L’Australia e il divieto dei social ai minori di 16 anni
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L'aspetto interessante dei tentativi legislativi diretti a vietare il libero accesso allo spazio online, oltre alle confuse premesse, è l'attrazione trasversale che provocano nei diversi partiti politici, dai conservatori ai progressisti. In particolare, nei paesi democratici, le proposte di vietare a ragazze e ragazzi fino a una certa età l’accesso libero allo spazio online raccolgono impensabili adesioni tra opposti schieramenti. Si pensi alla sintonia delle iniziative di qualche mese fa tra la senatrice di Fratelli d’Italia, Lavinia Mennuni, e la deputata del Partito Democratico, Marianna Madia, per la tutela dei bambini e degli adolescenti nell'utilizzo degli strumenti digitali.
Un ulteriore esempio è stata la drammatica audizione al Senato statunitense degli amministratori delegati delle aziende tecnologiche a gennaio 2024, i cui promotori hanno sottolineato la pacificazione tra democratici e repubblicani su questo tema.
Lo stesso meccanismo attraverso il quale si arriva a questi tentativi di restrizione per legge rivela la teatralità delle parti e la spinta verso un rapido risultato in assenza di una discussione approfondita sulla tematica, sulle possibili soluzioni alternative e sulle prevedibili conseguenze. In un'onda mediatica costruita attorno al panico morale sembra sufficiente mostrare al proprio elettorato che ci si occupa 'dei nostri bambini e delle nostre bambine' con proposte di azioni drastiche quanto inadeguate contro i pericoli tecnologici per assicurarsi ampia copertura mediatica, per facilitare il consenso in certi strati di popolazione e per rinsaldare la fiducia in una rassicurante autorità.
L’Australia è in ordine di tempo l’ultimo paese democratico ad aver approvato una rigida legge nazionale che vieta il libero accesso ai social media fino ai 16 anni di età. Negli Stati Uniti, la Florida ha approvato una proposta simile anche per indeterminatezza che entrerà in vigore il prossimo anno e altri stati ne stanno seguendo il percorso. La Francia ha approvato a luglio del 2023 una legge che vieta i social media a chi ha meno di 15 anni e il presidente Macron si è intestato una battaglia da estendere all’Europa, appellandosi alle emozioni delle famiglie: “Qualcuno manda il proprio figlio nella giungla a 5, 10 o 12 anni?”.
“Questa è una riforma fondamentale. Sappiamo che alcuni ragazzi troveranno delle soluzioni alternative, ma stiamo inviando un messaggio alle aziende di social media affinché si diano una regolata”, ha commentato il laburista australiano Anthony Albanese. In uno degli ultimi atti del suo governo di centrosinistra, il primo ministro Albanese ha potuto festeggiare l’approvazione dell’Online Safety Amendment (Social Media Minimum Age) Bill 2024 votato congiuntamente da maggioranza e opposizione.
Presentato alla Camera il 27 novembre e approvato con 101 voti a favore e 13 contrari, il disegno di legge è poi passato al Senato dove il 29 novembre è stato approvato con 34 voti a favore e 19 contrari. Tale approvazione lascia del tutto incerte le modalità di applicazione che entreranno in vigore tra un anno.
La discussione del disegno di legge era iniziata a settembre e si è svolta rapidamente. Il documento di analisi redatto a ottobre riassume il processo attraverso il quale è stata modellata la proposta e in sostanza riproduce il livello della discussione pubblica sui social media basata su luoghi comuni e misinterpretazioni. Pur trattandosi di un documento governativo sembra orientato più ad aggregare voci per giustificare il disegno di legge che a riportare fonti diversificate per motivare scelte così drastiche.
Per quanto riguarda la scelta dell’età, che è del tutto arbitraria, nel documento si legge che avevano considerato un’età minima compresa tra i 14 e i 16 anni e che la scelta dei 16 anni “mira a bilanciare le aspettative degli australiani di ridurre al minimo i danni subiti dai giovani, supportando al contempo il loro accesso ai benefici di questi servizi”. Non si tratta quindi di una scelta informata scientificamente ma compiuta a furor di popolo, a favore del consenso generale. Su questa onda ogni paese stabilisce l’età più giudiziosa per usare i social media.
