Il 25 novembre non basta: come preservare il senso della Giornata contro la violenza sulle donne
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25 novembre, ci risiamo. La data, ricorrente ben oltre il calendario, continua a trovarci impreparati benché scatti prima ancora di arrivare come un promemoria collettivo. Ogni anno, in questo giorno, dobbiamo parlare di violenza contro le donne, lo vuole l'“agenda setting”, e vi si accordano i comunicati stampa e le dichiarazioni delle istituzioni, le manifestazioni, le iniziative e i cortei, le campagne di comunicazione sociale, aziendale, politica, i “casi” che fanno parlare tutti. E poi ci sono i report, i dati e le statistiche più aggiornate, i numeri: quelli delle donne morte ammazzate per mano di un uomo, vittime di violenza sessuale, di maltrattamenti e di altri atti persecutori; quelli da chiamare se si teme di fare la stessa fine
Stando ai dati del ministero dell’Interno, dal 1° gennaio al 17 novembre 2024, sono state uccise 96 donne: 82 sono morte in contesti familiari, 51 sono state uccise dal partner o dall'ex partner. A confronto, gli uomini vittime di qualcuno con cui avevano avuto un legame sentimentale sono 7. Questo, piaccia o meno a qualcuno, significa che, nei casi in cui l'autore del delitto è il partner o l'ex, l'87,9% delle vittime è rappresentato da donne. E nell'intero conto di abusi, violenze e ammazzamenti, gli stranieri c'entrano poco checché ne dica il ministro Valditara in un'occasione – la presentazione della Fondazione Giulia Cecchettin alla Camera dei deputati – per cui sarebbe stato il caso di avere parole più precise e attinenti. Perché il patriarcato potrebbe anche essere “in crisi” – e non credo affatto sia così –, ma le convinzioni sfrontatamente falliche resistono eccome: si traducono in un caos di simboli, trovano terreno fertile nell'assenza di riferimenti, sfociano in esercizio ed esibizione di predominio e forza fisica sull'altro e contribuiscono ad ampliare ed estendere il fattore di rischio comportamenti violenti.
Di cosa parliamo in questo articolo:
Storie che emergono, storie che svaniscono e la fatica per tenerle insieme
In questi giorni più degli altri, ascoltiamo e parliamo di storie che, anche quando nuove, in fondo abbiamo già sentito. Alcune, puntualmente ci sconvolgono. Collocandosi nel racconto mediatico perché rispondenti ad alcune caratteristiche di notiziabilità, ci costringono a riflettere. Altre, invece, ci arrivano appena: le sentiamo come un sussurro e, senza averle mai davvero afferrate, le lasciamo passare. Sappiamo tutte e tutti chi sono Giulia Cecchettin e Giulia Tramontano, ma in pochi potremmo dire di sapere di Renée Amato e di Annalisa Rizzo.
Per chi si occupa di queste storie e di questi temi o li ha a cuore, ogni 25 novembre non è, allora, solo il momento giusto per rendere più visibile e riconosciuta e condivisa la lotta quotidiana contro la sopraffazione di genere, facendo attenzione a coinvolgere sempre più persone e generazioni, ma anche una piccola frustrazione. Assomiglia a un fastidiosissimo mal di piedi quando hai ancora, davanti a te, una strada lunghissima da fare. Il tentativo principale, la speranza, è continuare a camminare schivando il rischio che la Giornata Internazionale per l'Eliminazione della Violenza sulle Donne diventi una di quelle “occasioni comunicative” da cogliere per stare sul pezzo o per presentarsi e accreditarsi in una certa maniera.
