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Lo smartphone a scuola: esperienze innovative per formare cittadini digitali consapevoli

9 Settembre 2024 15 min lettura

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Lo smartphone a scuola: esperienze innovative per formare cittadini digitali consapevoli

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“Dovremo ricalibrare tutte le nostre attività perché gli smartphone sono proprio al centro del nostro metodo, di quello che proponiamo”. Nicola Bruno è un giornalista molto esperto di questioni digitali che negli ultimi anni si è dedicato a sviluppare, con il supporto di consulenti scientifici e pedagogici, una serie di progetti formativi per insegnanti delle scuole medie e superiori incentrati proprio sull’educazione a una digitalizzazione consapevole. Il progetto, Open the box, avviato nel 2020, anno del primo lockdown, e basato sulla pratica della formazione di formatori, ha raggiunto più di 8000 docenti, di cui 3000 hanno completato tutta la formazione prevista, e attraverso loro almeno 80.000 studenti hanno svolto le attività proposte. “Questi sono i numeri certificati” ci spiega al telefono, “perché alla fine del percorso, quando i docenti poi fanno le parti pratiche in aula, gli studenti devono compilare un questionario. Sappiamo che ci sono anche molti docenti che usano i materiali inserendoli in attività che costruiscono loro e che non necessariamente seguono tutte le fasi che si concludono con il questionario, per cui stimiamo di essere arrivati ad almeno 100mila studenti coinvolti.”

Open the box, progetto costruito da Dataninja, azienda specializzata nella formazione digitale, propone attività in tre campi chiave: lotta alla disinformazione e dunque alle cosiddette fake news; uso dei dati, loro visualizzazione e utilizzo nella costruzione di conoscenza e infine, dall’ultimo anno, utilizzo dell’intelligenza artificiale generativa per la costruzione di contenuti di qualità originali. Il metodo impostato da Bruno e dai suoi colleghi, che hanno vinto nel 2023 lo European Digital Skills Awards nella categoria Digital Education, assegnato dalla Commissione Europea ai migliori progetti nel settore delle competenze digitali per l’educazione, è quello dell’inquiry based learning. Si tratta di un metodo molto utilizzato nelle scuole anglosassoni, ispirato dal lavoro del pedagogista americano John Dewey, e diffuso più di recente anche in Europa, per spinta della Commissione Europea che dal 2007 promuove l’applicazione di una pedagogia innovativa, descritta nel cosiddetto rapporto Rocard, dal nome dell’europarlamentare che ne ha curato la stesura. Si parte da una domanda di ricerca, dalla formulazione di un problema che spinge gli studenti a lavorare, in modo collaborativo, per rispondere, risolvere, trovare soluzioni, sviluppare conoscenza originale. Una sorta di inchiesta sul campo. Un approccio molto distante da quello frontale e nozionistico che è più tradizionalmente adottato ancora in molte scuole italiane.

Ad esempio, ci racconta ancora Nicola Bruno, sul tema della disinformazione ai docenti vengono forniti articoli o video, che contengono informazioni sbagliate, scorrette, inesatte. Uno di quei contenuti che, per come sono costruiti, diventano virali, condivisi rapidamente e senza verifica, e ai quali tanti ragazzi hanno accesso proprio perché sul proprio smartphone. In classe, sotto la guida dei docenti, i ragazzi lavorano sulla ricerca di fonti affidabili, di informazioni che siano basate su dati e fatti certificati, e via dicendo, facendo non tanto un debunking ma, al contrario, un prebunking, e cioè imparando a riconoscere i meccanismi attraverso cui la disinformazione viaggia e a costruire al contempo contenuti di qualità con la stessa potenzialità. Lo fanno usando i propri telefoni, e in modalità collaborativa perché questo è il modo in cui fruiscono delle informazioni, e l’idea è che attraverso questo approccio imparino a gestire il proprio smartphone con maggiore consapevolezza. Si dividono i compiti, e lavorano collettivamente arrivando poi a mettere insieme i propri risultati. E anche questo è importante, un po’ perché è così che si impara l’arte del lavoro di squadra, e un po’ perché questa modalità aiuta a valorizzare anche ragazzi che per esempio possono avere meno competenze linguistiche ma magari un’ottima capacità di uso di immagini, video, e via dicendo. 

