Perché i russi non protestano
3 min letturadi Daria Kryukova – rifugiata politica in Italia, Associazione Russi Liberi in Italia
Mi chiedono spesso: «Ma davvero i russi non sanno e non capiscono cosa sta facendo l’esercito russo in Ucraina?». La mia risposta è semplice: lo sanno. E lo capiscono. Tutti. O quasi. Fatta eccezione per una minoranza marginale di fanatici “Z”, il resto della popolazione è perfettamente consapevole.
Non a caso, dopo l’inizio della guerra, in Russia è esplosa la domanda di libri su Hitler e sulla Germania nazista, così come dei classici distopici. Tra gli autori più venduti nel 2022 c’erano Erich Maria Remarque e George Orwell. Le librerie segnalavano vendite record di 1984, L’uomo in cerca di senso di Viktor Frankl, La scelta di Edith Eger — libri che parlano della sopravvivenza nei lager e dell’orrore umano. Dopo l’inizio della mobilitazione, sono diventati popolari anche testi come La nazione mobilitata. Germania 1939–1945 di Nicholas Stargardt, che racconta come i cittadini tedeschi percepivano la guerra.
I russi cercavano due risposte: come siamo arrivati fin qui? E soprattutto: come diavolo sopravvivere a tutto questo?
Il problema non è la mancanza di informazioni. Il problema nasce quando ti dai una risposta sincera a domande come:
– La Russia bombarda i civili?
– Ha iniziato questa guerra per conquista, non per difesa?
– L’esercito russo commette crimini di guerra?
E appena rispondi “sì”, arriva la vera domanda: e adesso?
E qui tutto si blocca. Perché il cittadino russo medio non può fare nulla. Non parlatemi di proteste: protestare oggi significa rischiare il lavoro, la libertà, la famiglia o la vita. È un atto eroico, ma quasi impossibile.
E allora, come si vive sapendo che il tuo Stato commette crimini orribili e che tu non puoi fermarlo? La verità è che non si vive, si sopravvive. Quel senso di impotenza ti corrode dentro. Io l’ho provato in prima persona: nel 2022 ho passato mesi a piangere ogni giorno. E io sono fuggita quasi subito, per quelli invece che sono rimasti è ancora più difficile.
Chi è rimasto, spesso ha trovato modi per anestetizzarsi. Prendiamo la mia amica Anna, che lavora nel settore IT a Mosca. Dopo l’inizio della guerra, quasi tutti i suoi colleghi se ne sono andati all’estero. Come ha detto lei stessa: “La mia Mosca non c’è più”. Ed è cosi.
Lei però è rimasta. E nel mondo informativo di Anna, la guerra non esiste. Sì, è contro, ovviamente. Ma intanto continua a lavorare in una grande banca, trova soddisfazione nel suo lavoro e ha una vita piena di hobby. L’unica cosa che ogni tanto rompe la bolla sono gli annunci di reclutamento militare che compaiono ovunque, anche a Mosca.
Oppure c’è la mia amica Vika. All’inizio della guerra piangevamo insieme. Poi io sono partita, lei no. Col tempo ha cominciato a dire cose come: “Sì, siamo colpevoli, ma anche gli altri non sono innocenti”. Il classico “non è tutto così chiaro”, o il famigerato “e allora l’America?”. Non perché ci creda davvero. Ma perché è l’unico modo per sopravvivere emotivamente. Guardare la verità in faccia senza giustificazioni ogni giorno ti spezza.
Ciò che vediamo non è ignoranza, è una strategia inconscia di sopravvivenza psichica. La propaganda non serve solo a mentire: serve a proteggere la psiche collettiva anche per questo va cosi bene. Fornisce una narrazione più sopportabile, in cui non si è complici. È autoinganno, sì — ma autoinganno necessario, per molti.
Il pensiero critico, in Russia oggi, è un lusso pericoloso. Perché chi pensa criticamente, rischia di cadere nella disperazione. Ed è proprio questo il dramma: la guerra ha ucciso non solo corpi, ma anche la capacità morale di resistere. La Russia contemporanea ha distrutto ogni spazio per l’azione etica individuale. E senza possibilità di agire, la coscienza finisce anestetizzata, come un corpo in coma farmacologico per non sentire dolore.
No, non tutti i russi sono buoni. Non tutti sono vittime. Ma chi giudica il silenzio della maggioranza senza capire il prezzo psicologico di quel silenzio, commette una semplificazione crudele. Chi pretende che milioni di persone escano in piazza contro una dittatura armata fino ai denti, senza alcuno spazio politico, senza reti civiche, senza garanzie di sopravvivenza — non ha compreso nulla della natura del potere assoluto. La resistenza, nei regimi totalitari, non nasce per decreto morale. Nasce quando si apre una possibilità concreta di agire. Prima la finestra, poi il movimento. Non il contrario.
È facile chiedere coraggio da lontano. Molto più difficile è capire cosa succede quando il coraggio ti può uccidere, e il silenzio è l’unico modo per non impazzire del tutto.
