La manifestazione pro Palestina del 5 ottobre è stata un disastro politico
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Il recente disegno di legge Sicurezza presentato dai ministri Nordio, Piantedosi e Crosetto è l’ennesimo giro di vite repressivo cui ci ha abituati questo governo e la relativa maggioranza. La legislatura, del resto, si era aperta con il cosiddetto “decreto anti-rave”, ossia con un provvedimento che dietro una scusa veniale andava a colpire il diritto di riunirsi pacificamente, che è riconosciuto non solo dalla Costituzione, ma anche dalla Convenzione Europea per i diritti dell’Uomo.
In meno di due anni, siamo passati dal parlare di norme “anti-rave” ad “anti-Gandhi”. Espressione, quest’ultima, con cui si sintetizza quella parte del disegno di legge che punisce il blocco stradale come illecito penale, e non più come illecito amministrativo. Per una volta tanto, si fa quindi strada nel dibattito pubblico la tendenza a chiamare la repressione col suo nome: una norma che trasforma in reato una pratica associata agli scioperi, alla disobbedienza civile e alla resistenza nonviolenta deve per forza allarmare.
A fugare ogni dubbio ha pensato lo stesso ministro dell’Interno Matteo Piantedosi: rispondendo a un’interrogazione alla Camera ha chiarito come il nuovo reato si applicherà anche a scioperi e picchetti. Ci sarebbe bisogno di una mobilitazione allargata e duratura, di usare quei diritti riconosciuti, e che sono tali per conquiste storiche, per un civile ma fermissimo “no”. La radicalità dovrebbe essere questo: mettersi in mezzo a una deriva intenzionale usando numeri, risolutezza e parole che sappiano unire laddove il potere parla un linguaggio volto a spaccare, dividere, militarizzare lo spazio politico. E, nel farlo, liberare quel potere che dovrebbe essere di tutti e che invece si concentra sempre più nelle mani di pochi.
L’Italia non affronta certe derive nel ruolo di eccezione, derive che non nascono certo con questo governo. Il “DASPO urbano” è per esempio una creatura di Minniti. Questo difficile clima ha fatto da cornice alla manifestazione pro Palestina del 5 ottobre, terminata con cariche della polizia, scontri, e un bilancio che parla di oltre trenta feriti (perlopiù agenti delle forze dell’ordine), quaranta fogli di via e due attivisti denunciati. A bilancio ci sono anche giornalisti colpiti da fumogeni o presi a bastonate dai manifestanti.
Si è arrivati a quella piazza, all’esasperato e strategico uso di tecniche di contenimento e a quegli scontri dopo che la Questura aveva deciso di vietare la manifestazione. Nel mirino sono finiti alcuni appelli con cui si celebrava il 7 ottobre 2023 come “data storica di una rivoluzione”, e "atto anticoloniale". "Sì a manifestazioni ma non celebrazione di eccidi” ha detto Piantedosi, “ci siamo contraddistinti rispetto ad altri paesi europei per aver consentito ogni libera manifestazione del pensiero, anche quando questo ha comportato un presidio di sicurezza importanti”.
Quanto detto da Piantedosi è platealmente falso, come dimostrano le manganellate degli studenti a Pisa e Firenze, solo per citare i casi più eclatanti. Ma Piantedosi ha un rapporto fin troppo creativo con la verità, in un paese dove le istituzioni preposte all’ordine hanno pochi problemi con le piazze affollate di saluti romani. “Vietare e non osservare si è rilevato meno proficuo”, disse lo scorso gennaio dopo la vergognosa manifestazione di Acca Larentia.
In ogni caso, di fronte al divieto gli organizzatori della manifestazione hanno presentato un ricorso al TAR: questi ha rimandato l'istruttoria al 29, ritenendo che non sussistessero nel frattempo le condizioni per una revoca del divieto. La Comunità palestinese di Roma e Lazio ha deciso perciò di non scendere in piazza il 5 ottobre e di indire un’altra manifestazione per il 12, mentre altre realtà hanno deciso di manifestare lo stesso.