C'è, invece, chi la tratta come una sorta di “ricorrenza” tetra, analogo in negativo ed esteso della funzione “compleanni” su Facebook che ti invita a fare i tuoi auguri a una persona che non hai mai visto nella realtà. La domanda resta sempre la stessa e in entrambi i casi, che ci si spenda in un esercizio quotidiano per la tutela e il sostegno dei diritti delle donne (primo tra tutti, non essere ammazzate nemmeno metaforicamente) o che li si tratti come uno di quei discorsi spiacevoli che però ogni tanto bisogna fare. Cosa succede dopo, cosa accade domani e dopodomani e tra un mese o due? La risposta “niente di buono, niente di nuovo” non dovrebbe essere nemmeno lontanamente ammissibile, ma è esattamente quello che ci diciamo e sentiamo dire noi donne.
L'appello inclusivo necessario per un cambio di prospettiva
In questo femminile esteso – di norma viene utilizzato il maschile senza che nessuno se la prenda a male, dunque utilizzo e spero – voglio includere chiunque abbia a cuore la questione e ne parli e faccia qualcosa in merito ogni santo giorno. Siamo noi che, davanti a questo giorno, ogni anno, vediamo alzarsi il velo sulla realtà di una violenza che non si ferma mai, sapendo benissimo che poi lo si abbasserà di nuovo, quasi fosse un rito necessario per lasciar dormire tranquillo qualcuno il resto del tempo.
La nostra non è solo stanchezza. È la sensazione di trovarci di fronte a un ciclo che non si spezza. Perché ci contiamo, ci riconosciamo, scendiamo in piazza, manifestiamo, e sappiamo: a ricordare, a raccontare, a riflettere, a gridare, a parlare, a chiedere, siamo sempre noi, siamo sempre le donne. E anche questa è una fatica che si sente e che pesa. Quand'è che il tema dell'eliminazione della violenza sulle donne potrà evolvere in dibattito serio e azione concreta sugli atteggiamenti e le azioni violente e soverchiatrici dei soggetti appartenenti al genere maschile? Non si tratta di una questione puramente semantica, pure importante, ma di un cambio di focus concettuale. La violenza deve cambiare d'oggetto da chi la subisce a chi la compie per diventare un argomento che riguarda tutte e tutti. Altrimenti ci troveremo sempre a percepirla come qualcosa di vago e aleggiante, che può capitare ma anche no se stai bene attenta, quando si tratta, invece, di mazzate, accoltellamenti, ammazzamenti e soprattutto atteggiamenti quotidiani di chi non si mette e non è messo mai in discussione.
Messaggi informali che cambiano la narrativa ufficiale
Quest’anno ci sono un paio di elementi a stressare e sottolineare questo specifico punto. Il primo è una scritta comparsa sotto un manifesto dell'ATM a Milano. Nelle intenzioni, il cartellone affisso dall’azienda dei trasporti pubblici milanesi nelle stazioni e sulle pensiline dei mezzi di superficie, puntava a sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema della violenza di genere in vista di questa giornata, promuovendo la capacità di riconoscerne i segnali, prevenirla e reagire per proteggersi. La campagna, ideata da Child The Agency, dice: “Diamo alle donne i mezzi per combattere la violenza”. L'aggiunta a dir poco ficcante viene, invece, da una mano anonima ed è comparsa alla fermata della metropolitana gialla M3 Porta Romana: “Diamo agli uomini la capacità di non essere violenti”.
C'è anche un altro discorso che è riuscito a fare breccia in questo concetto. Non è stato pronunciato intorno al 25 novembre da un palco, ma il 12, in presa diretta per strada. Arriva da Alice Mangione, artista, attrice, scrittrice, comedian e parte della Pozzolis Family, che in un video condiviso sui social ha usato un’immagine metaforica potente, capace di rappresentare la complessità e pervasività del fenomeno di cui stiamo parlando. Mangione paragona la violenza di genere a un grattacielo, un luogo in cui nessuno vorrebbe mai entrare, ma che, invece, abitiamo tutti e spesso inconsapevolmente. Dice Mangione:
Immaginate la violenza di genere come un grattacielo. Un posto di merda in cui, sono certa, nessuno di voi, in teoria, metterebbe piede. E invece c’entrate, anche più volte al giorno. Beh, certo non salite all’ultimo piano. Al culmine di questo palazzo c’è il femminicidio. E anche se ci ammazzano come mosche mi piace pensare che tra quelli che mi ascoltano nessuno a quel piano ci abbia mai messo piede. Però nel palazzo della violenza di genere ci siete entrati. Eh sì. Perché nei piani appena sotto ci sono le violenze domestiche, fisiche, verbali e di manipolazione.
