per Noura farsi avvolgere anche dalla terra della madre Patria.
Così abbiamo vissuto in questi anni, con la nostalgia e la lontananza che abitavano le nostre vite, increduli per il sostegno cieco e incondizionato che persone nate e vissute in democrazia continuavano a dare ad Assad, mentre lui sterminava i fiori più belli del suo popolo. Queste persone hanno parlato la lingua del regime, apostrofando tutti gli oppositori come criminali, per non dire un’altra parola… È successo anche a me, ho ricevuto da loro insulti, subìto diffamazione e minacce di morte, mi sono fatta male, ma non mi sono mai piegata. Oggi voglio continuare a inviare e ricevere messaggi con la scritta “mabruk al horrie”, auguri per la libertà. Seguo i profili di amici che aspettano notizie dei familiari detenuti politici che vengono liberati o che aspettano timorosi. Piango insieme alle colleghe e colleghi, alle amiche e amici che stanno riempiendo le strada della Siria in festa. Guardo il ritorno nelle città di origine di decine di persone allontanate con la forza. Le notizie dei bombardamenti stanno già riempiendo ogni spazio, ma oggi la Siria rinasce. Abbiamo paura di domani, delle armi, dei tradimenti, degli inganni, degli estremismi, ma oggi la paura non è il sentimento dominante.
È finita un’era. Viva la Siria dei siriani, viva la Siria libera.
Immagine in anteprima: frame video CBC News via YouTube