Per dare l’idea che vi fosse un appiglio scientifico, il documento cita un’unica ricerca pubblicata. Tuttavia, sembra che le fonti del documento siano di seconda mano a leggere come viene riportata:
"Uno studio del Regno Unito pubblicato nel 2022 su oltre 17.000 giovani ha scoperto che gli effetti più dannosi di alti livelli di utilizzo dei social media si verificano tra i 14 e i 15 anni per i ragazzi e tra gli 11 e i 13 anni per le ragazze. Un'età minima di 16 anni consente l'accesso ai social media dopo che gli adolescenti sono usciti dalla fase più vulnerabile”.
Questa sintesi errata è contenuta nel libro campione di vendite mondiali di Jonathan Haidt, La Generazione Ansiosa, e serve all’autore per sostenere che l’età di 13 anni sia troppo bassa per consentire il libero accesso ai social media. Nel libro il riferimento bibliografico è in una nota ma gli autori del documento governativo australiano non devono aver fatto in tempo a consultarla per aggiungere che lo “studio” è di Amy Orben, Andrew Przybylski e collaboratori, tra i massimi esperti al mondo nella ricerca sui rapporti tra giovani e social media. Quello che è stato travisato da Haidt e riproposto nel documento australiano è quanto si legge nell’abstract dell’articolo originale:
“Analisi longitudinali di 17.409 partecipanti (10-21 anni) suggeriscono distinte finestre evolutive di sensibilità ai social media nell'adolescenza, quando un uso stimato più elevato dei social media predice una diminuzione della valutazione della soddisfazione di vita un anno dopo (e viceversa: un uso stimato più basso dei social media predice un aumento delle valutazioni di soddisfazione della vita). Queste finestre si verificano a età diverse per i maschi (14-15 e 19 anni) e le femmine (11-13 e 19 anni)”.
Utilizzando misure affidabili del benessere percepito - che in adolescenza tende a declinare - diventa possibile monitorare nel tempo l’effetto delle interazioni con i social media assieme ad altri fattori. Orben e colleghi suggeriscono di studiare con un nuovo approccio le interazioni bidirezionali tra il benessere degli adolescenti e i social media perché queste sono inserite in uno specifico contesto di cambiamenti neuroevolutivi, puberali, cognitivi, sociali, e ipotizzano la presenza di finestre evolutive di sensibilità ai social media nelle quali le differenze individuali sono determinanti. Individuare le finestre evolutive di sensibilità permette di delineare fattori di vulnerabilità e fattori di resilienza al fine di guidare in modo informato le politiche pubbliche e lo sviluppo dei social stessi. Uno studio, quello di Orben e collaboratori, che contrasta proprio la semplificazione utilizzata da chi vede effetti causali dove non ci sono e ne fa un interessato e redditizio uso strumentale.
Pur mettendo da parte le sue premesse precarie, la nuova legge australiana lascia però più domande che risposte.
Quali saranno i social media non accessibili fino al compimento dei 16 anni?
Secondo quanto riferito dalla ministra delle Comunicazioni, la laburista Michelle Rowland nominata dopo le elezioni del 2022, “il disegno di legge e le norme associate garantiranno ai giovani australiani un accesso continuo alla messaggistica e ai giochi online, nonché l'accesso a servizi correlati alla salute e all'istruzione, come Headspace, Kids Helpline e Google Classroom e YouTube”. Si conoscono quindi le piattaforme che saranno escluse dal divieto ma ancora non è chiaro l’elenco completo dei social media che saranno soggetti a restrizioni, se si sa solo che "includerà Snapchat, TikTok, Instagram e X, tra gli altri”.
Si tratterà di una scelta arbitraria quanto quella dell’età, considerando che se non ci sono dati sufficientemente affidabili sugli effetti di ciascun social media mancano del tutto dati comparativi tra essi. Sarà comunque compito del ministero delle Comunicazioni stilare una lista con criteri tutti da scoprire.
Quello che è certo è che la legge sarà effettiva tra un anno e che saranno previste sanzioni fino a 49,5 milioni di dollari per le violazioni sistematiche da parte delle piattaforme digitali.
Come faranno le piattaforme ad accertare l’età di chi richiede una nuova utenza?
Questo è un aspetto molto problematico ma non ancora definito dalla legge australiana. Ogni legge su questo tema si scontra nella sua applicabilità proprio sui metodi di accertamento dell’età dell’utente che contrastano con la tutela e la protezione dei suoi dati.