Questa immagine stratificata continua con i livelli intermedi, come quello del carico mentale, in cui si concentra il lavoro invisibile che le donne devono portare avanti ogni giorno nella gestione della casa, della famiglia, della quotidianità, per il solo motivo di appartenere al genere. Mangione ironizza sulle risposte tipiche di molti uomini, che si giustificano dicendo “aiuto in casa” o “mi occupo dei bambini”, smascherando la superficialità di tali affermazioni: “Chi è che state aiutando? Non c’è nessuno da aiutare. E non si azzardino ad alzarsi nemmeno quelli che dicono che si occupano dei bambini. Perché sto per chiedervi il calendario vaccinale dei vostri figli, come si chiamano i maestri, le maestre, quando riceve il pediatra (...) E siano seduti anche quelli a cui queste cose sono tutte chiarissime. Perché se vi state smazzando il 50% del carico mentale, state semplicemente facendo il vostro lavoro. A noi nessuno ci ha mai fatto un applauso per esserci ricordate di pagare la Tari”.
Più si scende ai piani inferiori di questo metaforico grattacielo, più Mangione identifica forme di violenza sottaciute e poco riconosciute, spesso ricorrenti anche tra le stesse donne, identificando le pressioni sociali – il dover essere alcune cose, anche in netto contrasto tra loro, per poter essere – e le disuguaglianze economiche, vere fondamenta del sistema di sopraffazione. La sua ironia diventa tagliente quando affronta il tema della dipendenza economica: “Sapete che cosa c’è alla base di questo sistema, al piano terra? I soldi. Perché se è vero che i soldi non fanno la felicità, fanno però l’indipendenza (…) Secondo il World Economic Forum, sapete quanto tempo servirà per colmare il pay gender gap…? 131 anni, virgola 5, nel 2155, a maggio”.
La riflessione culmina in una verità amara eppure dirompente: è proprio la disparità economica e professionale il terreno fertile per le dinamiche di controllo e violenza, perché quando una donna non ha soldi e un lavoro adeguatamente retribuito è esposta dalla società tutta al rischio di dover subire senza possibilità di difendersi. La domanda che molti uomini rivolgono alle donne – “Dove cazzo vai senza di me?” –, la risposta che molti uomini non sanno accettare, nasce qui. Mangione immagina una risposta diversa, una risposta di libertà: “Quella donna vorrebbe rispondere lontano, da sola, per mano con le sue amiche, figli, madri, sorelle, e anche per mano con un uomo, e mai più morire per mano di un uomo”.
La rabbia, le Belve e i libri
Nonostante la consapevolezza crescente della necessità di cambiare prospettiva e narrativa, ampliando il discorso il più possibile per includere, sensibilizzare e attivare sempre più persone, andando a modificare percezioni potenzialmente rischiose, ci ritroviamo ancora ad affrontare comunicazioni e dichiarazioni che tradiscono questo intento. Anzi, sembrano quasi andare a rafforzare quel ciclo che fatichiamo a spezzare. Non ci sono solo le parole del ministro Valditara, ma quelle della ministra Roccella. Da un lato non esita a parlare di segnale positivo per l'aumento di chiamate al 1522, fatto preoccupante perché fotografa un fenomeno emergenziale, ma al contempo incoraggiante perché indica che “le donne stanno recependo il messaggio”. Dall'altro, però, la ministra, esprimendosi sul corteo Non una di meno a Roma, pare suggerire che sia necessario “arginare” se non “limitare” le manifestazioni delle donne contro la violenza incanalandole in toni e contesti di educazione e rispetto.
