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Netanyahu ricercato internazionale: il valore simbolico e le implicazioni politiche della decisione della Corte Penale Internazionale

26 Novembre 2024 10 min lettura

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Netanyahu ricercato internazionale: il valore simbolico e le implicazioni politiche della decisione della Corte Penale Internazionale

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Il 21 novembre 2024, la Corte Penale Internazionale (CPI) ha convalidato le richieste di arresto presentate dal procuratore generale Karim Khan nei confronti di Benjamin Netanyahu, Yoav Gallant e Mohammad Deif per crimini di guerra e crimini contro l’umanità commessi nel conflitto a Gaza. La decisione giunge dopo sei mesi dalla presentazione delle richieste, ponendo fine a quello che stava diventando, a causa di difficoltà interne e pressioni esterne, un ritardo cospicuo. 

La decisione rappresenta il primo esempio, nella seppur breve storia ventennale della Corte, di mandato di arresto nei confronti di esponenti di una “democrazia occidentale”, così come viene comunemente definita Israele, e può per questo rappresentare un crocevia per il futuro di questa istituzione. La Corte è stata in passato criticata per l’apparente selettività delle proprie decisioni, che si concentravano principalmente sui crimini commessi nei paesi del Sud globale. Tuttavia, recenti sviluppi – tra cui l’apertura di indagini in Afghanistan (2020), l’emissione di mandati di arresto per esponenti del governo russo nel conflitto ucraino (2024), e quest’ultimo caso – sembrerebbero indicare un deciso cambio di approccio e voler riaffermare il ruolo della Corte nel condurre una lotta all’impunità in maniera indipendente e senza discriminazioni.

Benjamin Netanyahu è ora ufficialmente un ricercato internazionale. È importante ricordare che questo non implica la sua colpevolezza: per l’emissione di un mandato di arresto, la Corte Penale Internazionale valuta se sussistono “fondati motivi per ritenere” (Articolo 61 Statuto CPI) che crimini di guerra e contro l’umanità siano stati commessi. L’onere della prova diventa più alto durante il processo, per cui bisogna dimostrare la commissione di crimini “ogni oltre ragionevole dubbio” (Articolo 66 Statuto CPI).

Tuttavia, l’emissione di un mandato d’arresto non è senza conseguenze. Tutti gli Stati parte dello Statuto della Corte hanno ora l’obbligo giuridico di collaborare per consegnare il primo ministro israeliano alla giustizia e sottoporlo a processo. Questo significa un danno non solo reputazionale, ma anche pratico notevole: qualora Netanyahu si trovasse a viaggiare nel territorio di uno degli Stati Parte, le autorità saranno tenute ad arrestarlo.

La reazione degli Stati è stata scomposta (qui un costante aggiornamento). Tra gli alleati, gli Stati Uniti hanno fatto capire di non aver compreso le motivazioni alla base della decisione della Corte, quando avevano invece accolto di buon grado l’emissione di un mandato di arresto nei confronti di Vladimir Putin. Per Josep Borrell, commissario UE alla politica estera, la decisione vincola tutti gli Stati dell’Unione Europea, ma la posizione della Presidente della Commissione Europea, von der Leyen, e di alcuni Stati membri sembra molto più cauta. La Germania, al centro di pressioni politiche interne e internazionali per il sostegno militare ad Israele, non ha preso una posizione netta, anche se il portavoce del governo si è detto scettico della possibilità che Netanyahu venga arrestato in territorio tedesco. Anche la Presidente del Consiglio italiana, Giorgia Meloni, si è mostrata attendista, dovendo conciliare tra le contrastanti posizioni espresse dai membri della maggioranza di governo. 

È probabile che la decisione della Corte possa segnare un punto di svolta nel conflitto israelo-palestinese, influenzando il sostegno che fino ad ora era stato garantito dagli alleati internazionali di Israele senza riserve. All’emissione dei mandati della CPI si affianca il recente parere della Corte Internazionale di Giustizia, che ha accertato l’illegalità dell’occupazione israeliana e l’obbligo degli Stati di cooperare per porvi fine. In questo contesto, è diventato impossibile continuare a sostenere Israele attraverso l’invio di armi, senza essere accusati di complicità nel mantenimento di un regime di occupazione illegale, di segregazione razziale e, ora, nel compimento di crimini di guerra e crimini contro l’umanità.