Escludendo l’autenticazione digitale, ad esempio attraverso strumenti analoghi allo SPID, a causa dell’invasività nella richiesta di dati personali, una procedura suggerita dal premier Albanese è l’introduzione di una verifica biometrica come il riconoscimento facciale. Ulteriori alternative prevedono l’analisi del comportamento online e il coinvolgimento di terze parti. Si tratta comunque di metodi che quando non risultano invasivi sono di limitata affidabilità e potrebbero creare più problemi che soluzioni.
Un’alternativa sempre disponibile è quella di scaricare tutte le responsabilità sui genitori in quanto garanti ed è anche un modo conveniente per lasciare le cose come stanno. Tuttavia, questa opzione non considera che non tutti i genitori sono in grado di gestire la responsabilità di guidare le esperienze nello spazio digitale.
Da parte loro le aziende chiamate in causa hanno sottolineato che le misure di accertamento dell’età richiederanno investimenti significativi e potrebbero non essere pronte entro la scadenza fissata dalla legge. Nulla hanno aggiunto al momento, in quanto non richieste, sulle azioni concrete e immediate che potrebbero mettere in atto per ridurre i pericoli nelle porzioni di spazio online che gestiscono.
Quello che si sa è che il divieto si estende anche a chi ha già un’utenza e non solo alle nuove utenze e questo ne rende ancora di più difficile l’applicazione ma tutte queste questioni passeranno al successivo Ministro per le Comunicazioni dal momento che in Australia ci saranno le elezioni entro maggio del 2025.
A cosa si deve la rapidità del governo australiano nell’approvazione di questa legge che è solo un inizio di azioni da definire e intraprendere?
Un insieme di sollecitazioni politiche e una pressante campagna mediatica possono essere rintracciate come determinanti nel frettoloso percorso di approvazione della legge. La sfida con il leader dell’opposizione Peter Dutton, che aveva posto il divieto in cima alle priorità di un suo governo, ha spinto Albanese ad accelerare i tempi e così intestarsi di avere vinto la tenzone.
Secondo Josh Taylor, giornalista australiano del Guardian, è stata decisiva la combinazione tra le spinte dell’opposizione, una serie di sondaggi a sostegno del divieto apparsi sui giornali e la campagna di News Corp di Rupert Murdoch, il maggiore editore di giornali in Australia. La campagna intitolata “Let Them Be Kids” [lasciate che siano bambini] è stata lanciata da News Corp, scrive Taylor, non molto tempo dopo l’annuncio della decisione di Meta di non stipulare nuovi accordi con i giornali per pagare le notizie. Nei giorni precedenti l’approvazione in Senato, “le prime pagine dei tabloid di News Corp nelle principali città e un editoriale dell'Australian esortavano il Parlamento ad approvare la legge”, aggiunge Taylor concludendo che “l'approvazione del disegno di legge ora, e la sua entrata in vigore solo dopo le prossime elezioni, ha un duplice scopo: togliere la questione dal tavolo delle elezioni e affidare la responsabilità dell'attuazione al prossimo governo”.
Sono efficaci i divieti generalizzati?
A partire dal 2000 la Cina ha progressivamente ristretto la lista dei videogiochi legali e l’accesso ad essi. Nel novembre del 2019, attraverso la Notice on the Prevention of Online Gaming Addiction in Juveniles, il governo cinese vietò i videogiochi online per più di un’ora e mezza al giorno (tre ore in caso di festività pubblica) e nelle ore comprese tra le 22 e le 8 del mattino a chi non avesse compiuto 18 anni di età. Nel 2021 un ulteriore inasprimento del divieto ha portato a 1 ora il tempo consentito per i videogiochi e soltanto tra le 20 e le 21 dal venerdì alla domenica e nelle festività pubbliche.
Tali restrizioni sono state messe in discussione non solo per una concezione negativa infondata del videogiocare ma anche perché possono essere facilmente aggirate con l’uso di una vpn oppure loggandosi con l’utenza di una persona adulta. Un’analisi longitudinale telemetrica sul totale di ore giocate (oltre 7 miliardi) su diversi videogiochi e su 2.4 miliardi di profili di gamer ha mostrato come non si riscontri alcuna diminuzione delle ore giocate dopo l’introduzione della legge ma al contrario un incremento in ciascuna delle settimane considerate. Si tratta di un modo indiretto di misurare l’efficacia del divieto basandosi sulla riduzione delle ore totali giocate limitato dal fatto che le ore di videogioco nelle fasce di età inferiori a 18 anni potrebbero avere comunque un peso minore di quello delle ore di gioco delle persone adulte. Tuttavia, un minimo effetto sul trend generale avrebbe dovuto essere osservato considerando che le fasce di età con meno di 18 anni costituiscono il 20% della popolazione cinese. Le politiche restrittive che seguono finalità ideologiche più che considerare dati scientifici affidabili risultano alla fine inefficaci nel produrre cambiamenti nei comportamenti e ben lontane dall’affrontare i problemi dello spazio online.
