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Elezioni americane e social network: cosa ci insegna la storia dei troll russi

6 Novembre 2017 19 min lettura

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Elezioni americane e social network: cosa ci insegna la storia dei troll russi

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È il luglio 2010 e il vento delle "primavere arabe" sta per soffiare potente sull'opinione pubblica. Dopo la "Twitter revolution" appena conclusasi in Iran, il contagio innescato dai social media – il nuovo strumento per esportare la democrazia – sta per estendersi nei mesi seguenti a tutto il Medio Oriente.

Hillary Clinton, all'epoca Segretario di Stato della prima amministrazione Obama, ne è convinta: sono loro il perno dell'"arte di governare nel XXI secolo". Un potente strumento di politica estera e diplomazia. Il volto contemporaneo del soft power che dovrebbe democratizzare il mondo con la forza della cultura, delle idee e della propaganda, piuttosto che con quella delle armi.

In quell'estate rivoluzionaria accadono strane cose in un'altra isola di rivoluzionari: Cuba. Dal nulla appare un social network che ricorda Twitter, e gli fa il verso fin dal nome, "ZunZuneo", un'espressione gergale, ricorda l'Associated Press, per indicare il cinguettare dei colibrì dell'isola. Poi ne appare un altro, rivelato nel 2013, chiamato "Piramideo".

L'obiettivo è simile in entrambi i casi: connettere i cittadini per incitarli alla rivolta contro il regime castrista. Il piano per "ZunZuneo", si legge nella documentazione del governo USA rivelata da AP, è partire dalla costruzione di una solida base di utenti tramite contenuti "non controversi", dallo sport alla musica. Da lì, una volta raccolte centinaia di migliaia di iscrizioni – in realtà, nel momento di massima gloria sono 40 mila – la piattaforma avrebbe iniziato a proporre contenuti politici per mobilitare smart mobs, folle indignate ad arte per scatenare una "primavera cubana".

Masse di manifestanti ignare di essere state solleticate scientificamente dall'interferenza di una potenza straniera. Perché il progetto dell'USAID, l'agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale, non deve assolutamente menzionare la propria paternità a stelle e strisce. Anzi, per meglio celare l'origine del social network, si decide di fare ricorso a un complesso sistema di scatole cinesi costruito tramite un conto bancario alle Cayman e l'assunzione di dirigenti a loro volta ignari.

Niente di particolarmente nuovo per un paese, gli Stati Uniti, che ha una lunga tradizione di tentativi di manipolazione occulta e sovvertimento di governi altrui. Uno studio pubblicato a settembre 2016 dal ricercatore del Carnegie Mellon, Dov H. Levin, scopre per esempio che tra il 1946 e il 2000 gli USA hanno cercato di interferire con le elezioni di paesi stranieri almeno 81 volte.

Si parla di agenti CIA che conducono campagne elettorali sotto copertura nelle Filippine negli anni '50, di leaking pilotati di notizie compromettenti sui marxisti Sandinisti del Nicaragua e più in generale di "diffusione di disinformazione o propaganda", "creazione di materiale per campagne politiche per candidati o partiti favoriti; dare o togliere aiuti; fare annunci pubblici che minacciano o favoriscono un determinato candidato".

L'Italia è nel ristretto gruppo di paesi in cui l'interferenza si sostanzia anche in larghe somme di denaro dispensate di nascosto, e – con il solo Giappone – in cui quei tentativi di interferenza si sono ripetuti per quattro tornate elettorali o più.

Propaganda sotto falso nome. Tecniche di occultamento dell'identità e dei flussi finanziari. Mobilitazione di masse. Organizzazione di proteste. Ricorso a informazioni di dubbia provenienza. Distrazione e seduzione impolitica come esca per progetti politici.

Gli Stati Uniti sul banco degli imputati, e non tra le vittime. I social media strumento di democrazia e non della sua distruzione.

Sembra di leggere l'attualità, solo al contrario.

