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L’ondata di proteste pro-Palestina nei campus universitari americani

29 Aprile 2024 7 min lettura

L’ondata di proteste pro-Palestina nei campus universitari americani

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Manifestazioni e accampamenti in 55 campus, cariche della polizia chiamata dai rettori, più di 800 arresti in almeno cinque atenei e poi polemiche furibonde sull'uso della forza nelle università. Negli USA dilagano le proteste contro Israele per come ha reagito agli attacchi di Hamas del 7 ottobre, portando la devastazione a Gaza, e per la gestione della crisi da parte dell’amministrazione Biden. Si tratta di una mobilitazione senza precedenti negli ultimi decenni, cresciuta dopo le prime proteste alla Columbia e diffusa in tutto il paese. 

Come anche in Italia, le proteste e la guerra a Gaza hanno dato vita a polemiche furibonde, accuse reciproche di antisemitismo, islamofobia, repressione del dissenso e discussioni attorno alla libertà di espressione, tutelata negli USA dal Primo emendamento (cosa è lecito dire e cosa diviene discorso d’odio?). A essere arrestati anche diversi professori, molti dei quali partecipavano alle manifestazioni o fungevano da “garanti” delle proteste. Qui e là nei campus e a prescindere dalla posizione assunta su Gaza, diversi professori  hanno protestato per l’ingresso della polizia a sgomberare campi di tende nella maggior parte dei casi pacifici.

L’accusa ai presidenti delle università è di aver contribuito ad alzare la tensione

Nadia Abu El-Haj, che insegna antropologia e dirige gli studi palestinesi a Columbia, ha scritto sulla New York Review of Books: “Dall'inizio della guerra è diventato quasi di rigore per le università censurare i discorsi che criticano il sionismo e Israele, soprattutto se a farli sono gli studenti”. Facendo appello a interpretazioni “straordinariamente ampie” di parole come “sicurezza”, “protezione” e “intimidazione”, la Columbia e altre università stanno “aggirando i principi del Primo Emendamento, la libertà di espressione”. Intervistata sulla repressione, la professoressa sostiene che nel campo regna un clima di tolleranza.

Nei resoconti dai campus si legge di un clima di intolleranza nei confronti degli studenti ebrei che si definiscono sionisti o che difendono la attuale politica del governo Netanyahu. Uno studente è stato esplulso dalla Columbia per aver detto pubblicamente che "gli studenti sionisti non meritano di vivere". Chi protesta punta il dito conto la repressione esagerata o i provocatori. Ci sono poi le pressioni dei grandi donatori delle università, i quali minaccerebbero di smettere di finanziarle, e il timore delle pressioni politiche dopo che le presidenti di Harvard e dell’Università della Pennsylvania si sono dimesse alla fine dello scorso anno, dopo aver dato risposte vaghe e non aver condannato alcuni episodi durante un’audizione in Congresso. 

Oltre a manifestare, gli studenti chiedono che le università smettano di investire in società collegate a Israele o che partecipano in qualche forma al suo sforzo bellico – non si parla di ricerca, ma della gestione delle finanze di queste università private che gestiscono quote non indifferenti di capitale. La richiesta di disinvestire/boicottare è un ricordo dei boicottaggi nei confronti del Sudafrica dell’apartheid e delle campagne ambientaliste che hanno fatto pressione e ottenuto che diverse università smettessero di investire in azioni di multinazionali degli idrocarburi. Naturalmente il disinvestimento è un atto simbolico: per quanto ricche, le università USA non sono in grado di condizionare l’andamento delle azioni di un grande gruppo industriale.

Attorno alle proteste c’è l’evidente imbarazzo del Partito Democratico. Nell’anno delle elezioni presidenziali si vede attaccato da componenti (studenti, arabo-americani) che votano in grande maggioranza per loro e che potrebbero decidere di restare a casa il prossimo novembre. Lo spettro di una convention rovinata dalle proteste come avvenne con quelle contro la guerra in Vietnam nel 1968 agita i sonni dei collaboratori di Biden – la convention del 1968 si tenne a Chicago, come quella del 2024, e quell’anno portò Nixon alla Casa Bianca. 

In un anno elettorale anche la politica fa pressioni e si fa coinvolgere, con la sinistra sandersiana a sostenere le proteste e alcuni eletti democratici e repubblicani a chiedere che vengano silenziate. I repubblicani si fregano le mani per le difficoltà degli avversari e hanno alzato il tiro: il leader repubblicano della Camera Johnson, sotto accusa dall’ala trumpiana per aver portato a casa gli aiuti militari all’Ucraina, è andato a sfidare gli studenti con una conferenza stampa nel campus di Columbia, durante la quale ha chiesto le dimissioni della presidente Minouche Shafik. Per i repubblicani non si tratta di convincere il voto ebraico, ma di mostrare come l’America di Biden sia l’America del caos.

Politica a parte, la guerra a Gaza ha portato nella società USA una serie di temi che hanno anche a che vedere con la identità dei gruppi e la percezione delle cose sull’asse generazionale. Tutti i sondaggi evidenziano una frattura tra i sostenitori di Israele (in larga parte anziani) e quelli della Palestina (più giovani) e, comunque, un’attitudine tendenzialmente negativa nei confronti del premier israeliano Netanyahu e del modo in cui sta conducendo le operazioni militari. La sfiducia nei suoi confronti è passata dal 42% nel 2023, al 52% del marzo 2024.

