Dungeons & Dragons: il gioco di ruolo più amato al mondo compie 50 anni
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Qualche dado e una manciata di fogli possono cambiare il mondo se arrivano al momento giusto. Non sarà stato il primo gioco di ruolo, ma di sicuro ciò che ha ottenuto Dungeons & Dragons e l’impatto che ha avuto sul mondo sono stati fondamentali per tantissimi motivi. Quest’anno cade il cinquantesimo anniversario dalla sua invenzione, da quel momento in cui Gary Gygax e Dave Arneson iniziarono a usare miniature dei classici wargames per qualcosa di diverso e, va detto che il mezzo secolo se lo porta splendidamente. Anzi, a differenza di molti cinquantenni, D&D ha fatto un gran lavoro per cambiare, per aprirsi ai cambiamenti del mondo, per capire gli aspetti che poteva migliorare e come includere più persone.
Magari qualcuno si ricorderà di Dungeons & Dragons come quel gioco che risale agli anni ’80, una roba complessa, per iniziati, a cui forse giocava qualche vostro amico che ogni tanto la sera spariva, può essere che lo abbiate pure provato, oppure non vi racconto niente di nuovo.
Se non avete idea di cosa stiamo parlando, Dungeons & Dragons, come molti giochi di ruolo, prevede un giocatore che si prende la briga di fare il narratore onniscente (o master) e costruisce con i giocatori una trama che può essere preparata o inventata di sana pianta, con una serie di regole e tiri di dado che stabiliscono successi e fallimenti per azioni come colpire, intimidire, lanciare magie e così via. Non si “vince” in questo genere di giochi: l’obiettivo e divertirsi assieme affrontando pericoli, imprevisti e mostri di ogni tipo.
Ma mentre tanti lo ignoravano e lo abbandonavano, perché mancava il tempo, perché i videogiochi erano più divertenti o per mille altri motivi, altri e altre hanno continuato a giocarci. Nelle camerette, nelle ludoteche, nei negozi, negli scantinati, in tutte quelle “stanze profonde” che Vanni Santoni ha raccontato benissimo nel suo libro che parla proprio di giochi di ruolo e provincia italiana.
Mentre il cosiddetto mainstream si occupava d’altro, il mondo del gioco di ruolo continuava a scorrere all’interno della cultura popolare come un fenomeno carsico, come magma pronto a esplodere al momento giusto. Una menzione in qualche serie televisiva là, una comparsata nei Simpson di là, una citazione in un talk show o come curiosità per qualche vip ed ecco che improvvisamente una cascata di dadi da 20 ha iniziato scrosciare. Il tutto è stato permesso anche dai profondi cambiamenti nella cultura americana e occidentale, dallo sdoganamento sempre più forte di passioni che una volta erano di nicchia, ma che internet rendeva automaticamente globali.
Nell’arco di poco più di vent’anni siamo passati dal cosiddetto “Satanic panic” del più bieco puritanesimo americano che vedeva nei giochi di ruolo una sorta di porta d’ingresso verso il satanismo, con tanto di indagini da parte dell’FBI, a un passatempo globale, apprezzato, con un giro di soldi milionario, un film al cinema che (stavolta), pur non avendo fatto bene al botteghino, ha convinto nel tenere fede al materiale originale e uno stuolo di persone che lo ritiene un favoloso strumento di espressione personale.
L’arrivo di show che raccontavano in parte il mondo del gioco di ruolo, come Big bang theory e Stranger things è stato l’effetto, più che la causa, del successo di Dungeons & Dragons come fenomeno globale. Forse da noi si sentiva un po’ meno, ma i fan erano già milioni e ben presto iniziarono ad arrivare le partite mostrate online, magari da doppiatori, attori e personaggi famosi in generale, come accade nell’acclamatissimo show Critical role che da anni macina spettatori, e dollari, con tanto di sessioni giocate nei teatri.
Sono state forse questi spettacoli a mostrare al mondo le possibilità di Dungeons & Dragons e le abilità che andava a stimolare: creatività, emozione, improvvisazione, divertimento e comunità. E a mostrare anche, va detto, la sua capacità di diventare anche intrattenimento su cui farci i soldi. Come mostra anche qui in Italia il successo del collettivo Inntale e della loro storica campagna Luxastra, che tra crowdfunding, sponsorizzazioni, eventi, firmacopie e merchadising è diventato per alcune persone coinvolte un lavoro vero e proprio fatto di sessioni di gioco, video, streaming e libri.
L’isolamento pandemico non ha fermato questo successo, anzi, mai come in quel periodo c’è stati bisogno di qualcosa che ci facesse sentire vicini, che ci distraesse, usando Zoom in modi decisamente più interessanti rispetto all’ennesima call di lavoro.
Ciò che ha reso possibile questo successo è stata senza dubbio la capacità della community di tenere la fiaccola accesa anche nei periodi più difficili, ma anche lo strumento in cui le nuove leve si sono avvicinate all’hobby e lo hanno fatto loro. Se negli anni '80 Dungeons & Dragons era un po’ il rifugio degli amanti del fantasy, di chi cercava una via di fuga da una società fatta di bulletti, dalla noia della provincia e in generale da passatempi più fisici o banali, oggi è diventato uno spazio di espressione, di esplorazione di sé, anche per le comunità marginalizzate. Io dico sempre che una sessione di gioco di ruolo è un po’ come fare una piccola seduta di psicanalisi (d’altronde il gioco è uno strumento di introspezione potentissimo).