Non è casuale che Open the box sia particolarmente apprezzato dai docenti delle scuole medie, quelle stesse scuole in cui alcuni problemi di integrazione si manifestano in modo massiccio, a seconda delle situazioni territoriali. “In classi dove c’è un’elevata percentuale di ragazzi di provenienza non italofona, o ragazzi che arrivano da situazioni di marginalità, ad esempio, questo metodo è preferibile perché li aiuta a integrarsi e a contribuire, rispetto alle attività tradizionali basate su competenze acquisite in anni di scuola frontale”, continua Bruno. Anche lavorare con l’IA generativa, ad esempio, imparando a fare le domande corrette a ChatGPT (lavorando opportunamente sul prompt design) o utilizzando strumenti per riconoscere se immagini e video sono originali o prodotti con IA, aiuta gli studenti a misurarsi con questa tecnologia che sta diventando innegabilmente sempre più presente anche nei processi lavorativi, sociali, economici. 

Tutto questo non si può fare allo stesso modo con un tablet o un PC, secondo Nicola Bruno. “Perché il perno centrale di questo metodo è utilizzare esattamente lo strumento che i ragazzi hanno in tasca, quello che prendono in mano con più frequenza. Aggiungiamo che le app da smartphone non sono le stesse che troviamo per i tablet e possono essere anche molto diverse in termini di design e user experience rispetto ai siti web accessibili da pc.” In altre parole, quel lavoro di costruzione di conoscenza digitale, tanto auspicato non solo dal framework europeo ma anche dalla stessa circolare ministeriale, viene per così dire depotenziato se proprio lo strumento centrale non può essere utilizzato. 

“In un certo senso,” conclude Nicola Bruno, “il Ministero con questa scelta invece di lavorare per proteggere e formare davvero le generazioni più giovani dando loro strumenti di conoscenza e consapevolezza, se ne lava le mani e lascia che il problema vengo affrontato esclusivamente sul piano privato, all’interno delle famiglie.”

Esatto. Andando ad ampliare non solo il divario digitale tra chi poi a casa ha adulti di riferimento competenti e chi invece si trova magari di fronte persone ancora meno consapevoli dei problemi associati agli usi distorti e intensivi dei cellulari. E rischiando di fermare quel movimento, lento e ancora minoritario, di costruzione di una cittadinanza digitale che nella scuola dovrebbe poter vedere un alleato e non un soggetto che si chiama fuori. 

Proprio qualche giorno prima della pubblicazione delle circolazione ministeriale, sul sito di Agenda digitale le ricercatrici di INDIRE, l’Istituto Nazionale di Documentazione, Innovazione e Ricerca Educativa, Francesca De Santis e Giuseppina Rita Jose Mangione, pubblicavano un contributo piuttosto articolato sul ruolo sempre più centrale dell’alfabetizzazione e della consapevolezza della tecnologia “come dispositivo che, attraversando gli interventi di literacy, numeracy, data e digital literacy e citizenship, aiuta a creare una sinergia tra l’ambito umanistico e quello tecnologico”. Le ricercatrici dicono testualmente che “La consapevolezza che il digitale può essere frontiera etica e spazio di progettazione di una scuola innovativa e democratica aiuta a prendere le distanze da una posizione luddista e conservatrice e permette l’avanzare di visioni in grado di accelerare il cambiamento.” 

In particolare, De Santis e Mangione, sottolineano che le tecnologie digitali possano contribuire a “colmare il divario tra scuole urbane e situazioni educative “minori” soggette a rischi di iniquità educativa”, come le scuole situate in contesti territoriali periferici, di montagna, delle isole e delle aree interne del paese. Non si tratta di zone minoritarie, ma più isolate culturalmente e geograficamente, con classi spesso meno numerose e meno connesse, rispetto alle realtà urbane e periurbane. 