Leggi anche >> Se le democrazie sono in pericolo non è certo colpa dei russi o dei social network

Scritte nei cieli di Facebook

Negli stessi mesi in cui gli USA soffiano sul vento della rivolta a mezzo social media, si conduce un'altra battaglia cruciale per comprendere ciò che sta accadendo in questi giorni. Mentre l'USAID studia le ultime mosse per lanciare il suo Twitter anticomunista, Google e Facebook si rivolgono alla Federal Election Commission (FEC), l'autorità indipendente statunitense che vigila sulla correttezza dei finanziamenti elettorali. Chiedono esenzione dalla norma che, per tutti gli altri mezzi di comunicazione di massa, impone che i messaggi pubblicitari a pagamento siano esplicitamente identificati come tali, e venga specificato chi li paga tramite un avviso, o disclaimer.

L'appiglio è un precedente del 2002, quando la commissione stabilì che pubblicità politiche inviate per messaggio di testo, avendo un limite all'epoca di 160 caratteri – all'incirca la dimensione di un tweet – non avrebbero dovuto sottostare all'obbligo di trasparenza.

Otto anni più tardi, il colosso di Mountain View chiede e ottiene che la stessa eccezione si applichi alle pubblicità sul motore di ricerca. Il 26 aprile 2010 Facebook adotta la stessa linea, con una lettera che sostiene che anche le pubblicità sul social network debbano essere escluse dalla regolamentazione, perché paragonabili agli adesivi di propaganda elettorale, o alle scritte nel cielo. "Impraticabile" è la parola chiave: non ci sono abbastanza caratteri per ospitare dettagli sul mandante del messaggio, le ads sono troppo piccole. La FEC si spacca in due, e lo rimarrà – nonostante i dubbi crescenti – fino a oggi.

Tradotto: quando i due colossi tecnologici hanno avuto l'occasione di dotarsi di norme di basilare trasparenza per i messaggi politici a pagamento sulle proprie piattaforme, si sono attivamente adoperate affinché ciò non accadesse. Vincendo.

Trollare la democrazia, una pubblicità alla volta

Chissà che sarebbe accaduto se invece avessero perso la loro battaglia per l'opacità. Probabilmente giornalisti, centri di ricerca e autorità avrebbero avuto strumenti in più per accorgersi molto prima del multiforme tentativo russo di dividere l'opinione pubblica USA e influenzare l'esito del voto. E, magari, provare a contenerne la portata, come accaduto in Francia e Germania.

La storia, tuttavia, va diversamente. Così, quando la rivista TIME lo scorso maggio per prima scrive che "ufficiali dell'intelligence hanno scoperto che gli agenti di Mosca hanno comprato pubblicità su Facebook per colpire segmenti specifici della popolazione con la loro propaganda", il social network non dispone ancora di alcuno strumento di trasparenza per far comprendere se sia vero o meno e con quali proporzioni. L'azienda è così costretta a dichiarare, e ripetere, di non avere prove, per poi smentirsi dopo l'estate.

Servono le richieste del procuratore speciale Robert Mueller, e delle commissioni parlamentari del Congresso, perché Facebook – così come Google e Twitter – guardi meglio nei suoi database e trovi finalmente traccia delle attività russe sulla propria piattaforma pubblicitaria.

A darne notizia è il Washington Post, a cui segue immediatamente la conferma del Chief Security Officer di Facebook, Alex Stamos. Si parla di 100 mila dollari spesi in circa 3 mila pubblicità da 470 profili "inautentici" da giugno 2015 a maggio 2017 che risultano, secondo Stamos, "affiliate l'una all'altra" e riconducibili all'Internet Research Agency, la celebre "troll farm" immortalata per la prima volta da Adrian Chen in un ritratto sul New York Times Magazine.