I personaggi spesso ci rispecchiano, sono occasioni per esplorare lati della nostra personalità o vestire per un po’ di tempo panni diversi, sono cartine tornasole per capire come reagiremmo in determinate situazioni. Ecco perché molte comunità queer, come la Gilda del Cassero, hanno reso il gioco di ruolo una componente sempre più importante di determinati spazi. Non è stato ovviamente un processo istantaneo né privo di attriti. D’altronde parliamo comunque di un prodotto creato 50 anni fa da due maschi bianchi americani, luoghi comuni, stereotipi e leggerezze sono una conseguenza inevitabile che dobbiamo accettare, ma che può essere anche modificata nel tempo, come qualsiasi opera umana. Wizards of the Coast, società che commercializza le carte di Magic e che detiene il marchio dal 1997, da anni si è messa in una posizione di ascolto per cambiare, limare, migliorare e questo ha generato sia furiosi dibattiti, ma anche un allargamento del pubblico che è andato oltre l’immagine che può venirvi in mente quando pensato a chi gioca di ruolo.
Quindi sì, Stranger things ha senza dubbio dato una mano, ma il successo di Dungeons & Dragons lo si deve alla capacità intrinseca dei giochi di ruolo di diventare spazi di espressione libera, dove il fallimento più critico può diventare l’occasione per nuove avventure. Inoltre, a meno che non vi mettiate a collezionare tutti i manuali, sono passatempi poco costosi, fatti di fogli, qualche dado, gomma e matite. Al massimo vi costerà un po’ di più il costante rifornimento di bibite e snack per il party. In fondo i giochi di ruolo sono come sistemi operativi in cui basta seguire poche regole, o inventarsele, per creare il software adatto. Sono spazi in cui si impara a giocare di squadra, a relazionarsi con gli altri, a improvvisare soluzioni.
E poi c’è un altro aspetto fondamentale per cui dovremmo essere grati a Dungeons & Dragons: è stato una delle ispirazioni fondamentali per i videogiochi moderni. Non stiamo solo parlando dei videogiochi direttamente ispirati, ma proprio del concetto stesso di videogioco, o almeno, di alcune sue parti importanti. Anni fa mi ritrovai a parlare con John Romero, uno dei padri di Doom, forse uno dei videogiochi più importanti della storia, fu lui a dirmi che giocando a D&D si rese conto che poteva scomporre le sue avventure in numeri. E se potevano diventare numeri potevano diventare righe di codice. Il gioco di ruolo fa ai mondi fantastici ciò che la fisica fa a quello reale. Ma pensate anche a concetti come i “punti esperienza”, alle statistiche per armi e abilità, alla struttura narrativa basata sulle “quest” piccole e grandi.
I primi passi dei videogiochi sono una diretta emanazione dei giochi di ruolo, William Crowther, autore di Colossal cave adventure, gioco del 1975 che ha ispirato tantissimi giochi successivi, era non solo un’amante della speleologia, ma anche un grande appassionato di Dungeons & Dragons e non si contano gli sviluppatori, gli scrittori e un sacco di altre persone coinvolte nelle professioni artistiche che hanno mosso i loro primi passi creando o partecipando ad avventure attorno a un tavolo. Questa eredità, queste capacità narrative, questo cammino trionfale è stato evidenziato molto bene l’anno scorso con l’uscita di Baldur’s Gate 3, videogioco che rispecchia in tutto e per tutto una complessa e spettacolare campagna di Dungeons & Dragons, sfruttando proprio la licenza ufficiale, con tanto di riflessioni e scelte etiche, su temi come l’abuso, l’amore, l’avidità, l’amicizia.
Si sapeva che sarebbe stato un titolo amato, anche per gli sviluppatori, Larian, avevano alle spalle ottimi titoli dello stesso genere, ma il successo di Baldur’s Gate 3 ha rotto ogni argine delle nicchie. Non solo ha fatto incetta di premi, ma ha reso gli attori che vi hanno partecipato delle star del settore, ha prodotto milioni di parodie, omaggi, racconti, disegni, dibattiti, trasformando il gioco da ottima espressione videoludica a vero e proprio fenomeno pop.
E lo ha fatto dimostrando anche il valore assoluto di una produzione che si è presa il suo tempo per sviluppare un titolo traboccante di dettagli senza chiedere al giocatore altri soldi se non quelli già spesi per l’acquisto. In un epoca di abbonamenti, microtransazioni e contenuti a pagamento è stata una boccata di aria fresca. Con il trionfo di Baldur’s Gate 3 è come se si fosse chiuso un cerchio, una traiettoria lunga cinquant’anni in cui qualche pagina di regole, un pugno di dadi e alcune miniature in metallo hanno messo in moto una serie di ingranaggi creativi che ancora oggi girano benissimo. L’importante è sapersene prendere cura.
(Immagine anteprima: grab via YouTube)