Le critiche alla giurisdizione della Corte

La Corte può esercitare giurisdizione anche sui crimini commessi da cittadini di uno Stato che non è parte dello Statuto, come è il caso di Israele. La giurisdizione della Corte segue in questo caso il criterio della territorialità, per cui è sufficiente che una condotta venga compiuta sul territorio di uno Stato Parte, come la Palestina, perché essa possa essere esercitata. Si considerano avvenute sul territorio di uno Stato parte tutte le condotte che abbiano avuto luogo, in tutto o in parte, o producano effetti in tale Stato, anche se eventualmente iniziate, proseguite o concluse sul territorio di un altro Stato (v. la decisione della Camera preliminare del 2019 sulla giurisdizione nella situazione Bangladesh/Myanmar, para. 61). La Palestina è divenuta una Stato pare della CPI nel 2015, e la Camera Preliminare della Corte ha accertato nel 2021 che si tratta effettivamente di uno “Stato” e che la giurisdizione si estende anche ai territori occupati, tra cui Gaza, la Cisgiordania e Gerusalemme Est. Per questi motivi la Corte ha respinto le contestazioni che Israele aveva mosso nei confronti dell’apertura delle indagini attraverso l’invio di un documento scritto.

Invece, per quanto riguarda i crimini commessi da Hamas sul territorio israeliano, la Corte è abilitata a esercitare la sua giurisdizione sulla base di un criterio personale, in virtù dell’Articolo 12(2)(b), che permette la giurisdizione sui crimini internazionali che siano commessi dai cittadini di uno Stato parte dello Statuto, indipendentemente dal collegamento territoriale.

Le richieste di arresto nei confronti di Netanyahu e Gallant

Al momento, è bene ricordare che i mandati di arresto non sono stati resi pubblici. Ciò serve per mantenere la riservatezza e l’integrità delle indagini, nonché la protezione dei testimoni coinvolti. Le informazioni ad oggi disponibili provengono da due comunicati stampa della Corte penale, uno relativo ai mandati emessi contro alti ufficiali israeliani e l’altro riguardante il capo militare di Hamas, che la Corte ha ritenuto in dovere di diffondere sia nell’interesse delle vittime, sia perché alcuni dei crimini contestati sarebbero ancora in corso. In aggiunta, alcune indicazioni sull’andamento delle indagini provengono dalle dichiarazioni di reazione del procuratore generale Khan, pubblicate lo stesso giorno della convalida degli arresti.

Netanyahu e Gallant sono stati accusati di molti, ma non di tutti, i crimini indicati dal Procuratore Generale. La Corte ha infatti convalidato le richieste solo per quei crimini rispetto ai quali ha ritenuto sussistenti elementi sufficienti. Non ha ad esempio valutato che sussistessero prove sufficienti per ritenere ragionevole la commissione del crimine contro l’umanità di sterminio. Gli elementi portati dal procuratore fanno riferimento al periodo temporale che intercorre tra l’8 ottobre 2023 e il 20 maggio 2024. Ciò non esclude che il procuratore possa integrare successivamente le richieste adducendo nuovi elementi di prova successivi a questo periodo. Tutto ciò basterebbe a rispondere alle critiche secondo cui la Corte avrebbe svolto un ruolo politico e non delle, seppur complesse e delicate, valutazioni giuridiche.

Tra i crimini contestati, Netanyahu e Gallant sono accusati di crimini di guerra, tra cui l’uso della fame della popolazione civile come metodo di guerra e gli attacchi intenzionali contro civili. I crimini di guerra sono gravi violazioni del diritto internazionale umanitario, ovvero l’insieme di norme che regolano la condotta delle ostilità nei conflitti armati (noto anche come “diritto dei conflitti armati” o ius in bello, oggi codificato principalmente nelle Convenzioni di Ginevra del 1949). È importante sottolineare che il diritto dei conflitti armati deve essere rispettato da tutte le parti coinvolte in un conflitto, anche quando il conflitto è iniziato perché uno Stato deve difendersi da un attacco armato altrui, come è il caso del conflitto a Gaza. Per questo motivo, risultano infondate le critiche secondo cui i mandati di arresto non avrebbero tenuto adeguatamente conto del diritto di Israele alla legittima difesa. La funzione della Corte è proprio quella di garantire che anche le operazioni militari condotte in legittima difesa rispettino i principi di umanità che ispirano il diritto dei conflitti armati. Tra i crimini contestati vi sono anche crimini contro l’umanità, tra cui persecuzione, omicidio, e altri atti inumani. 