Il 5 ottobre è stato un fallimento politico
Ci sono molti discorsi fatti intorno a questa manifestazione. Si è parlato di censura e grave violazione dei diritti umani a proposito del divieto, di controlli sistematici dei manifestanti, di manifestazione pacifica tranne che per la coda finale, si sono fatti parallelismi con analoghe manifestazioni svolte in altri paesi europei, come il Regno Unito. Si è parlato di fascismo delle istituzioni, di infiltrati. C’è chi ne ha parlato in termini positivi poiché si è riusciti a portare le persone in piazza a dispetto di manganelli e divieti. A mio avviso è stato un fallimento politico ampiamente preannunciato, che sortisce in particolare quattro effetti.
Primo, rischia di allontanare ampi segmenti di popolazione che potrebbero essere mobilitati per un cessate il fuoco e per sostenere la causa dell’autodeterminazione palestinese, tra cui i partiti di opposizione in Parlamento e quegli spiriti autenticamente liberali sensibili al diritto internazionale, ma che - comprensibilmente - inorridiscono di fronte alla prospettiva di associarsi a chi chiama “resistenza” gli attacchi del 7 ottobre. Non si può poi prescindere dal fatto che per l’Unione Europea Hamas è considerata un’organizzazione terroristica.
Secondo, si rinvia per l’ennesima volta la responsabilità di tirare una linea verso quelle soggettività politiche che in nome dell’antisionismo diffondono o agevolano per inerzia messaggi antisemiti.
Terzo, mette a repentaglio le comunità islamiche in Italia, che potranno più facilmente essere bersagliate entro frame securitari o di scontro di civiltà, in un paese dove il ministero dell’Interno fa i meme per celebrare espulsioni e rimpatri, e dove l’estrema destra alimenta l'islamofobia.
Ennesimo titolo osceno sulla nostra stampa. pic.twitter.com/EiJ2aiuXaM
— Leila Belhadj Mohamed (@LeilaBelMoh) October 6, 2024
Quarto, permette agli apparati repressivi e alle logiche che vi presiedono di trovare comode giustificazioni per provvedimenti liberticidi, in mezzo a segmenti di opinione pubblica sempre più spaccata. Così si alzano sempre più i costi economici (leggasi: avvocati) e sociali per chi vuole manifestare dissenso.
Ritengo poi ci sia un’ambiguità ignobile e malevola alla base di molti messaggi politici lanciati in questi contesti, e non solo nella manifestazione di sabato. Di ciò non mi stupisco, perché per certi movimenti e certe sigle negli ultimi anni è stato più facile associarsi alla bandiera dell’Iran, di Hezbollah, delle Repubbliche Popolari filorusse che a quella dell’Ucraina. I simboli, gli slogan, i linguaggi così come gli spazi che plasmano non obbediscono alle leggi della fisica, ma dell’agire umano.
Senatrici a vita sopravvissute all’Olocausto bollate come “agenti sionisti”, in piazza o in apposite liste di proscrizione. Il diritto all’autodeterminazione di un popolo è invocato mentre si nega il diritto a esistere all’altra parte in conflitto (“entità sionista”). Ci si appella al diritto internazionale per accusare di genocidio Israele, ma si buttano nel cestino le Convenzioni di Ginevra quando si tratta degli attacchi del 7 ottobre e relativi ostaggi (“non esistono civili israeliani”, “cosa vi credete che sia la decolonizzazione?”).
Quando si additano quegli elementi, entrano poi in ballo i meccanismi di dissimulazione (quando non la vera e propria rivendicazione): “sono frange marginali”, “non hanno peso”, “così si fa il gioco della destra”, "perché non pensi ai palestinesi”, “perché non pensi ai crimini di Israele”, e così via. È qualcosa che infliggiamo prima di tutto a noi stessi come tessuto di relazioni. Eppure ignoriamo le conseguenze a corto raggio, evidentemente nella convinzione di poter così agire su un contesto come quello di Gaza e dei territori occupati, sottoposto da più di un anno a una devastazione senza precedenti, e per il quale storici della materia e luminari dei diritti umani hanno parlato di genocidio, al di là di qualunque facile slogan, tribunale internazionale o strumentalizzazione politica. Contesto che di recente si è ulteriormente allargato con l'invasione dell'esercito israeliano in Libano.