Le pubblicità non vengono inizialmente rivelate al pubblico, e ancora oggi disponiamo solo degli esempi mostrati dai membri del Congresso durante le udienze tenutesi il 31 ottobre e il 1 novembre. Ma inizialmente il punto è che si tratta di messaggi personalizzati, tarati sulle preferenze politiche e ideologiche dei singoli elettori. Le ads si tingono così di un sinistro "buio" e diventano "dark ads", pubblicità politiche modulate – anche decine di migliaia di volte ciascuna – per colpire esattamente le corde sensibili di ogni membro dell'elettorato. Soprattutto, visibili solo al bersaglio: per tutti gli altri, non esistono e non sono mai esistite.

Nessuno sa chi le paga, quante sono, a quali specifiche categorie di soggetti vengono mirate, per quanto. Sono come scritte nel cielo, del resto: scompaiono prima di essere afferrate. Vale per quelle di provenienza russa, ma anche per le campagne di Clinton e Trump. Con una differenza: entrambe, insieme, costituiscono un investimento di 81 milioni di dollari sul solo Facebook. Altro che i 100 mila russi, scrivono i ricercatori Shannon McGregor e Daniel Kreiss in un paper pubblicato a ottobre.

Il vero problema è che la pubblicità politica personalizzata sui social viene anche dalla politica legittimamente condotta, non solo da quella perversa e manipolatoria dei troll di un nemico straniero. Ed è dunque, molto più pervasiva. Specie se sono gli stessi staff ad avere il supporto diretto, embedded, dei tecnici di Facebook, Twitter, Google. Se sono loro ad adoperarsi attivamente per massimizzare la viralità di quei messaggi.

Non solo: in seguito, nuovi annunci di Facebook fanno comprendere che 80 mila post, capaci di raggiungere un terzo dell'elettorato statunitense, vengono dall'organic content. Da contenuti, cioè, non pubblicitari, non a pagamento: i normali post che leggiamo sul News Feed insieme alle foto e ai pensieri di amici e familiari. È qui che si compie la stragrande maggioranza dei delitti a mezzo propaganda, ammesso di delitti si tratti.

Washington contro Silicon Valley contro Cremlino

La mancanza di strumenti di trasparenza diventa presto fonte di ogni tipo di complotto. Facebook ha cospirato o quasi con la Russia per interferire nel voto USA; Facebook – lo stesso che aveva riempito piazza Tahrir e rovesciato il regime tunisino – ha eletto Trump e distrutto la democrazia; Washington deve domare il purosangue Silicon Valley, perché improvvisamente, invece di correre verso una meta di libertà connessa, si è messo a galoppare a tutta forza verso nuovi autoritarismi. Democratici e repubblicani, divisi su tutto, cominciano a concordare su una cosa: i colossi tecnologici, oasi per libertari e "capitalisti della sorveglianza", vanno ora imbrigliati tra le maglie della legge.

Lo scontro è senza precedenti, e si serve perlopiù di ampie boccate di fumo da soffiare sugli occhi dell'elettorato e dell'intellighenzia "liberal", ancora sotto choc per la sconfitta di novembre, oltre che della rabbiosa caccia di un capro espiatorio – la tecnologia – che impedisca ogni autoanalisi ed elaborazione politica del lutto.

Ma un risultato positivo si produce ugualmente: per una volta, le piattaforme – sotto pressione, e il ricatto di regole punitive – si decidono a condurre inchieste interne reali, non a uso pubbliche relazioni, che cominciano a gettare un po' di luce sul funzionamento dei loro sistemi pubblicitari, e su quanto sia semplice sfruttarli per manipolare l'opinione pubblica.

Si scopre così che l'affaire russo riguarda 2.700 profili Twitter, non i 200 ipotizzati poco prima dall'azienda stessa; che i canali YouTube arruolati nella diffusione della propaganda del Cremlino sono 18; che gli utenti raggiunti su Facebook sono 10 milioni, anzi 126 milioni, si corregge il legale del social network, Colin Stretch, durante le udienze.