La Corte ha valutato che esistono prove sufficienti per affermare che gli alti ufficiali israeliani avrebbero intenzionalmente e consapevolmente privato la popolazione civile di Gaza di elementi indispensabili alla sopravvivenza, tra cui provviste, acqua, medicine, carburante, elettricità, e aiuti umanitari forniti dalle organizzazioni non governative, senza che tali privazioni fossero giustificate da una chiara e distinguibile necessità militare. Così facendo avrebbero creato condizioni di vita calcolate per provocare la distruzione di parte della popolazione civile a Gaza, causando la morte di civili, compresi bambini, a causa di malnutrizione e disidratazione. Si tratta di valutazioni affatto parziali né strumentali, che confermano quanto già accertato in diverse occasioni da numerosi organismi internazionali indipendenti

È interessante notare la terminologica adottata nel comunicato della Corte, che fa riferimento alla creazione di “conditions of life calculated to bring about the destruction of part of the civilian population in Gaza”. Questa terminologia richiama la Convenzione contro il genocidio del 1951, che definisce questo crimine come “deliberately inflicting on the group conditions of life calculated to bring about its physical destruction in whole or in part” (Articolo 3, lettera c). Il parallelismo suggerisce un potenziale collegamento tra le due condotte, un aspetto che potrebbe rilevare nell’ambito degli attuali procedimenti pendenti che contestano ad Israele la commissione di questo crimine davanti alla Corte internazionale di giustizia.

I crimini per i quali è stato richiesto l’arresto si riferiscono al periodo di tempo che va fino al 20 maggio 2024. Il procuratore ha tuttavia precisato che le indagini in Palestina stanno proseguendo e che egli sta approfondendo ulteriori linee di indagini per altri crimini commessi non solo a Gaza, ma anche nelle altre aree rientranti nella giurisdizione della Corte, tra cui la Cisgiordania e Gerusalemme Est.

La richiesta di arresto nei confronti di Mohammad Deif

Il Procuratore Generale della CPI aveva originariamente richiesto anche l'arresto di tre leader di Hamas: Mohammed Diab Ibrahim Al-Masri, meglio noto come Mohammad Deif, Yahya Sinwar, ex capo di Hamas nella Striscia di Gaza, e Ismail Haniyeh, ex capo dell'Ufficio politico di Hamas. Le richieste per Sinwar e Haniyeh sono state successivamente ritirate a seguito della conferma del loro decesso, mentre per quanto riguarda Deif, non ci sono ancora notizie ufficiali, nonostante l'establishment israeliano sostenga che sia morto.

Il fatto che Deif sia formalmente ricercato è sufficiente a neutralizzare le accuse di antisemitismo rivolte alla Corte, poiché tutte le parti coinvolte nel conflitto, israeliane e palestinesi, sono sottoposte agli stessi standard di giustizia. Questo rappresenta un importante segnale di credibilità e imparzialità della Corte, che avrebbe assunto un valore ancora maggiore se i mandati fossero stati emessi quando anche gli altri due leader di Hamas erano ancora in vita.

Mohammad Deif è accusato di gravi crimini di guerra e contro l’umanità, tra cui omicidio, sterminio, tortura, stupri, altre forme di violenza sessuale, trattamenti crudeli, cattura di ostaggi, offese alla dignità personale. La diversità dei capi di accusa scagiona la Corte dall’aggiuntiva accusa di equiparare i terroristi ai capi eletti di una nazione democratica. Non c’è nessuna equiparazione, se non quella dovuta al fatto che entrambi le parti in conflitto non starebbero rispettando il diritto internazionale. Qualsiasi tipo di equiparazione non sarebbe in ogni caso imputabile alla Corte, che si limita a certificare quanto sta accadendo, ma alla condotta dei belligeranti.

I mandati d’arresto verranno eseguiti e i ricercati consegnati alla giustizia?