Qualcuno si è stupito?
Tornando alla manifestazione, vorrei andare al cuore di una domanda molto semplice e a corto raggio. Di fronte alle immagini del 5 ottobre a Roma, qualcuno si è stupito? Perché se si pone come premessa di avere a che fare con istituzioni repressive, e si sfida un divieto dopo aver perso attraverso le vie legali, le strade sono tre. O si è nella condizione di sfidarlo con pratiche di resistenza nonviolenta, o si è messo in conto di ricorrere alla violenza, o si è stati così ingenui da non prevedere scenari di questo tipo. In tutti e tre i casi, ciò significa esporre chi partecipa a rischi: ferite, denunce con relative spese legali, conseguenti traumi. In due casi su tre, viene però meno il dovere di cura, quell’elemento di lotta politica che si accompagna alla formazione continua e al lavoro di comunità.
Siamo soliti associare la parola “sicurezza” a un’idea di ordine che può arrivare anche alla repressione. Ma la sicurezza è anche un dovere di cura, di minimizzazione dei danni, una cognizione dei mezzi impiegabili a fronte dei rischi possibili. E, in tempi così difficili e con istituzioni che aspettano solo una banale scusa per giri di vite o manganelli, c’è un surplus di responsabilità che purtroppo bisogna mettere in conto. Invece, come faceva notare il giornalista Valerio Renzi, gli “infiltrati” sono stati evocati tanto dal Viminale per giustificare il divieto della Questura, tanto da alcuni manifestanti per allontanare ogni responsabilità sugli scontri. Una simmetria insolita.
La posizione di chi parla di "infiltrati" è la stessa del Viminale, ma non mi stupisce per niente... pic.twitter.com/e3MS4H25oV
— valerio renzi (@valeriorenzi) October 5, 2024
L’alternativa a questo surplus di responsabilità è proprio il rischio di mandare le pecore al macello, gridando poi contro il lupo cattivo. Oppure si gioca a fare i lupi ribelli: si evoca simbolicamente una "rivoluzione" che nel contesto delle piazze italiane esiste soprattutto come desiderio o proiezione, ci si scontra con un reality check fatto di manganelli, cariche e denunce; ci si dichiara a posteriori agnelli, o si dà la colpa agli “infiltrati”. Intanto gli spazi politici e i diritti esercitabili vengono sempre più ristretti, proprio in nome della lotta ai lupi ribelli.
C’è infine la scorciatoia facile dell’esterofilia selettiva: “queste cose all’estero non succedono”. Nel Regno Unito, in base al Terrorism Act, manifestare supporto a sigle inserite nell’elenco delle organizzazioni terroristiche può comportare l’arresto e l’incriminazione. Cosa che è avvenuta nella manifestazione nazionale del 5 ottobre, a Londra, e non solo, poiché Hamas ed Hezbollah sono organizzazioni terroristiche per la legge britannica. Non è che in tribunale uno si possa difendere dicendo “sono membro di una frangia marginale”, o minimizzare messaggi come quelli lanciati dai Giovani Palestinesi.
Sempre nel Regno Unito l’opera di scrutinio non risparmia certo quelle organizzazioni che si sono contraddistinte nell’ultimo anno, che presentano più di un’opacità, tra cui l’accusa di alcuni membri di spicco di aver militato nell’ala politica di Hamas, posizioni problematiche sugli attacchi del 7 ottobre o su altri fronti di guerra. Il problema comincia casomai dopo lo scrutinio. “Dov’è la critica della sinistra ad Hamas?” si domandava lo scorso aprile Hillel Schenker, condirettore del Palestine-Israel Journal e tra i fondatori di Peace Now, organizzazione pacifista israeliana che sostiene una soluzione a due Stati. Una domanda rivolta ai movimenti di solidarietà alla Palestina, per un tema fin troppo eluso o cui vengono date risposte poco chiare.