In entrambi gli schieramenti convivono punti di vista diversi, toni estremi al limite dell'antisemitismo o dell'islamofobia, toni ragionevoli di angoscia per quanto capita ai palestinesi a Gaza e in Cisgiordiana, e di preoccupazione per parenti e amici in Israele. Da parte di entrambi gli schieramenti si assiste anche a una manipolazione e deformazione del messaggio dell'altra parte. Un esempio perfetto di risposta a questa manipolazione è un comunicato degli studenti di Columbia che protestano per essere definiti antisemiti e scrivono: “Siamo frustrati dalle distrazioni dei media che si concentrano sugli atteggiamenti di alcuni individui che non ci rappresentano. Rifiutiamo fermamente qualsiasi forma di odio e ci opponiamo ai tentativi dei non studenti di colpire la nostra solidarietà”. Gli studenti parlano di “massacro” a Gaza e non di “genocidio” e ribadiscono di essere cristiani, ebrei, musulmani chiedendo alla loro università di cancellare gli investimenti in asset legati ad Israele (non si parla di ricerca ma di gestione delle finanze universitarie). 

Gli studenti negano - o non vedono - che alcuni slogan e atteggiamenti della loro protesta possono alimentare l’antisemitismo, ma segnalano la presenza di non studenti alle loro proteste e spiegano che attorno al campus alcuni di loro sarebbero stati aggrediti. Al contempo, le risposte sui social al comunicato degli studenti di Columbia sono significative del negare ogni legittimità alla protesta e accusare chi la conduce di essere “amico dell’ISIS”, a sua volta “genocida”, nazista. In entrambi i casi, con un’operazione che vediamo anche nel nostro paese, si decide di selezionare i profili e le dichiarazioni per gettare cattiva luce su chi protesta o sulla comunità ebraica (tutti filo Hamas Vs. tutti sionisti amici dei coloni). Intervistata dalla NYRB, ancora Abu El-Haj, dice: "Ho sentito parlare di insulti antisemiti nel campus. So che qualcuno ha disegnato una svastica nell'edificio della School of International and Public Affairs. Non dubito che ci siano casi di antisemitismo. Ho anche sentito molti resoconti di studenti musulmani a cui è stato tolto l'hijab, o di studenti che indossavano la kefiah che sono stati chiamati terroristi, e di studenti ebrei antisionisti che sono stati maledetti e chiamati kapos dai loro compagni ebrei. Queste cose accadono sempre ai margini. Ma è essenziale riconoscere che le molestie non riguardano solo gli studenti ebrei e che non sono così diffuse nei campus come suggerisce la stampa".

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Nelle università americane stiamo insomma vedendo in parte anche forme di disumanizzazione reciproca. Una disumanizzazione che continua, tra chi accusa chi protesta di infischiarsene degli ostaggi e non vede la strage di civili a Gaza, e chi vede solo i bambini palestinesi uccisi e non si preoccupa per gli ostaggi nelle mani di Hamas. E così abbiamo assistito a comunicati come quello degli studenti di Harvard nei giorni successivi al 7 ottobre in cui leggevamo che “la responsabilità dell’attacco di Hamas è tutta di Israele” e ad allusioni come quelle di un ex diplomatico israeliano, che postando una foto delle tende piantate sulle aiuole di Columbia insinua (più o meno) si è lasciato andare ai complottismi: “le tende sono tutte uguali e verdi, è evidente che c’è una mano dietro”. Due esempi estremi per segnalare come anche negli Stati Uniti l’identità comunitaria giochi un ruolo enorme in questa vicenda, nonostante le voci che invocano un altro modo di guardare al conflitto israelo-palestinese siano molte e diverse anche in quel paese (non solo ebrei “anti sionisti” come quelli di Jewish Voice for Peace). 

Chi accusa gli studenti di antisemitismo lo fa perché questi usano toni e slogan (“dal fiume al mare”) che suonano inaccettabili (e condannate da una mozione votata in Congresso), o una minaccia a chiunque senta una connessione con Israele. Chi fa queste accuse spesso dimentica che i movimenti studenteschi spesso hanno al loro interno posizioni radicali e slogan non mediati dal calcolo politico, “di pancia”. Del resto, ancora i sondaggi ci dicono come Netanyahu sia impopolare non solo tra i giovani, e come la maggioranza degli americani ritenga che la risposta israeliana al raid di Hamas non sia accettabile. La maggioranza degli elettori democratici (e il 44% del totale) ritiene che gli USA non dovrebbero fornire armi a Israele e 4 su 5 giovani americani sono per il cessate il fuoco immediato. Al netto di episodi ingiustificabili e al netto del modo in cui vengono raccontate le tendopoli nei campus, la protesta degli studenti non è minoritaria o marginale ma risuona con una parte importante della società USA. Alla Casa Bianca farebbero bene a tenerne conto, visto che mancano sei mesi al voto. Condannare antisemitismo e islamofobia come ha fatto la Casa Bianca dopo che da una manifestazione pro Israele organizzata da un gruppo cristiano evangelico ha gridato "Vattene a Gaza" contro uno studente non basterà.

Immagine in anteprima: frame video BBC via YouTube

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