Si scopre soprattutto come esattamente si sia strutturata la campagna psicologica dei troll russi. In alcuni casi, si spinge l'elettorato di Clinton a votare con un tweet, facendogli credere che sia una forma valida del voto. In molti si tende a dividere una cittadinanza già estremamente polarizzata, andando a colpire proprio i gangli emotivamente nevralgici della società lasciati scoperti da media e politica.

Anche impersonificando gruppi di attivisti già esistenti che organizzano manifestazioni pro e contro migranti e musulmani, pro e contro Trump. Per i diritti degli afroamericani e per quelli dei poliziotti accusati di ridurli in cenere.

Si invocano le questioni LGBT e insieme gli istinti dei fondamentalisti cristiani, per cui dipingere Hillary come un demone può valere un "mi piace" a Gesù-Trump.

In Texas si soffia sulle tentazioni indipendentiste e l'orgoglio sudista; in Michigan e Wisconsin, stati in bilico, si concentra il fuoco della propaganda per sedurre le poche migliaia di votanti che possono fare la differenza.

E naturalmente si diffondono panzane terrificanti, come l'ex candidato presidenziale repubblicano, John McCain, a tavola con il leader di ISIS, Abu Bakr al-Baghdadi, o la notizia – falsa – che Barack Obama sia un agente della CIA.

Instagram non è immune, così come Pinterest o perfino Pokémon Go, il videogioco in realtà aumentata che ha riempito le casse di Niantic e Nintendo: tramite Tumblr, i troll russi chiedevano ai giocatori di addestrare e cacciare le creature in luoghi simbolo della violenza della polizia sulle minoranze nere, così da creare inusuali flash mob. Il premio, dei buoni spendibili su Amazon.

Vengono creati stupidissimi bot, – e il team dell'Università di Oxford che studia la "propaganda computazionale" lo sa da tempo – ma anche molto meno stupidi profili di influenti opinionisti dalla lingua tagliente, ma il corpo di un fantasma; persone mai esistite, come Jenna Abrams, la provocatrice a tinte complottiste e xenofobe da 70 mila follower e infinite comparsate sui media di ogni lato dello spettro politico – o meglio, il personaggio fittizio così creato dai geni maligni dell'IRA.

Quanto alle piattaforme, sono i loro stessi sistemi – in larga parte automatizzati – di assegnazione degli spazi pubblicitari a facilitare la vita a propagandisti di ogni sorta di estremismo. ProPublica lo aveva scritto già a ottobre 2016: su Facebook si può mettere un annuncio pubblicitario per una casa escludendo esplicitamente che raggiunga persone con "affinità etnica" ad afroamericani, ispanici e asiatici (interessante la risposta, in perfetta neolingua, della piattaforma: "razza" e "affinità etnica" non sono lo stesso!).

Ma il rumore suscitato dal caso delle "dark ads" russe, giustificato o meno, porta a ulteriori scoperte. La stessa Propublica scrive, nel pieno della bufera, che tra le categorie selezionabili come bersaglio ci sono "odiatori di ebrei" e nostalgici nazisti. Slate ci aggiunge immediatamente islamofobi, fan del Ku Klux Klan e razzisti di ogni sorta; il Daily Beast e BuzzFeed che lo stesso è possibile su Twitter e Google.

Le pubblicità mirate a questo modo vengono effettivamente comprate, e approvate dal sistema a volte entro un minuto, quasi sempre entro quindici. Anzi, spesso sono gli algoritmi stessi a suggerire categorie naziste.

Le aziende cercano di correre ai ripari, ma faticano a eliminare il problema. Sheryl Sandberg, Chief Operating Officer di Facebook, si lascia scappare che l'azienda non aveva mai inteso quell'uso per la sua tecnologia – quella, per intenderci, che l'ha trasformata in un gigante da 520 miliardi di dollari – né l'aveva mai "anticipato".

Troppo poco. In compenso, il quadro è più chiaro: i modi per fare propaganda, e farla di nascosto, sono molti, e si integrano a meraviglia.