La Shutdown Law o Legge Cenerentola entrò in vigore in Corea del Sud a novembre del 2011 vietando l’accesso ai videogiochi online tra la mezzanotte e le 6 del mattino a chi non avesse compiuto 16 anni di età. La sua applicazione non ebbe risultati efficaci, non incrementò le ore di sonno e portò ragazzi e ragazze a trovare modi alternativi per loggarsi o restare online. Inoltre, la selezione arbitraria dei videogiochi banditi indusse le aziende produttrici a intraprendere vie legali. Nel 2014 la legge fu dichiarata incostituzionale e nel 2021 è stata abolita. “L'ultimo simbolo della politica ficcanaso dello Stato che invade la vita individuale, è stata abbassato”, si legge in un editoriale del Korea Herald di novembre 2021 “ma rimangono irrisolti problemi potenzialmente esplosivi, come la gestione degli effetti collaterali dei contenuti e dei servizi digitali”.
In Francia, la legge approvata nel 2023 per vietare il libero accesso ai social media (Facebook, Instagram e TikTok) prima del compimento dei 15 anni rivela i limiti di questi approcci: le piattaforme devono rifiutare la registrazione a chi ha meno di 16 anni a meno che i genitori non diano il loro esplicito consenso ma le misure per l’accertamento dell’età risultano invasive per la riservatezza personale e non conformi al regolamento europeo sulla protezione dei dati e quindi non possono essere applicate.
I divieti generalizzati sembrano quindi innescati da un insieme di buone intenzioni, convenienze politico-economiche e discutibili evidenze scientifiche ma nella pratica risultano difficilmente applicabili, possono produrre conseguenze negative nel tentativo di aggirarli e non incidono sulle minacce presenti nello spazio online.
A chi dovrebbero essere vietati i social media?
Nella maggior parte dei paesi l’età di iscrizione ai social media è già fissata a 13 anni.
Leggi come quella australiana hanno il solo scopo di paventare ulteriori restrizioni dei diritti di bambini, bambine e adolescenti alla partecipazione sociale e alle opportunità educative e di supporto. La Commissione australiana per i diritti umani, in una nota a commento della legge, ha affermato che “esistono alternative meno restrittive che potrebbero raggiungere l'obiettivo di proteggere i bambini e i giovani dai pericoli online, ma senza avere un impatto negativo così significativo su altri diritti umani. Un esempio di risposta alternativa potrebbe essere l'imposizione di un obbligo legale di diligenza alle aziende di social media. Ciò richiederebbe loro di adottare misure ragionevoli per rendere i loro prodotti sicuri per i bambini e i giovani. L'introduzione di un obbligo legale di diligenza sarebbe un modo proattivo per aumentare la responsabilità delle aziende di social media e migliorare la sicurezza online per tutti”. Inoltre, continua la nota, “dobbiamo anche aiutare i bambini e i giovani a navigare meglio negli spazi online, assicurando che il curriculum nazionale includa un'attenzione specifica all'insegnamento dell'alfabetizzazione digitale e della sicurezza online. I giovani devono essere educati a pensare in modo critico a ciò che vedono online e a come si impegnano sui social media”.
Ragazzi e ragazze con meno di 16 anni troveranno comunque il modo di entrare nei social media ma non potranno parlare esplicitamente a genitori e insegnanti dei pericoli incontrati e di come contrastarli. I divieti in fondo sembrano più una punizione verso coloro che si afferma di voler proteggere e una chiusura al racconto delle loro esperienze online. Per chi ha 16 o 17 anni poi i social media continuano a restare intatti con i loro rischi e con le loro minacce e questi non hanno minore impatto solo perché l’età è ritenuta più giudiziosa.