In queste zone, Indire ha lavorato molto con il Movimento delle Piccole Scuole, che utilizza la tecnologia digitale come perno di una serie di attività educative che permettono apprendimento diffuso e facilitano la connessione di chi ha più difficoltà di accesso all’educazione e alle tante opportunità culturali che ci sono in zone più popolate. Lungi dal voler promuovere una “visione tecnologico-centrica della didattica”, le sperimentazioni portate avanti da questa rete di piccole scuole puntano sull’ampliamento delle opportunità educative, anche attraverso applicazioni e interfacce costruite ad hoc e utilizzabili sui dispositivi disponibili e meglio connessi, a seconda delle situazioni. Che non di rado, lo diciamo avendone esperienza diretta e avendo lavorato molto sui dati della connettività, in scuole di montagna sono i cellulari, data la latitanza della larga banda in molte delle nostre zone alpine e appenniniche. All’interno del lavoro fatto con il supporto di Indire, c’è un progetto di classi in rete, per sostenere gli insegnanti nella progettazione e sviluppo di attività didattiche d’aula condivisa, in parte in presenza e in parte a distanza. Ci sono le palestre tecnologiche per i docenti, e una serie di attività che li supportano in un lavoro reso anche più complesso proprio dalla particolare situazione di isolamento. 

Perché, alla fin fine, la questione attorno alla quale giriamo è più o meno sempre la stessa. Gli insegnanti sono messi nella condizione di poter gestire al meglio la presenza e l’uso di strumenti digitali nelle classi? Sono stati dati alle scuole tutti i supporti utili a gestire le situazioni problematiche? Gli insegnanti hanno la capacità e le conoscenze per lavorare su progetti come quelli qui sopra raccontati, riuscendo a evitare che invece i ragazzi passino ore a scrollare sugli schermi, senza ascoltare, distraendosi e magari pure contribuendo a incrementare quello che con un termine ombrello potremmo definire cyberbullismo?

Il potenziale trasformativo e i rischi

Lo studio OCSE sugli scenari futuri citato nella prima parte di questo articolo lo dice chiaramente. L’avvento delle tecnologie digitali nella scuola doveva essere accompagnato da una idea trasformativa. Ci si auspicava che venissero utilizzate per modificare profondamente il modo di fare scuola, per supportare l’accensione di interesse, per incentivare la motivazione, personalizzare i percorsi di studio, rafforzare le esperienze collaborative, facilitando processi di co-costruzione di conoscenza. 

E invece, in larga parte, i dati OCSE e gli studi citati ci dicono che le tecnologie sono state inserite nello status quo con il ristretto orizzonte di velocizzare, aumentare le performance, rendere ancora più standard i processi di apprendimento e i percorsi. Insomma, l’uso della tecnologia non è stato trasformativo ma è quasi diventato, paradossalmente, fattore di conservazione e irrigidimento

Il rapporto OCSE indica ora una nuova opportunità, che è quella di rendere le applicazioni di intelligenza artificiale generativa uno strumento di potenziamento della capacità di apprendimento collaborativo, di scoperta, di indagine per gli studenti. Certo, dice l’OCSE, c’è il rischio concreto che, in assenza di una strategia e di una visione molto chiara oltre che di un netto aumento delle competenze dei docenti nel gestire questo processo, anche le AI finiscano con il diventare, ancor più degli strumenti digitali utilizzati finora, uno strumento di standardizzazione, che punta sulla personalizzazione dei processi solo in termini performativi, per ottimizzare la formazione secondo logiche più vicine a quelle industriali e ben lontane appunto da quell’esperienza creativa e liberatoria che può dare a ciascuno la possibilità di studiare, conoscere e crescere maturando una propria cifra, realizzando il proprio potenziale. Insomma, in altre parole, se le tecnologie digitali e pure quelle di IA sono impiegate come in un gioco a punti, per premiare sistematicamente un solo modo di apprendere, allora questa promessa di trasformazione rimarrà, ancora una volta, incompiuta. 