Si può tentare di capire perché la rabbia espressa durante il corteo possa risultare di difficile gestione a Roccella. Ma negarla e ammansirla significa tentare di convogliare e poi dismettere ancora una volta l'energia femminile perché si è presentata come “distruttrice”. In merito, per estendere e ampliare il discorso sulla gamma di sentimenti ed emozioni a cui, per un secolo, le donne non hanno potuto accedere senza vedersi internate, il libro di Candida Carrino Luride, agitate, criminali risulta illuminante.
C'è, poi, il caso Riccardo Scamarcio a Belve, il programma di Francesca Fagnani su Rai 2. Martedì 19 novembre, Scamarcio, attore di talento e di indiscutibile fascino, noto anche per la sua relazione con Valeria Golino e attualmente compagno di Benedetta Porcaroli – quest'ultima interprete nel 2021 di un film su uno dei più feroci episodi di violenza contro le donne dell'intero Novecento – è tornato su una sua vecchia dichiarazione di stampo decisamente maschilista. Alla domanda di Fagnani su un'eventuale evoluzione nel suo pensiero, ha infatti rivendicato con fermezza quelle parole e il contesto socio-geografico e culturale in cui sono nate. Ribadendo la sua convinzione che gli uomini siano i "capibranco" e le donne quelle che si occupano della casa, ha avuto anche una punta di ironia: “Che dobbiamo fa’: dobbiamo lavare a terra noi?”.Il problema non risiede tanto nel capire se si trattasse di un "gioco televisivo", di una provocazione per far notizia o di una convinzione profondamente radicata. La questione è un'altra. Prima di tutto, è difficile immaginare che Scamarcio, data la sua posizione e il suo stile di vita, non abbia un aiuto domestico remunerato che si occupi delle faccende di casa. Tuttavia, con le sue affermazioni, non ha esitato a strizzare l'occhio ai “maschi” all'ascolto, legittimando atteggiamenti di superficialità e scaricando responsabilità che dovrebbero essere condivise su una “femmina” telespettatrice che no, probabilmente non può pagarsi alcun aiuto domestico. E così che si dà un nuovo piccolo bocconcino ad alimentare il mostro culturale per cui lasciare i piatti nel lavandino è un gesto di virilità e lavarli significa trovarsi improvvisamente dotati di metaforica vagina.
Infine, c'è un altro episodio che ha acceso il dibattito in questi giorni, quello di Leonardo Caffo, filosofo e scrittore invitato a partecipare alla fiera nazionale della piccola e media editoria Più libri più liberi da Chiara Valerio, scrittrice, intellettuale e curatrice dell'evento. Caffo è attualmente imputato in un processo per presunti maltrattamenti e lesioni nei confronti della ex compagna. La sua presenza alla fiera – dedicata quest'anno alla memoria di Giulia Cecchettin, ammazzata dal suo ex fidanzato Filippo Turetta l’11 novembre 2023, e di Giacomo Gobbato, ammazzato il 21 settembre 2024 per difendere una donna che era stata aggredita – ha suscitato forti polemiche e sollevato interrogativi non solo sull'opportunità di ospitare una persona coinvolta in un'accusa così grave, ma di farlo in un contesto dichiaratamente volto a promuovere la lotta contro la violenza di genere perché, come si legge nel comunicato di presentazione, “la violenza sulle donne non riguarda solo le donne ma riguarda tutti noi”.