Le rivoluzioni che non scoppiano, lo spazio dei diritti che si restringe
Se vogliamo trovare delle peculiarità nel contesto italiano, sono principalmente due. In Italia mancano i numeri identificativi per gli agenti delle forze dell’ordine. Ciò rende difficile ogni forma di accountability, poiché c’è un’ulteriore consapevolezza che in caso di abusi la si potrà fare franca. Il percorso per chi vuole denunciare è inevitabilmente in salita, ma proprio per questo dovrebbe essere centrale la capacità di sensibilizzare attorno a casi da portare in tutti gli ordini di giudizio, fino eventualmente alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Questo problema riguarda qualunque forma di attivismo, e come Piantedosi ha lasciato presagire potrebbe riguardare sempre più anche il diritto di sciopero.
Se già siamo di fronte a un percorso in salita e a ostacoli, la strada diventa impraticabile nel momento in cui si forza un divieto puntando a farsi forza dei numeri, come nel caso di sabato scorso. C’è un aspetto legato al diritto che è sacrosanto, ovvero se sia stato giusto o meno vietare la manifestazione; divieti del genere configurano precedenti al di là del caso specifico e di cosa si possa pensare sulla manifestazione. Ma nel momento in cui ci si rivolge al TAR, e il TAR decide di non revocare il divieto della Questura, sul piano politico andare contro la decisione significa dire “il TAR va bene se mi dà ragione, sennò ‘sticazzi lo Stato di diritto”.
La seconda differenza è che manca la volontà o la capacità di allargare il consenso attorno alle proprie cause attraverso strategie congrue, preferendo invece una supposta radicalità da preservare come forma di purezza. Si preferisce cioè un recinto dove esercitare comunque un ruolo, un potere per quanto piccolo di dominio simbolico, alimentando una retorica di ortodossia della lotta che non redistribuisce il potere. Ma dopo il 7 ottobre il mondo attorno a questo spazio ha subito un’accelerazione spaventosa, e ora ci si muove in una sorta di campo di forze in cui le nostre azioni politiche possono avere come primo e principale effetto il fomentare ulteriormente l’antisemitismo o islamofobia, a seconda della direzione o dell’intensità presa. Qualcuno vuole davvero porsi politicamente la domanda se sia meglio scegliere o l’uno o l’altra?
In Scozia, nell’ottobre 2023, era primo ministro Humza Yousaf, primo politico di religione musulmana a ricoprire una carica simile in Europa. Quando iniziò l’assedio israeliano a Gaza, i genitori della moglie di Yousaf rimasero intrappolati nella Striscia; il padre della donna è infatti palestinese e insieme alla moglie era andato a visitare i parenti. Come politico, Yousaf si trovava in una posizione di potere, ma quel potere risultava completamente inutile nel proteggere i propri cari; intanto gli toccava persino subire abusi e insulti razzisti. I suoceri di Yousaf riuscirono infine a lasciare Gaza a novembre. In mezzo a questo tormento terribile, il 13 ottobre, Yousaf partecipò a una funzione nella sinagoga di Glasgow, dove ebbe parole di solidarietà per la comunità ebraica; il discorso culminò con un abbraccio tra lui e la madre di una delle vittime degli attacchi di Hamas. Si sono riconosciuti nella cognizione vertiginosa di una fragilità assoluta.
C’è un devastante trauma della popolazione palestinese - e della popolazione libanese, e di quella siriana - che non può essere ignorato: l’alternativa è perdere la propria umanità mentre la si toglie ad altri. Non ha senso brandire quel trauma per negare attivamente agli israeliani il lutto per il 7 ottobre, per negare il trauma ai superstiti, agli ostaggi e ai loro familiari, o per invalidare la paura che gli ebrei nel mondo sperimentano sempre più dopo quella data.
Immagine in anteprima: frame video Roma Today