Un elemento interessante sottolineato dal rapporto OCSE è la centralità del rapporto umano nell’ambiente formativo. Tutti gli studi comparativi dimostrano che la comunicazione faccia-a-faccia ha un impatto di tutt’altro livello, ben visibile nelle relazioni tra docenti e discenti e tra pari, studenti e studenti. Se è evidente che le tecnologie digitali possono consentire a chi è in una situazione di disagio, marginalizzata, o anche solo fisicamente distante, la partecipazione effettiva ai percorsi formativi, la scuola rimane un luogo di socialità umana e l’incontro e lo scambio tra persone uno degli ingredienti fondamentali dei percorsi formativi. 

E qui veniamo al nocciolo della questione

Invece di concentrarci sui telefonini, gli sforzi dovrebbero puntare sul rendere gli insegnanti sempre più capaci e attrezzati per essere protagonisti, assieme ai propri studenti, di una arena formativa dove le tecnologie sono al servizio delle persone e non il contrario.

Se non c’è dubbio che l’uso del cellulare debba essere mitigato e commisurato, soprattutto nei primi anni di formazione di una persona, non è preferibile che questa consapevolezza, competenza, capacità venga costruita all’interno della scuola invece che essere lasciata alla discrezionalità del mondo familiare? Se è vero che la scuola è la comunità educante per eccellenza di una società democratica, allora risulta quanto meno bizzarro che proprio la scuola bandisca l’uso dello strumento che più facilmente troviamo nelle mani di una persona in età evolutiva. Anche perché in molti casi quello è l’unico strumento su cui quelle mani si poggiano. E insegnare a ragazzi e ragazze a usare quello strumento in modo positivo è senz’altro un compito cruciale di chi fa educazione oggi. Come si combina l’educazione a un utilizzo corretto dello smartphone in classe con l’impossibilità di portarlo in classe?

Certo, qui ci vogliono insegnanti molto capaci di lavorare attraverso l’ampio range di tecnologie disponibili, scegliendo di volta in volta, anche a seconda della necessità e delle caratteristiche del proprio gruppo classe, quali strumenti e applicazioni sono più utili da mettere in campo. E questo richiede un massiccio upgrade delle competenze tecnologiche, e ancor prima della cultura digitale, dei docenti stessi. 

Ma a che punto siamo?

Dall’avvio del PNSD, il Piano Nazionale Scuola Digitale nel 2007, come abbiamo ricordato anche qui su Valigia Blu, in un lungo articolo dell’aprile 2021, intitolato “La lentissima marcia per l’innovazione e la digitalizzazione della scuola italiana”, lo sviluppo di queste competenze è stato molto lento. Per anni la digitalizzazione pareva fare il paio con la presenza delle famigerate LIM,  in molti casi poi utilizzate come semplice sostituto di un proiettore. Anche perché, come pure abbiamo raccontato varie volte sempre qui su Valigia Blu, la gran parte delle scuole italiane erano prive di connessione a banda larga in tutte le classi, e dunque avere uno strumento digitale che non entra in rete è chiaramente come avere uno strumento spuntato. 

La digitalizzazione è andata avanti estremamente rallentata fino all’arrivo della pandemia. Ci sono stati diversi progetti e “azioni” come Cl@ssi 2.0, editoria scolastica, Scuol@ 2.0, e poi la nascita dei Poli formativi, quando alcune scuole sono diventate riferimento di sperimentazione e di formazione dei docenti per tutto il proprio territorio, poi la rete italiana di Avanguardie educative. Molte iniziative, poi solo in parte rinforzate dalla legge 107/2015, la Buona Scuola, che però spesso erano a bando, e che dunque finivano con il vedere le scuole capaci di scrivere progetti e muovere risorse sempre in prima fila, e le altre, ulteriormente afflitte da costanti riduzioni della spesa e da carenze ormai strutturali di personale, ad arrancare. Insomma, alla crisi pandemica del 2020 siamo arrivati con una situazione di profonda disuguaglianza, tanto che si è poi ampiamente parlato di povertà educative, una definizione ampiamente analizzata da diversi attori del mondo dell’educazione (qui una sezione dedicata al tema da Openpolis). 