È questo insieme di hacking (durante la campagna elettorale, ai danni del Comitato dei Democratici), automazione, bugie e uso sapiente dei meccanismi di personalizzazione pubblicitaria che stanno alla base dei modelli di business dei colossi web a far parlare di una strategia propagandistica "sofisticata", forse come mai prima d'ora sul digitale.

La conclusione è inequivocabile: l'assunto che pubblicità commerciale e politica siano la stessa cosa, di derivazione puramente televisiva ma abbracciato esplicitamente da tutte le piattaforme tecnologiche, ha prodotto un sistema facilmente scalabile.

Basta gettare poca benzina – il denaro – su tutto, e tanta su ciò che prende fuoco e diventa virale. Basta qualche decina di migliaia di dollari.

Ma è proprio vero?

E nella misura in cui lo è, che fare?

Propaganda sulla propaganda

Non serve ripercorrere l'intero "Russiagate" per farsi delle domande fondamentali circa l'azzardata presunzione che un manipolo, per quanto raffinato, di troll sui social media basti a decidere le elezioni di un paese il cui leader ancora si professa tale nientemeno che per il "mondo libero". Basta la vicenda delle "dark ads" emersa questo autunno, che le esemplifica tutte.

Prima domanda: sappiamo quanto sono efficaci davvero quei messaggi pubblicitari russi, quanti voti realmente spostano? No, difficile a dirsi. Sappiamo che una buona fetta dell'elettorato vi è stato esposto, e che i messaggi non erano messaggi qualunque – qualche effetto, insomma, l'avranno avuto. Ma nessun dato finora prodotto dimostra che abbiano giocato un ruolo determinante, né tantomeno più determinanti di quelli, altrettanto personalizzati ma molto più numerosi, delle campagne di Trump e Clinton. O di quelli televisivi, per esempio.

Non conosciamo bene il mezzo, insomma. E, senza l'aiuto delle piattaforme, difficile lo conosceremo meglio. Le premesse non sembrano far presagire alcunché di buono: quando Jonathan Albright, del Tow Center for Digital Journalism, ha provato a scavare nei meandri di Facebook, mostrando cifre da capogiro – 340 milioni – per le condivisioni dei post russi, l'azienda ha risposto declassando la sua base di dati a bug del sistema, così da rimuoverla immediatamente dallo spazio pubblico, e rendere l'esperimento non replicabile.

Ma anche il fondamento stesso della questione, che esistano cioè profili "riconducibili", "collegati" o di "emanazione" del Cremlino: come è stato determinato, dalle diverse piattaforme, quel legame? Con quali criteri, e quali evidenze?

Julian Assange, da tempo – a torto o ragione – catalogato dai "liberal" americani come un misto tra un guastatore e una spia di Putin, è bravo a mostrare con un paradosso quanto deboli siano le basi su cui posano i dati e le conclusioni che ne stiamo traendo:

Il punto non è necessariamente mettere in questione che si tratti, effettivamente, di un'operazione del Cremlino: i contatti dimostrati tra pesi massimi dell'entourage di Trump e soggetti russi sono ormai molteplici. Il punto è invece apprezzare quanto poco interessi, e sia possibile, scavare al fondo di ciò che possiamo saperne. Fidarsi delle piattaforme? Le continue revisioni delle loro stesse stime suggeriscono non sia una buona idea.

Più in generale, l'isteria collettiva – all'interno della bolla "liberal" del mondo, al di fuori non pare interessare più di tanto – intorno all'ingerenza russa a mezzo "fake news", "bot politici" e "dark ads" sembra rispondere più a un dettato propagandistico sulla propaganda del Cremlino, che alla reale volontà di comprendere un fenomeno nuovo, sì, ma da inserire con il giusto peso tra le molteplici cause che hanno provocato un sisma come Trump – ma non garantito, e non ce ne è stato spiegato il motivo, una presidenza a Marine Le Pen.