Immagine in anteprima: Silar, CC BY-SA 4.0, via Wikimedia Commons








Jack
Perché non si sono ribellati? È un interrogativo ricorrente presso coloro che non vivono in una dittatura: qual è il discrimine fra consenso, complicità, conformismo, rimozione? Ovvero, più banalmente, come si fa a sopravvivere in una dittatura? Ogni popolo, in qualsiasi circostanza, porta una responsabilità per le azioni del proprio governo ma a me non sembra onesto biasimare i russi per non insorgere contro il tiranno, e non solo perché anche noi italiani abbiamo avuto una lunga dittatura e non ci siamo ribellati contro le sue angherie e follie sanguinarie fino a quando non abbiamo potuto contare sulla presenza di una forza alleata. Prima di criticare i russi dovremmo pensare a quello che abbiamo fatto nella democratica Italia e nella democratica Europa quando il regime di Putin ha imposto la sua violenza terroristica dentro e fuori la Federazione russa, e le nostre classi dirigenti sono state ben liete di rendersene complici volgendo sistematicamente lo sguardo altrove, moltiplicando gli accordi economici, accettando prestiti, elogiando la Russia di Putin come un baluardo dei “valori cristiani tradizionali” occidentali contro le orde islamiche, un formulario molto in voga presso le nostre destre bianche e cristianissime (le quali, per inciso, non hanno sentito finora il bisogno di un’autocritica). Non molti anni fa, per limitarmi al pollaio di casa nostra, Meloni e Salvini chiedevano rumorosamente di rimuovere le prime sanzioni applicate dall’Unione Europea dopo l’annessione russa della Crimea perché dannose per l’Italia (evidentemente il loro concetto dell’onore della “Nazione” segue una geometria variabile), mentre l’allora leader del centro-destra si vantava col suo sorriso smagliante di essere fra i più cari amici dell’autocrate di Mosca: ma noi non ci siamo ribellati, anche se per farlo bastava impugnare una scheda elettorale e una matita, ed anzi abbiamo insediato queste forze al governo del paese. Non abbiamo preteso ed imposto pacificamente, con la semplice forza dei numeri, un cambiamento di rotta alla nostra politica, ed è per questo che la questione della colpa oggi coinvolge non solo i russi ma anche noi europei, in un modo che solo parzialmente può dirsi indiretto: prima che ai russi dobbiamo chiedere conto a noi stessi, ricordando che per noi non valgono le attenuanti della censura, della propaganda, della repressione. È quasi impossibile abbattere una dittatura, e quelle che chiamiamo rivoluzioni arrivano di solito quando essa ha già perso la sua credibilità e la sua forza: almeno nel XX secolo le rivoluzioni riempiono un vuoto di potere che già si è prodotto, ma non sono esse a produrlo; molte cose debbono allinearsi perché crolli una dittatura moderna e sarebbe ingenuo pensare, a dispetto di tutte le retoriche, che basti l’eroismo della piazza. Resta certamente, innalzato al di sopra di ogni complessità storica, il valore morale esemplare del gesto di chi si ribella o degli anonimi senza potere che delegittimano in silenzio il regime negandogli il consenso, ma solo chi è disposto a questo ha il diritto di erigersi a giudice: e in un’Europa che anche oggi, mentre paga il prezzo della propria vigliacca complicità, vede ancora larghe fette dell’opinione pubblica e delle classi dirigenti prostrate alle ragioni del tiranno chi può arrogarsi lo scranno e la toga? Sono certo che, come in altri casi, la storia non assolverà i russi dalle loro responsabilità di oggi, ma non possiamo essere noi i giudici: saremmo infatti due volte ipocriti, quando leggo proprio in questi giorni di esportazioni, da parte di imprese italiane, di materiale dual use che alimenta la macchina militare russa proseguite per tutto questo tempo a dispetto delle sanzioni senza alcuna vigilanza da parte delle autorità italiane; per tacere ovviamente di altre complicità e omissioni più o meno rivoltanti. Nessun popolo è innocente dell’operato del proprio governo salvo le vittime, non i tedeschi del nazismo, non i russi di Putin, non gli israeliani di Netanyahu e così via, ma Jaspers ci insegna che la questione della colpa si allarga per cerchi concentrici: se la responsabilità giuridica dei crimini è esclusivamente individuale, quella politica e morale non ricade solo sul popolo che ha eletto i criminali e ne tollera gli atti ma anche su chi finge di non vedere. E se oggi piace elogiare la vigliaccheria e la corruzione chiamandoli pragmatismo e scaltro realismo è solo perché anche il significato delle parole, come nella guerra civile di Corcira, non è stato risparmiato dallo stravolgimento della violenza: poiché sarebbe davvero un realismo assai poco pragmatico quello di chi, convinto di poter farsi beffe del rispetto e dell’umanità in nome degli interessi, ha calpestato quelli per compromettere questi.
Franco
Un breve mio commento : Comprendo la paura di manifestare contro un regime totalitario , ma c'é chi lo fa , con coraggio e finisce nelle patrie galere russe : il popolo LGBT . Anche loro perdono tutto ma non si rendono responsabili dei crimini che putin commetto ogni giorno . E' vero che in Italia abbiamo avuto il fascismo , "anche i muri avevano orecchie " , ma è anche vero che ci fu la resistenza armata dei partigiani . Quello che mi chiedo è se il popolo russo contrario al regime , vuole continuare ad essere pecora . In Ucraina abbiamo smesso di esserlo e speriamo negli amici russi . Solo cosi si potrà davvero avere la libertà e di nuovo l'amicizia .
Cherudek
Intanto io penso ai romeni, che a un certo punto hanno detto basta. E non mi pare che il regime di Ceaușescu fosse moderato, gentile e comprensivo con chi protestava.