Un punto chiave di debolezza di questo processo ventennale è che ci si è concentrati sulle competenze tecnologiche e sulla distribuzione di strumenti assai più che sul nutrire una cultura  capace di integrare il digitale nei percorsi formativi.

Dal 2020, complice il prolungato lockdown e la chiusura delle scuole, c’è stato quello che in molti non abbiamo esitato a definire quasi un salto quantico. La digitalizzazione, prima invocata e poi intrapresa per cause di forza maggiore, è dunque arrivata a uno stadio più maturo, anche se ancora in modo molto disomogeneo nel paese. Sono stati, per usare un termine molto concreto, sdoganati tutti gli strumenti digitali possibili, dai tablet ai cellulari. In più di un caso - rileggere le discussioni sulla Dad di quel biennio fa venire i brividi - abbiamo visto insegnanti costretti a fare lezione utilizzando i propri strumenti personali e studenti seguire quelle stesse lezioni allo stesso modo, sui propri cellulari. A valle di tutto questo, nonostante l’immenso sovrumano sforzo messo in campo dalle scuole, dagli e dalle insegnanti in primo luogo, quella della Dad è stata in larga parte archiviata come un’esperienza con molti limiti e forse con l’unico merito di aver comunque impresso una spinta all’acquisizione di maggiori competenze e conoscenze digitali anche nella classe docente, che oggi consente di prevedere opzioni diverse, non sempre ovunque e in modo omogeneo, ampliando però la possibilità di scegliere come fare didattica, come mantenere le comunicazioni tra scuola e studenti, tra scuola e famiglie, e via dicendo. 

Eppure, nonostante i tanti interventi, siamo ancora ben a metà del guado. È attivo in Italia un Osservatorio scuola digitale, avviato con la riorganizzazione del PNSD nel 2015, e che di anno in anno produce un report raccogliendo dati dai circa 8000 dirigenti che gestiscono tutti i numerosi plessi in cui sono organizzati gli istituti scolastici italiani. I dati dell’ultimo report dicono chiaramente che ancora metà delle scuole italiane sono connesse con ADSL, e l’accesso in banda larga è ancora disomogeneo sul territorio. Nella gran parte delle scuole, dispositivi come tablet o pc vanno condivisi tra gli studenti, soprattutto nel I ciclo, dato che le dotazioni sono migliori nel II ciclo. Ma, soprattutto, le competenze digitali dei docenti sono ancora profondamente disuguali, con ampie percentuali di docenti che non prendono parte ad alcuna formazione specifica in campo digitale. 

Oggi il quadro di riferimento sul tema è il piano Scuola Futura, elaborato sulla base del lavoro portato avanti fin dal 2017 dal Joint research center, il centro comune di ricerca della Commissione Europea su mandato della Direzione generale per l’educazione, i giovani, lo sport e che fa riferimento al sistema europeo per le competenze digitali dei docenti, denominato DigCompEdu”. 

Il DigCompEdu ambisce, leggiamo sul sito del piano, a “fornire un modello coerente che consenta ai docenti e ai formatori, appartenenti agli Stati Membri dell’Unione Europea, di verificare il proprio livello di “competenza pedagogica digitale” e di svilupparla ulteriormente secondo un omogeneo modello di contenuti e di livelli di acquisizione”. Insomma, l’idea è di utilizzare le risorse disponibili, e ora contenute anche nel famoso PNRR di cui si parla quotidianamente, per spingere a un uso sempre più consapevole e capillare del digitale in ambito educativo. 