Come dimostrano le esperienze di regolamentazione precedenti, il divieto non è uno strumento efficace per affrontare i rischi online. Inoltre, il divieto solleva le piattaforme da ogni azione mirata a incrementare la sicurezza online perché non avranno alcun incentivo a modificare un algoritmo o a espellere i molestatori. In fondo, a essere sanzionati dovrebbero essere utenti e organizzazioni che costituiscono un pericolo accertato per ragazzi e ragazze. Sulla loro individuazione dovrebbe essere stipulata una collaborazione con le piattaforme.
Cosa fare per migliorare le conoscenze sull’impatto dei social media?
In un intervento alla Sottocommissione sulla Salute Pubblica del Parlamento Europeo dello scorso 20 novembre, Luisa Fassi, ricercatrice nel Regno Unito presso il Digital Mental Health Group dell'Università di Cambridge diretto da Amy Orben, ha illustrato le problematiche inerenti alla ricerca scientifica sull’impatto dei social media nei più giovani. Nel suo intervento trasmesso in streaming, Fassi ha mostrato come il discorso pubblico sull'impatto dei social media si basi su una correlazione spuria. Il riscontro di un incremento negli anni dell'uso degli strumenti digitali e di un incremento negli anni di problemi di salute mentale è stato considerato come suggestivo di una relazione causale tra i due. Sono stati prodotti centinaia di articoli scientifici che in realtà non hanno aggiunto nulla di rilevante alle conoscenze necessarie per informare le politiche pubbliche. Fassi ha precisato che sono studi che non dimostrano alcun nesso di causalità tra le variabili studiate e che si basano su misure molto deboli e insufficienti per giungere a conclusioni accettabili (ad es., l'uso esclusivo di questionari autoriferiti che non sono affidabili per misurare il tempo d'uso e le modalità).
Per incrementare le conoscenze su questo tema, Fassi ha spiegato che occorre portare avanti studi che si approssimano maggiormente alla scoperta di causalità (come studi longitudinali su larga scala finanziati dall'Unione Europea e studi naturalistici che misurano gli effetti nel tempo dell'adozione di determinate politiche) e ottenere resoconti trasparenti da parte delle aziende tecnologiche (sui risultati dei test che fanno regolarmente aggiustando gli algoritmi e su una possibile applicazione di test che sia guidata da centri di ricerca indipendenti). Per andare ai contenuti senza filtri soggettivi, i centri di ricerca devono poter accedere ai dati online, alle telemetrie fornite dalle piattaforme digitali e queste ultime devono collaborare nell’identificazione e regolamentazione dei contenuti dannosi (che incitano all’autolesionismo, al suicidio, ai disturbi alimentari).
Fassi ha infine aggiunto che come nella costruzione delle auto occorre che gli strumenti digitali siano disegnati in modo da non mettere in pericolo chi li usa attraverso l'introduzione di adattamenti mirati a una navigazione sicura in funzione delle diverse età.
Il ruolo dei governi è quindi di incentivare le piattaforme digitali alla trasparenza e di finanziare centri di ricerca indipendenti affinché si possano raccogliere i dati necessari sugli effetti negativi, neutri e positivi dei contenuti dei social media, sui fattori determinanti e sulle loro variazioni nel tempo in funzione dei cambiamenti evolutivi individuali e sociali legati all’età. I legislatori potrebbero rinunciare a sfruttare il panico morale per giustificare misure punitive verso chi usa i social media (con proposte di divieti in base a età arbitrarie) e invece esercitare pressioni verso le aziende tecnologiche affinché producano strumenti senza trappole, condividano con trasparenza i dati, diffondano contenuti non pericolosi e quando necessario indirizzino verso contenuti di supporto.
Quello che ci si può aspettare è invece che la sbrigativa approvazione australiana si diffonda per contagio ad altri paesi replicando l’appello alle emozioni dei politici, la campagna pressante dei giornali e la completa mistificazione delle evidenze scientifiche. Eppure, tra tutti gli interessi nel gioco delle parti, è difficile che portando avanti simili proposte legislative si realizzino azioni concrete di protezione dello spazio online nell’esclusivo interesse delle comunità e dei diritti individuali di partecipazione e di espressione. L’alternativa è promuovere l’integrità della ricerca scientifica, la trasparenza da parte delle piattaforme di social media e una comunicazione pubblica responsabile.