Di fronte alle contestazioni, Caffo ha deciso di ritirare la sua partecipazione augurandosi “un giusto corso delle cose”, speranzoso di poter tornare in futuro “a fare cultura insieme in modo libero e rispettoso”. Chiara Valerio ha risposto rispettando la decisione di Caffo, ma mantenendo valido l'invito e affermando che sarà lei stessa a presentare il suo saggio durante la fiera, appellandosi al principio di presunzione di innocenza: “Come dice la Costituzione Italiana, Leonardo Caffo è, a oggi, incensurato”. Valerio ha sottolineato l'importanza di lasciare che lo spazio pubblico sia un luogo di dialogo e confronto, anche su temi controversi.
Tuttavia, questa posizione ha attirato critiche da parte del mondo femminista e non solo. L'episodio riflette una tensione complessa: se da un lato il diritto di parola è un principio fondamentale, dall’altro esiste anche il diritto di esprimere dissenso. I principi costituzionali che tutelano la dignità e i diritti di ogni individuo non sono messi in discussione, ma la situazione solleva interrogativi sul buon senso in contesti così delicati. Non si tratta di negare spazi di espressione, ma di riconoscere l'importanza di sostenere e credere alle voce delle donne quando, contro un sistema solido e difficile da scalfire fatto di legami, influenze e pressioni sociali, tentano di farsi sentire. Il principio del "ti credo, sorella" dovrebbe poter trovare applicazione ovunque, pena il rischio di svuotare di significato atti politici che ambiscono a rappresentare, invece, cambiamenti concreti. In un contesto come questo, c'è chi si chiede se ci fosse spazio per una maggiore attenzione da parte di Valerio, figura autorevole e stimata nel panorama culturale.
L'impegno quotidiano per preservare il senso
Torniamo al punto da cui siamo partiti: il 25 novembre che rischia, ma non può e non deve diventare una casella sul calendario dei social media manager di politici, istituzioni e via dicendo. Attualmente, in Parlamento giacciono circa ottanta proposte di legge, molte arrivate da FdI e Lega, che mirano a istituire giornate dedicate a ricordare o celebrare temi e argomenti più disparati. Tra queste, alcune iniziative lasciano leggermente perplessi, come la proposta di istituire – e non a Natale, ma in luglio – la Giornata nazionale del panettone italiano, avanzata dalla deputata di Fratelli d'Italia Daniela Dondi. C'è, poi, la proposta di Giornata nazionale dei figli d'Italia (con premio in denaro), quella della scrittura a mano, della cultura motociclistica, della ristorazione, della celebrazione del calendario gregoriano… Il senatore Peppe De Cristofaro di Alleanza Verdi - Sinistra ha commentato con ironia amara: “Fra un po' non ci sarà più spazio in calendario per istituire alcuna giornata e bisognerà inventarsi le mattinate, i pomeriggi e le sere”. Infine, ha sottolineato il vero pericolo: l'eccesso di ricorrenze rischia di svuotare di significato quelle davvero importanti.
Il 25 novembre, Giornata Internazionale per l'Eliminazione della Violenza Contro le Donne, è importante. E non possiamo lasciare né che venga relegata a semplice tappa annuale né che il discorso da cui nasce e muove venga svuotato di senso e significato perché c'è chi è incapace di tradurlo in azione politica, sociale, mediatica, culturale. Per evitare che tutto venga assorbito in un rumore di fondo fatto di celebrazioni sterili e hashtag di tendenza per un giorno, per far sì che la funzione di questa Giornata non si esaurisca nell'indignazione a tempo determinato o in un automatismo della comunicazione e dei media, possiamo fare solo una cosa: renderla fulcro di un discorso quotidiano privato e pubblico, e di un fare continuo e costante, chiaramente volto a scalfire il sistema che rende possibile la violenza contro cui ci esprimiamo oggi e sempre.
Il 1522 è il numero gratuito da tutti i telefoni, attivo 24 ore su 24, che accoglie con operatrici specializzate le richieste di aiuto e sostegno delle vittime di violenza e stalking. Per avere aiuto o anche solo un consiglio chiama il 1522 oppure apri la chat da qui.
(Immagine in anteprima: frame via YouTube)
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