Una propaganda di cui non è data sapere l'origine, ma di cui sono perfettamente chiari i comandamenti. Primo, "fake news" e affini sono strumenti del demonio populista, anti-establishment e anti-sistema; secondo, quell'Idra dai volti di Putin, Farage, Salvini, Le Pen e simili, mira in tutto il mondo Occidentale a sostituire la democrazia con autoritarismi in stile moscovita, ed è pronta a farlo con sole armate virtuali. Terzo, il mostro può vincere - l'hanno dimostrato Brexit e le presidenziali USA. Quarto, con quelle stesse armi, il mostro può vincere ovunque.

Può succedere a tutti. Puoi essere tu il prossimo.

In sostanza, è lo stesso che sostiene Matteo Renzi quando, in una recente intervista a La Stampa, afferma che le fake news sono l'arma del Movimento Cinque Stelle contro il Partito Democratico, esattamente come Hillary la vede in mano a Trump, Macron a Le Pen, Merkel all'estrema destra dell'AfD, e via dicendo.

Anche ciò che quella ormai palese forma di propaganda "liberal", "pro-establishment" e "pro-sistema" non dice è lo stesso: che anche i "buoni" usano le "dark ads", i bot, le bugie, la propaganda. Anzi, quando erano loro a trarne maggiore giovamento – come nel caso delle due campagne social di Obama, caso di studio per un decennio, prima che arrivasse il 2016 a spazzarlo via – non si chiamava nemmeno "propaganda": si chiamava disruption. Di nuovo, rivoluzione.

Illuminare le "dark ads"

E tuttavia, il che fare? resta. Perché, come scriveva la commissaria democratica della FEC Ann M. Ravel già nell'ottobre 2014, "alcuni dei miei colleghi sembrano credere che lo stesso messaggio politico che richiederebbe disclosure (cioè soddisfare obblighi di trasparenza, ndr) se trasmesso in televisione, vada invece categoricamente esentato dagli stessi requisiti se diffuso su Internet. Come questione politica, semplicemente non ha senso".

Il senatore Mark Warner twitta l'immagine simbolo della due giorni di udienze con i colossi web: le "dark ads" russe vengono rivelate al pubblico stampate e ingrandite

I colleghi avrebbero fatto bene ad ascoltarla. Non è accettabile che la rete sia, questa volta davvero, un "far west" in cui gli strateghi della comunicazione politica possono architettare le più astute scorribande senza nemmeno doversi coprire il volto - restando cioè anonimi per legge.

Il problema è capire come curare, una volta individuata la malattia. Prima di tutto, perché, come detto, non sappiamo quanto è grave il male. In secondo luogo, perché le piattaforme, Facebook in testa, hanno reagito alle pressioni mediatiche e politiche anticipando media e politica. Non appena i senatori Mark Warner ed Amy Klobuchar hanno cominciato a parlare di una proposta di legge per regolamentare la materia, quello che oggi passa sotto il nome di "Honest Ads Act", Mark Zuckerberg ha escogitato una diretta Facebook a reti unificate, ripresa anche dalla CNN, in cui ha annunciato che la sua piattaforma ne soddisferà svariati (ancora ipotetici) requisiti, perfino prima che gli stessi proponenti li avessero chiari in mente.

Zuckerberg non si limita a ridipingere le pareti: il proposito è ricostruire l'abitazione. Promette di "creare un nuovo standard per la trasparenza nella pubblicità politica online", e in particolare di rendere visibili a tutti i contenuti di ogni campagna pubblicitaria personalizzata "in corso", specificando chi li ha pagati.

Presto Twitter e Google seguono a ruota, in una gara al rialzo per la trasparenza che sembra avere eletto il tema a questione di marketing e in particolare di gestione della brand reputation. Ma il punto è sostanziale: i colossi tecnologici, gli stessi che hanno combattuto attivamente contro la trasparenza fino a ieri, oggi sgomitano per superarsi in senso opposto.

Serve a prevenire e impedire misure di legge? Molti lo sospettano, anche se alcuni – tra cui l'uomo che ha contribuito a inventare la pubblicità personalizzata di Facebook così come la conosciamo, Antonio Garcia Martinez – notano che in realtà per le compagnie avere delle regole chiare sarebbe una benedizione, oltre che il modo perfetto per derogare a mancanze normative una qualunque ulteriore falla.