In un recente articolo Jeffrey Hall, professore di comunicazione e tecnologie all’università del Kansas negli Stati Uniti, ha elencato dieci miti sul rapporto tra social media e benessere. Ogni mito è espresso attraverso una citazione o una parafrasi tratta dal discorso pubblico sul tema. A contrastare ogni mito l’autore ha aggiunto un’asserzione giustificata che è supportata dal complesso di ricerche elencate nell’articolo.
Mito 1. Ci sono prove innegabili che il tempo trascorso sui social media abbia un effetto tossico su chi li usa
Asserzione giustificata 1. Il tempo trascorso sui social media non ha un effetto rilevante sul benessere degli utenti. I social media non sono in sé fonte definitiva di danno o di stress. Gli effetti dell’uso dei social media sul benessere dipendono dall’intreccio con l’insieme dei fattori psicosociali e delle esperienze di ogni utente.
Mito 2. La dipendenza dai social media è pervasiva e dannosa
Asserzione giustificata 2: Gli esperti sono in disaccordo sull'esistenza di una dipendenza dai social media, su quali siano i criteri diagnostici e su come debba essere misurata. Le misure finora usate per dimostrare l’esistenza di una dipendenza sono profondamente discutibili. Parlare di uso problematico dei social media è più appropriato ma sono comunque necessarie una migliore concettualizzazione e misure più affidabili affinché si possano dare indicazioni alle persone e informare le decisioni politiche. Usare impropriamente il concetto di dipendenza ha finora avuto implicazioni politiche dirette sulle iniziative regolatorie da parte dei governi.
Mito 3. Trascorrere più tempo sui social media porta inevitabilmente all’utente depressione, ansia, tristezza e solitudine
Asserzione giustificata 3. Nel corso del tempo, una diminuzione del benessere può essere associata a un aumento dell'uso dei social media. La questione è però cosa viene prima? Ci possono essere quattro possibili associazioni tra l'uso dei social media e il benessere nel tempo: i cambiamenti nell'uso dei social media diminuiscono/aumentano il benessere futuro; i cambiamenti nel benessere aumentano/diminuiscono il futuro uso dei social media; entrambi i cambiamenti si influenzano a vicenda; il cambiamento dell’uno non è predittivo del cambiamento dell'altro. Alcune prove empiriche supportano la seconda associazione: per affrontare un minore benessere (solitudine, stress) attuale le persone tendono a un maggiore uso dei social media nei mesi successivi. Occorrono però maggiori ricerche per accertare la solidità di questa associazione e se si tratti di una strategia efficace per affrontare i problemi.
Mito 4. I social media sono la causa principale dei problemi che le/gli adolescenti stanno affrontando
Asserzione giustificata 4. Le vulnerabilità preesistenti (ad esempio, la povertà, le condizioni psicopatologiche, la mancanza di supporto familiare) sono associate sia all'uso dei social media da parte degli adolescenti che al loro malessere. D’altra parte, l’uso dei social media è associato a un maggiore benessere per le persone che sono già socialmente ben connesse. Pertanto, conoscere il contesto psico-socio-economico di riferimento di una persona è fondamentale per poter interpretare le sue abitudini sociali online. Riferirsi a adolescenti come a un gruppo omogeneo per bisogni e abitudini è fuorviante.
Mito 5. Rispetto ad altri danni, il danno causato dall'uso dei social media è molto maggiore
Asserzione giustificata 5. Quando vengono presi in considerazione i predittori primari di benessere e malessere, l'uso dei social media diventa un fattore trascurabile per spiegare la varianza nello stato di un adolescente. Può sembrare sorprendente ma solo di recente le ricerche sugli effetti dell'uso dei social media hanno considerato anche il ruolo di altri indicatori dello stato di salute. È improbabile che l'uso dei social media svolga un ruolo importante nei cambiamenti di benessere, soddisfazione di vita e salute mentale, che in genere sono stabili e cambiano solo gradualmente nel corso di lunghi periodi di tempo o a causa di importanti cambiamenti nelle circostanze della vita.
Mito 6. L'adozione dei social media, soprattutto sugli smartphone, coincide perfettamente con l'inizio della crisi per la salute mentale e solitudine degli adolescenti contemporanei
Asserzione giustificata 6. Gli studi longitudinali non supportano la conclusione che la disponibilità di smartphone e l'adozione di social media abbiano preceduto o causato peggioramenti nella salute mentale o un’epidemia di solitudine in adolescenti. Il tempo trascorso a socializzare è in declino da almeno 30 anni in diversi paesi del nord del mondo e la solitudine è tipicamente alta tra adolescenti e giovani adulti perché è associata alle sfide di sviluppo dell'età adulta. L'uso dei social media è invece diventato un modo per raggiungere e connettersi con le persone care e può aiutare ad affrontare la solitudine in alcuni periodi della vita.