Si torna a parlare, dunque, di formazione dei docenti, definendo in modo più preciso le aree di competenza e gli obiettivi. Il modello prevede una prima serie di competenze digitali utili ai docenti stessi nel proprio percorso professionale, per rispondere alle esigenze di organizzazione della scuola, collaborare con i colleghi di altre scuole, comunicare con le famiglie degli studenti. C’è poi una sorta di blocco centrale di competenze, definite ‘risorse digitali’, che servono a soddisfare quattro esigenze diverse:  individuare, condividere e creare risorse educative in formato digitale; gestire l’uso delle tecnologie digitali nell’insegnamento e nell’apprendimento; usare le tecnologie digitali nella valutazione; usare il digitale per favorire maggiore inclusione degli studenti migliorandone il coinvolgimento attivo. Infine, l’ultima area di competenza si traduce nella capacità di educare i propri studenti a un corretto uso delle tecnologie digitali, dal punto di vista tecnico ma soprattutto culturale. 

Il punto debole, ancora una volta, è però che non è prevista un’azione di formazione strutturata per i docenti. Di nuovo, ci si affida ai docenti stessi cui è demandata l’autovalutazione dei propri punti e livelli di forza e debolezza. Si propongono indicatori e descrittori, è vero, ma alla fin fine l’autonomia si traduce in una responsabilità lasciata  in carico ai singoli docenti cui viene poi chiesto di scegliere e intraprendere percorsi formativi per passare dal livello base di Novizio a quello, più alto, di Pioniere, passando da Esploratore, Sperimentatore, Esperto e Leader. La terminologia, apprendiamo, è ispirata alla tassonomia dei sei livelli di padronanza di Bloom. I percorsi formativi che si possono svolgere negli istituti Polo (quelli che fanno da epicentro formativo a livello territoriale per diversi altri istituti della zona) si trovano sul sito, sono tantissimi, ma, come è facile verificare cliccando sul link, è ben difficile orientarsi per qualcuno che competente non lo è già. 

Ora, se è vero che l’autovalutazione è senz’altro un approccio rispettoso dell’esperienza e professionalità di qualunque persona, l’impressione è che, ancora una volta, si finisca con il passare la patata bollente, il problema, su chi già oggi è sovraccaricato di infiniti compiti, i docenti, appunto. Senza che questo sia accompagnato da investimenti seri in risorse, un aumento degli stipendi, tra i più bassi in Europa e anche tra i paesi Ocse, o anche solo da una indicazione precisa su come avvicinarsi concretamente a questi percorsi, soprattutto se si ritiene di essere ancora al “livello di Novizio”. Ai docenti è poi richiesto, per risolvere una propria carenza, di orientarsi in un’offerta formativa non standardizzata e mai garantita dal punto di vista della qualità, perché polverizzata nelle tantissime iniziative presenti sui territori e online. 

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Che la figura del docente sia centrale lo riconosce perfino Valditara, che contestualmente all’introduzione del divieto, ha commentato i risultati dei test Invalsi 2024 evidenziando il netto miglioramento “sin dalla scuola primaria dei rendimenti dei nostri studenti”. Un dato in contraddizione con le considerazioni che il divieto lo hanno ispirato. Ma soprattutto, soddisfatto da questi dati, Valditara ha proseguito annunciando di voler continuare sulla strada di una didattica innovativa, favorendo sempre più la personalizzazione dell’apprendimento. “Cruciale è e sarà il ruolo dei nostri insegnanti,” ha aggiunto, “fondamentali per riaccendere l’entusiasmo, per alimentare quella comunità educante che deve essere la scuola”.

E dunque, ci viene da chiedere, se tanto si tiene a una scuola di qualità, che sia promotrice di uno sviluppo adeguato dei cittadini e delle cittadine del domani, perché non lasciar perdere le misure furbe e banalmente propagandistiche, come quella del divieto tout court del cellulare,  e lavorare seriamente per mettere nella migliore condizione di lavoro, riconoscendone la piena autonomia ma anche il grande valore sociale e culturale anche attraverso risorse economiche non vergognose, adeguate e decenti e percorsi formativi seri e aggiornati proprio questi protagonisti centrali della formazione oggi, cioè il quasi milione di docenti della scuola italiana?

Immagine in anteprima via startmag.it

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