La Corte Penale Internazionale non dispone di un proprio apparato esecutivo e, di conseguenza, dipende attivamente dalla collaborazione degli Stati per l’esecuzione degli arresti. Gli Stati, in base allo Statuto della Corte Penale Internazionale, hanno l’obbligo giuridico di cooperare per procedere all’arresto delle persone indicate e consegnarle alla giustizia (Articoli 86 e 89 Statuto CPI). La mancata collaborazione, come già annunciata da alcuni Stati, costituisce un illecito (Articolo 87 Statuto CPI), per la quale la Corte può chiedere il deferimento dello Stato inadempiente all’Assemblea degli Stati Parte. Il 24 ottobre, la Camera Preliminare II della Corte ha fatto ricorso a questa facoltà, deferendo la Mongolia per non aver arrestato il presidente russo Vladimir Putin durante una visita di Stato avvenuta il 2 settembre scorso.

Attualmente sono 124 gli Stati parte dello Statuto, il che rende la libertà di movimento internazionale di Netanyahu, Gallant e Deif molto più limitata. Tra i “territori off-limits” rientrano tutti i paesi membri dell’Unione Europea, la maggior parte dei paesi africani e del centro America. Mentre resterebbero al di fuori di questo gruppo Stati come Stati Uniti, Russia, Cina e parte dell’Asia centrale e meridionale.

In concreto, nessun mandato di arresto emesso dalla CPI nei confronti di capi di Stato ha finora portato alla consegna dell’indagato alle autorità. Tuttavia, la prassi di indagare attivamente i capi di Stato è relativamente nuova e i casi sono esigui, tanto da poter essere conteggiati sulle dita di una mano. Tra questi, vi è l’esempio di Omar Al Bashir, ex presidente del Sudan, per il quale è stato emesso un mandato di arresto nel 2009, ma che è tuttora in libertà, nonostante abbia lasciato il potere nel 2019. Lo stesso vale per Vladimir Putin, contro il quale è stato emesso un mandato d’arresto oltre un anno fa, ma che non è ancora stato consegnato alla giustizia penale.

Ciononostante, non bisogna ritenere che i mandati di arresto siano inutili. Lo stesso Vladimir Putin non ha partecipato a un incontro dei BRICS che si è tenuto nell’agosto 2023 in Sudafrica, che è Stato membro della CPI. Inoltre, la pendenza di un mandato di arresto a proprio carico ha un peso reputazionale significativo. Lo Statuto CPI non ammette amnistie per questi crimini. A meno che non vengano dichiarati innocenti dalla giustizia penale internazionale, lo stato è irreversibile e Netanyahu e Gallant vivranno il resto delle loro vite da ricercati. Non è semplice, diplomaticamente parlando, condurre una normale politica internazionale con un soggetto accusato di crimini di guerra, a meno di non voler porsi in aperto contrasto con le istituzioni internazionali e la Corte Penale Internazionale. 

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I mandati di arresto potrebbero segnare un significativo cambiamento nell’atteggiamento della comunità internazionale nei confronti di Netanyahu, spingendo gli Stati a valutare l’adozione di sanzioni, l’interruzione della fornitura di armamenti, la sospensione delle relazioni diplomatiche o la revoca del sostegno politico nei consessi internazionali. L’Articolo 7 del Trattato sul commercio delle armi, al quale aderiscono Stati come Germania e Regno Unito, proibisce l’esportazione di armi se c’è il rischio che possano essere utilizzate per commettere violazioni del diritto internazionale umanitario, come quelle di cui è indagato Netanyahu ai secondo le valutazioni della Corte penale internazionale.

In ogni caso, questi mandati di arresto rivestono un’indiscutibile valenza simbolica. L'accertamento, anche solo parziale e provvisorio, della responsabilità penale di un capo di Stato racchiude un valore intrinseco, indipendente dal fatto che l’imputato possa effettivamente comparire dinanzi a un’aula di tribunale. Rappresenta un messaggio chiaro per le vittime di crimini: la giustizia internazionale è presente, determinata a seguire il proprio corso, e ribadisce che nessun potere è così grande da potersi sottrarre al suo rispetto.

Immagine in anteprima: frame video NBC News via YouTube

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