Mito 7. I social media sono il motivo per cui le persone non trascorrono del tempo insieme
Asserzione giustificata 7. L'uso dei social media non impedisce alle persone di parlare con gli altri faccia a faccia ma sono utilizzati per aiutare le persone a rimanere in contatto quando le interazioni faccia a faccia diminuiscono. I social media stanno probabilmente sostituendo internet e la TV in diverse attività, come internet a sua volta aveva sostituito la TV e altri media. Inoltre, più recentemente, le piattaforme di social media sono utilizzate per accedere a una molteplicità di contenuti informativi, streaming, creator e influencer. L'uso dei social media, in particolare attraverso i messaggi e le chat di gruppo, compensa la mancanza di opportunità di interazioni amicali e familiari faccia a faccia e attraverso i contenuti diversificati aumenta le opportunità di conoscenza e informazione.
Mito 8. Gli adolescenti che usano i loro smartphone quando stanno insieme sono il segno di una generazione disconnessa e scontenta
Asserzione giustificata 8. Gli effetti dell’uso dello smartphone in co-presenza sono altamente situazionali e influenzati da fattori e norme sociali. Usare lo smartphone mentre insieme si aspetta che inizi una lezione non porta a competizioni per l’attenzione né compromette l’intimità relazionale. Inoltre, è abbastanza comune condividere con altre persone i contenuti dal proprio smartphone e guardare insieme un meme o un film può essere un'esperienza interpersonale. Nel loro insieme queste sono situazioni in cui l’uso di dispositivi co-presenti è un modo per fare qualcosa di divertente o interessante. Tuttavia, ci sono situazioni in cui gli smartphone co-presenti influenzano negativamente le relazioni, le prime impressioni, la qualità della conversazione. In particolare, questo accade in posti dove non è opportuno utilizzare uno smartphone o quando le persone utilizzano il proprio smartphone per escludere l’interlocutore senza spiegazioni o scuse.
Mito 9. La soluzione è abbandonare o bandire i social media
Asserzione giustificata 9. I benefici dell'astinenza dai social media variano a seconda della persona e dei modelli di utilizzo. Quando i social media consentono la partecipazione alle comunità online, non esserci potrebbe determinare una perdita di accesso alle informazioni, all'aiuto e al sostegno. Inoltre, all’interno di alcuni gruppi di amicizia, di scuola, di lavoro, di volontariato non essere presente sui social media significa non essere informati anche su quello che avviene nella propria comunità offline. In generale, i divieti generalizzati di utilizzo dei social media, soprattutto estendendosi alle chat e ai messaggi diretti, non aiutano le persone più vulnerabili. Le persone, per gli effetti del panico morale diffuso sui media, si sentono in colpa per l’utilizzo dei social media perché credono sia pericoloso o improduttivo e quindi possono essere spinte ad abbandonarli. Questa spinta in alcuni casi produce benessere ma se fallisce può generare maggiore disagio e sensi di colpa.
Mito 10. Non abbiamo bisogno di un altro studio sui social media
Asserzione giustificata 10. La ricerca sull’impatto negativo, neutro o positivo dei social media deve continuare poiché piattaforme, caratteristiche, abitudini, contesti e utenti cambiano continuamente. Gli effetti dei social media dipendono da ciò di cui una persona ha bisogno, dalle scelte che fa, dalla sua dieta mediatica e dal grado in cui la sua abitudine è cronica e eccessiva. Inoltre, dipendono da come sono disegnati e sviluppati i social media e da come possono essere migliorati.
Nell’attuale realtà, attribuire ai social media problemi sociali complessi distrae i politici dal concentrarsi sulle cause alla radice della solitudine, del disagio psicologico, della mancanza di soddisfazione o di significato nella vita. Piuttosto che considerare i social media come un’abitudine che dovrebbe essere vietata, andrebbero visti come una scelta delle persone riguardo al proprio tempo libero. “Per la maggior parte delle persone, trascorrere del tempo sui social media non è né benefico né dannoso - è solo una piccolo pezzo di un intero più grande”.