Si potrebbe infine sostenere che le misure di autoregolamentazione, diversamente dalle leggi, valgono istantaneamente in tutto il mondo, perché si applicano a ovunque operi l'azienda. La replica, tuttavia, è semplice ed efficace: se si parla delle regole del gioco democratico, non possono essere affidate ai capricci e alle lungaggini – si parla di aggiornamenti a regime a metà 2018 – di soggetti privati, legittimamente interessati più al loro profitto che al bene comune (anche se naturalmente Zuckerberg, presentando i risultati finanziari record dell'ultimo trimestre, sostiene il contrario: «Proteggere la nostra community è più importante di massimizzare i nostri profitti»).

Dalla trasparenza all'habeas data

Restano svariate questioni aperte. Nelle udienze, i membri del Congresso sembrano desiderare tentacoli della politica estera USA, piuttosto che piattaforme tecnologiche per quanto possibile neutrali. E no, non è un bene, anche perché, come visto, comporta operazioni simili a quelle del Cremlino.

E poi, mentre Silicon Valley e Washington stendono un nuovo contratto sociale adeguato a quella che Hillary Clinton, sì sempre lei, oggi definisce "una nuova Guerra Fredda", gli altri – a partire dall'Italia – che possono fare? Maggiore è il ruolo giocato dalla propaganda digitale, più grave è l'assenza di un intervento tempestivo anche al di fuori dei confini statunitensi.

Del resto, concentrarsi sulla sola Russia è troppo semplice, e riduttivo. Nelle udienze è emerso chiaramente che le piattaforme non hanno alcun controllo, al momento, sull'identità dei propri acquirenti pubblicitari, né sulla correttezza dei criteri di personalizzazione dei messaggi.

E chi ci garantisce che Cina e Corea del Nord, solo per citare due esempi finiti spesso all'attenzione dei media per operazioni di hacking e propaganda online, non siano altrettanto attivi? Anche questa domanda è stata schivata in udienza. Non abbiamo nemmeno chiaro se l'interferenza straniera in un processo elettorale altrui viola o meno le condizioni di utilizzo delle piattaforme, come dimostrato dal silenzio dei legali dei colossi tecnologici – i leader non hanno voluto prendervi parte – di fronte alla domanda del senatore repubblicano Marco Rubio.

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Ancora, se la regolamentazione delle "dark ads" è questione seria e importante, il rischio è che nella foga di regolare tutto si inserisca anche qualche misura liberticida – i mesi passati ne forniscono un catalogo sterminato, anche in Italia – per criminalizzare la propaganda, multare le "fake news" (come in Germania), rendere Facebook e Google editori, o imporre impossibili obblighi di trasparenza algoritmica che finirebbero per distruggerne la fonte primaria di vantaggio competitivo senza dare realmente potere ai cittadini connessi.

Per farlo, bisognerebbe affrontare la questione, ancora più delicata e complessa, della proprietà dei dati. L'habeas data di cui luminari come Stefano Rodotà si sono fatti portavoce per anni, e che, questo sì, prosciugherebbe i bacini a cui attingono i pubblicitari di tutto il mondo: il mare sconfinato di informazioni di cui dispone ciascuna di queste piattaforme, e la possibilità di usarle, venderle, combinarle e analizzarle sperimentando a piacimento su ciascuno di noi l'effetto che fa. Basta cambiare il modo di presentazione di un badge che dice agli amici su Facebook "ho votato" per avere una diversa predisposizione al voto, e portare più o meno persone alle urne. Lo sappiamo da studi condotti e commentati già in era obamiana: perché la politica allora non fece nulla?

Perché spirava il vento della propaganda sulle primavere in Iran e nel mondo arabo. E non c'è niente di peggio di un propagandista che si convince della propria propaganda.

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